Mariangela Gualtieri: la misura e l’amore

11 Luglio 2024

La poesia di Mariangela Gualtieri è incanto e co-scienza. Parla in assenza di logos, perché la parola poetica è oltre il logos, è poietica, infatti dà forma alle parole, come la scultura, crea. La sua poesia, come scrive Christian Bobin “entra nel mondo come in una casa amica, rivela l’oggetto, lo porta a rivelarsi”.

Parole che sono suono, ritmo, vibrazione e movimento. André Malraux, in un suo romanzo del 1926, La tentation de l’Occident, dice che quando pronunciamo la parola gatto, nella mente non domina l’immagine statica del gatto, ma certi movimenti agili e silenziosi tipici del gatto. La parola poetica coglie le relazioni, i nessi, il continuo divenire della realtà, perché – scrive il poeta cinese Lu Ji – con la poesia: “riportiamo parole vive,/ come pesci presi all’amo/ che balzano dal profondo”, emerge l’invisibile, che preme per uscire da quel dietro. 

Mariangela Gualtieri sembra incarnare questo sguardo nel condurci a vedere le cose nella loro essenza, fino a toccarne il cuore. La sua poesia scopre somiglianze e sta in intimità con ogni cosa. Poesia come rivelazione del fondo poetico della mente. Per questo è difficile scrivere della sua poesia, fare prosa della poesia. La poesia va mostrata, amplificata, non va spiegata. Posso allora cercare di far lavorare la sua poesia, così come ci ha insegnato lo psicoanalista Pierre Fedida invitandoci a “far lavorare i sogni” piuttosto che spegnerli e depotenziarli, interpretandoli. Facciamo lavorare allora le parole di Gualtieri, usiamole per scolpire, per zappare: “abbiamo queste zappatrici parole che dissodano il ghiaccio dei petti.”

La sua poesia è efficace, fa anima: “poiché io credo nelle parole,/ nel loro celeste di parole, nel loro rosso acceso. Poiché/ io credo possano fermare,/ sciogliere. Incendiare,/ dare da mangiare. Fare nascere./ Fare ballare.” Sono parole, le sue, dove tace “il furore delle nostre teste malate”.

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In questa ancora una volta sua straordinaria raccolta di poesie – Ruvido umano – c’è un grido, una esortazione urbana e planetaria – l’ultima chiamata, perché “la terra respira poco. Fa fatica”. È presente ancora malgrado tutto la speranza che “miglioreremo, siamo qui da poco”, ma c’è anche una profonda indignazione e durezza nelle parole che usa verso l’umano disattento e non in ascolto, e non si rende conto che siamo alla fine, ed è urgente che diventiamo consapevoli perché “siamo l’ultima specie umana.” Questo grido noi umani lo dobbiamo raccogliere, e se facciamo lavorare dentro e fuori di noi le sue poesie – se zappiamo con le parole della poesia – attenti e in ascolto del visibile e dell’invisibile a cui ci invitano, se il nostro cuore non si indurisce, forse sogni e poesie potranno diventare realtà. E la fine non verrà. Disincanto e incanto, durezza e dolcezza, scoramento e speranza si intrecciano in Ruvido umano.

A chi dobbiamo guardare? Da chi farci guidare? Dalla natura, dagli animali, tramite per “penetrare le segrete cose”.

Nella natura si trovano frammenti di un alfabeto antico – scrive Christian Bobin nell’Homme-joie – frammenti di parole, grandi spazi blu di silenzio. Capita a volte che, non si sa grazie a cosa, alcune lettere si uniscano e appaiano parole. È quello che succede se guardiamo il mondo con gli occhi d’oro.

Le vediamo. Le leggiamo, ma queste parole non rimangono, spariscono velocemente.

Esperienze nelle quali l’individuo sperimenta stati di coscienza che oltrepassano i limiti di quella ordinaria. Sentimento oceanico. Ri-connessione.

La natura spesso ci consente questo tipo di esperienza, e questo accade probabilmente perché per millenni l’uomo ha cercato il divino nella natura, e anche perché la natura sembra toccare qualcosa di profondo nell’animo umano e fa svanire quella che i buddisti chiamano “l’illusione di essere un io separato dal resto”.

Gli occhi d’oro, ci permettono di vedere l’invisibile che sta oltre quello che abbiamo davanti, che gli occhi di carne non riescono a vedere. Gli occhi d’oro sono occhi che ci mostrano questi legami nascosti, in una sorta di trasfigurazione della realtà.

Gualtieri ha occhi d’oro, che sanno vedere oltre, e ci mostra dove guardare per vedere quell’invisibile che continua a cercare di parlarci. Per imparare a vedere dovremmo “frequentare/ la scuola superiore dei fiori, degli alberi sapienti,/ dei pesci, la scuola degli uccelli del cielo,/ l’alta scuola internazionale/ dell’acqua da bere, dell’acqua del mare.” E ancora dovremmo brucare, perché brucare “è ficcare il muso nel complimento”, e leggere “le singolari sillabe del prato”, “il luogo dove si cova ogni seme e ogni radice intelligente”.

Quando Gualtieri ci parla del fiore o dell’ape, dello spuntare dell’erba, per lei gli atti e i soggetti sono presenti nell’atto di scrivere, vivono e prendono forma mentre scrive e li nomina. Empatia tra parola e realtà. Perché Gualtieri non ci parla della Natura, non si misura con essa, ma sta con lei, la tocca, la respira, rivela ciò che non è palese. Respirare l’ombra, come scrive l’artista Giuseppe Penone, perché “l’uomo non è spettatore o attore, ma semplicemente natura”. Vale per Gualtieri quello che il critico d’arte Francesco Stocchi scrive dell’artista Penone “L’io narrante si confonde con Lei, la Natura”, e così facendo ci porta dentro il mistero della Natura, che è anche quello della nostra esistenza. Un io minuscolo, non arrogante. E allora diventiamo intimi al mondo – diamo del tu all’animale e al fiore – respiriamo l’ombra e la luce, vediamo con l’occhio del mare, “veggenti solo per un istante e poi di nuovo a mollo nel pensiero disturbante”.

Ma quanto lontani siamo da tutto questo? Non abbiamo nemmeno più i piedi per terra, abbiamo dimenticato che “l’ape, che il lombrico, che anche la formica, è più necessaria di te e di me”. Dobbiamo ricordarci che non siamo i migliori, ci esorta la poetessa: “Ancora non capiamo. Ancora guerreggiamo. Perché vi fate male fratelli? Vi fate brutti e soli. Eppure. La bellezza ancora. C’era.”

Ascoltiamo il pensiero della Natura non umana di cui siamo parte, che è parte di noi. “È potente la terra. Viva per davvero. Io la sento pensante di un pensiero che noi non conosciamo. Io ascolto lo sgomento dell’animale che sono.”

Necessita avere pietà, perché “tutto sta in attesa di una pietà, tutto implora una nostra resa.” 

Se “l’albero ragiona per regalare foglie alla primavera” – e, come Penone scrive, la coscienza e l’intelligenza di un albero la possiamo dedurre dalla sua forma – il nostro ragionare a cosa ci ha portato? Cosa ha comportato?

Nella vita collettiva soprattutto quella occidentale – che di fatto è la cultura dominante –, è storicamente prevalsa una sola forma dell’energia, quella maschile. È mia convinzione che tale situazione abbia contribuito ad ammalare il genere umano tutto e il mondo intero. Mi riferisco qui alle riflessioni presenti nel libro di Marco Manzoni, Salvare il futuro. Dall’Homo hybris all’homo pathos Moretti e Vitali, (2021), e all’Enciclica di Papa Francesco Laudato sì, in cui si dice che l’uomo dovrebbe essere il custode del creato, mentre l’Homo hybris domina e distrugge, il femminile, il mondo, tutto.

Sappiamo che quando le energie non sono in equilibrio, ma c’è l’ipertrofia di una energia a scapito dell’altra ci troviamo di fronte al loro volto peggiore. E l’Homo hybris è la degenerazione, l’ombra dell’energia maschile, negli uomini e nelle donne. 

Dobbiamo riscoprire il femminile in uomini e nelle donne. Custodire. Essere gentili.

“Sii gentile, che non serve/ sbattere e sopraffare, invadere. Non serve/ imperare, potenziare. Bastonare”, dice Gualtieri.

Bisogna ritrovare una fratellanza con le pietre e le piante, quando “svapora il pensiero ragionante.” Lo sanno i bambini e gli animali, solo gli adulti sembrano averlo scordato. 

Il problema però è che – come Gualtieri ci aveva già detto in Sermone ai cuccioli della mia specie – oggi i nostri bambini sono rotti, indeboliti, non sono più bambini. “Dicono che siete rotti./ Siete sazi dicono. Corrotti./ Rovinati siete, come tutto il resto./ Anche voi nella lista lunga delle/ perdite: l’acqua, l’aria, il silenzio,/ il pudore… Anche voi./ Stuprati siete, rotti. Vecchissimi e/ troppo stanchi per l’infanzia. Scarichi./ Vuoti”

Bisogna davvero più che mai ritornare bambini, guardare il mondo con quello sguardo da dentro, e come dice Gualtieri fare giuramento: “me li prendo tutti nel petto/ e li scampo,/ li porto in salvo”. Dobbiamo ritrovare il bambino dentro di noi che sa giocare, e non diventare quello che non avremmo mai voluto essere, e ribellarsi, non lasciarsi disinnescare. E vediamo quando oggi bambini e giovani siano spenti e tristi, senza la speranza di un futuro. Scrive la poetessa: “Voi che eravate le porte/ dei regno dei cieli… voi che somigliavate ai cuccioli/ degli altri animali… Nascete ancora, cuccioli. Restate./ Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate./ Siate”

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Opera di Wolfgang Tillmans.

Come ci ha detto anche il poeta Peter Handke: “Quando il bambino era bambino, non sapeva di essere un bambino, per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime erano un tutt’uno. Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu?” Dobbiamo tornare lì. Con un ritorno più avanti, cosciente. È possibile una nuova innocenza?

Per ritornare in quel luogo dobbiamo ritrovare un altro tempo, perché siamo troppo in quel correre incapace di gustare la delizia del fuori tempo. La grave malattia del mondo è proprio il nostro correre.  

Impariamo dagli animali, dal gatto: “La felina maestra… tiene per noi l’eterna lezione del fare niente. Avere niente. Così difficile per noi”. Perché è semplice curare, basta fermare, non contare niente.

Solo così possiamo vivere quel fuori tempo nel tempo, quel kairos, o la tempieterntà di cui parlava il teologo Raimon Pannikar. Abbandoniamo, almeno ogni tanto, il tempo che divora, il kronos che non rispetta il tempo dell’anima: “Addio tempo. Scavalchiamo. Acutizziamo l’essere fino alla scomparsa dei nomi. Fino a un tutto che rotola intero. Il sontuoso niente del cielo.”

Gli artisti, i poeti abitano questo tempo, lo percepiscono e per questo sono visionari. Scrive l’artista Giuseppe Penone: “Una diversa concezione del tempo è la condizione per meglio cogliere la realtà dell’albero in crescita e la sua fluidità. (…) Le singole cose concepiscono e misurano il tempo con i loro ritmi esistenziali, biologici, di formazione e di esistenza. La concezione del tempo che ha una farfalla, un fiore, un albero, un animale, un uomo, una pietra, una montagna, un fiume, un mare, un continente, un atomo produce la varietà infinita del pensiero e delle forme dell’universo.” 

Gli fa eco Gualtieri: “Affidarsi è la migliore cosa, non serve domandare. Consegnare il proprio niente il proprio respirare ad un niente più grande che respira e ingravida la terra intelligente.” Essere ramo d’albero per essere in ascolto trepidante dell’altrove. “Se mai potessi fare piano adottarne il silenzio mettere dentro di me il dondolio appena dei più esili rami.” 

Noi esseri umani non dovremmo avere fretta di rispondere con il logos, come ha fatto Edipo di fronte alla domanda della Sfinge. La risposta era giusta, ma la Sfinge è volata via gridando e ne sono seguite disgrazie. Il mistero ci chiede un’altra postura: stare in silenzio. “Restiamo galleggianti tra le tue domande sontuose. Ascoltiamo insieme il loro grande sottostante vuoto.”

In questo nostro mondo dominato dall’algoritmo, forse solo i sogni e la poesia ci possono salvare restituendoci alla nostra umana natura, perché se anche le macchine potessero arrivare mai a sognare, mancherebbe la parte più umana e misteriosa del sogno, come ha detto Freud, il suo ombelico, dove il senso si inabissa.

L’augurio più grande ci dice Gualtieri è poter tornare a casa dentro di te, per poter placare la nostalgia di non si sa cosa. Sentire il sodalizio fra tutto ciò che tace. “Quando il selvatico della terra cantava così forte e generava da ogni vita altra vita”, prima che la città fosse città, e il respiro attossicato. Diventare decentemente inconsci, direbbe Jung, inconsciarsi Antonino Ferro. La poesia ci aiuta in questo.

Scrive John Berger, a questo proposito, che la poesia parla alla ferita aperta e incita alla cura, e che il lavoro della poesia “è rimettere insieme ciò che la vita ha separato o la violenza fatto a pezzi. (…) La poesia non è in grado di rimediare a nessuna perdita, ma può sfidare lo spazio che separa. E lo fa attraverso l’opera costante di rimettere insieme ciò che è stato disperso”.

Le poesie di Gualtieri sono come preghiere. “C’è una preghiera che irraggia dal sole. Sento il pregare di tutto a una voce. Coro salutare che non mi esclude. Anzi mi lavora.” Anche la natura è forse preghiera: “La notte ti penso mare. Di essere tu forse immensa preghiera.”

La poesia come rimedio. Come cura: “spesso non vi è nulla di più essenziale di questa cura da opporre alla crudeltà e all’indifferenza del mondo” scrive Berger.

Quello che Mariangela Gualtieri ci propone è un nuovo umanesimo non antropocentrico, dove la vita è salva – come ci mostra anche Manzoni in Salvare il futuro – dove lo sguardo verso il mondo è pathos. È un’esortazione a prenderci cura e a ringraziare: “Ogni giorno, dare alla terra un sorso d’acqua, nutrire un animale, guardare spesso il cielo, leggere una poesia. Dire grazie. Abitare un silenzio con il corpo pregare.”

E poi la misura è l’amore. Come già Lou Andreas-Salomé – nell’opera Il mio ringraziamento a Freud (Bollati Boringhieri, 2006) – arrivava a sostenere che la guarigione è un atto d’amore, così la poetessa invita Amore a entrare “dentro le nostre teste malate”, e a “innamorarci ogni giorno, ogni giorno un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un colore, un canto… Innamorarci. Allora forse la pace viene, viene da sé e rimane”.                               

Mariangela ci esorta ad agire: “Prendilo tu fra le braccia che non pesa questo derelitto mondo rovinato. Sia tua la follia di chi crede che il fare di una basti”, ci invita a essere noi quella terra feconda “che prende il più piccolo seme e lo scatena nella sua interna legge”, perché “ciò che amiamo c’ingravida sempre.”

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In copertina, opera di Wolfgang Tillmans.

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