Douglas Sirk. Non solo melodramma
Germania, fine degli anni ’20 del XX secolo: la prima moglie di un regista teatrale diventa una fanatica nazista, gli sottrae il figlio e ne fa una star del cinema di regime. Negli anni successivi, il nostro regista potrà vedere suo figlio solo andando al cinema per guardare film nazisti. Fugge dalla Germania il più tardi possibile, si rifugia a Roma con la seconda moglie, un’attrice ebrea. Lì, accolto in un convento, viene aiutato dalle monache (astutissime) a fingersi gravemente malato per evitare il rimpatrio coatto. Una volta finita la Guerra torna in Germania alla ricerca del figlio, solo per aver la conferma della sua morte sul fronte orientale.
Questa non è la trama di un film di Douglas Sirk (al secolo Hans Detlef Sierck), regista di Magnifica ossessione (Magnificent Obsession) e Lo Specchio della vita (Imitation of Life), ma una parte, a lungo taciuta, della sua storia. Ora, a 35 anni dalla sua scomparsa, il Festival di Locarno (3-13 agosto 2022) gli dedica un’importante retrospettiva integrale, e in libreria arriva Lo specchio della vita (Il Saggiatore, 360 pp.), il libro intervista realizzato con Jon Halliday.
Nel 1959, finalmente all’apice del successo (Lo specchio della vita si posiziona al sesto posto nella classifica di fine anno dei film più visti in Nord America), Sirk si ritira, lascia Hollywood, lascia gli Stati Uniti, torna in Europa e trova rifugio in Svizzera. Seguono anni di oblio. Ci vorranno prima le parole appassionate di Godard e poi quelle infuocate di Fassbinder per accendere l’attenzione critica su di lui.
Godard scrive sui “Cahiers du Cinéma” una recensione “follemente elogiativa” di Tempo di vivere (A Time To Love, A Time To Die, 1958) quando Sirk è ancora in attività; per Godard è il film più bello della storia del cinema, dopo Il Piacere di Ophuls: «chi non ha mai visto o amato Liselotte Pulver correre sulla riva di non so più quale Reno o Danubio, abbassarsi bruscamente per passare sotto lo steccato, poi risollevarsi, hop, con un colpo di reni, chi non ha visto a questo punto la grossa Mitchell di Douglas Sirk abbassarsi contemporaneamente e poi, hop, risollevarsi con lo stesso morbido movimento di gambe, ebbene, costui non ha mai visto niente, o semplicemente non sa cosa sia la bellezza».
Del 1971 invece lo scritto di Fassbinder: «Nessuno di noi, né Godard né Fuller né io né nessun altro, siamo alla sua altezza. [Sirk] ha girato i film più teneri che io conosca: sono i film di un uomo che ama la gente invece di disprezzarla come facciamo noi»; continua poi esaltandone la creatività e il pessimismo, gli aspetti tecnici legati alla fotografia e alle scenografie, soffermandosi su sei film in particolare: «[...] ho visto troppo pochi suoi film; vorrei vederli tutti, tutti e trentanove. Forse allora avrei capito di più su me stesso, sulla mia vita, sui miei amici. Ho visto solo sei film di Douglas Sirk, erano i film più belli del mondo». Poi, nel 1974 Fassbinder scrive e dirige La paura mangia l'anima, un rifacimento di Secondo amore (All That Heaven Hallows) di Sirk, film del 1955 con Jane Wyman e Rock Hudson, che in seguito ha fatto da matrice anche per Lontano dal paradiso (2002) di Todd Haynes.
Poi ovviamente Pedro Almodóvar, con i suoi melodrammi punk, che non ha mai fatto mistero delle sue ispirazioni: «I grandi melodrammi degli anni ‘40 e ‘50, come quelli di Douglas Sirk, Lo specchio della vita, che ha girato con Lana Turner, Secondo amore, con Jane Wyman e Rock Hudson, tutti questi film di Douglas Sirk, li amo tantissimo e, per esempio, sono stati un'ispirazione per Tacchi a spillo». Fino ad arrivare a Wong Kar-wai, con i suoi amori sfortunati illuminati da luci artificiali e fioriture lunari, come Jane Wyman in Secondo amore e Lauren Bacall in Come le foglie al vento (Written in the Wind), immortalate tra riflessi e ombre cangianti – così, a tal proposito, Isabel Sandoval, la regista filippina di Lingua Franca: «I consider Douglas Sirk and Wong Kar-Wai to be kindred masters, expressing heartbreak and romantic suppression in the most lavish and extravagant of stylistic flourishes».
Amato – in tempi relativamente precoci – dai critici meno incantati, studiato dai registi più importanti della contemporaneità. Eppure, ancora nel 1987, nel “Castoro” a lui dedicato, Alberto Castellano poteva concludere osservando come il regista fosse stato a lungo vittima di un pregiudizio, una diffidenza critica verso il melodramma, il genere che meglio ha navigato. Negli anni questa diffidenza è andata incontro a un lento ma graduale disgelo e oggi il libro intervista di Jon Halliday trova finalmente posto in libreria in traduzione italiana. E non è, come potrebbe insinuare qualcuno, un testo minore, secondario: al contrario, non sfigura di fianco ai soliti Truffaut/Hitchcock, Bogdanovich/Welles, Fellini…
Ma, verrebbe da pensare, quella diffidenza e quel preconcetto verso i (melo)drammi di serie B – troppo popolari, lontani dall’epica fastosa e ridondante amata dalle Major, ma con le mani immerse nei meandri stagnanti della quotidianità – perdura tutt’oggi, anche tra critici ed editori.
Lo confessa anche il curatore dell’edizione italiana, Andrea Inzerillo, nell’introduzione: «Ho sentito pronunciare il nome di Douglas Sirk solo da pochi anni. [...] L'ignoranza spiegava solo in parte quell’assenza. Ho provato a indagare questo vuoto e ho scoperto che forse non era un caso né riguardava solo me, ma somigliava molto a una vera e propria rimozione». C’è un aggettivo che nessuno usa mai per il cinema di Sirk, ma che – colpevolmente! – in molti pensano, “frivolo”. Ovviamente, nulla di più sbagliato.
Il libro ci aiuta a ricostruire la figura di un regista a lungo incompreso, perché più difficile da mettere a fuoco rispetto a molti altri suoi colleghi. Per spiegare questa sua posizione possiamo fare un paragone, semplicistico forse, ma efficace: Sirk è stato un anti-Hitchcock. Hitchcock non era un intellettuale, ma un venditore. Veniva dal mondo della pubblicità ed è stato il primo regista a rendersi riconoscibile in tutto il mondo, a vendere il proprio personaggio, facendo di sé stesso un brand.
Sirk invece, raggiunto il successo si ritira, si nasconde. La sua è stata una formazione eterogenea, ha studiato giurisprudenza, filosofia e arte; ha seguito le lezioni di Erwin Panofsky all’Università di Amburgo e ha assistito a una conferenza di Albert Einstein sulla teoria della relatività. Insomma, è un intellettuale e a Hollywood non avrà vita facile. Fugge dalla Germania nazista abbandonando una brillante carriera, prima come regista teatrale e poi per il cinema, con alle spalle alcuni grandi successi girati per l’UFA (Universum-Film Aktien Gesellschaft) – La nona sinfonia, La prigioniera di Sidney e Habanera. Sogna di girare un film su Utrillo e sua madre, la pittrice Suzanne Valadon, uno sulla crociata dei bambini, di adattare per il grande schermo Una risata nel buio di Nabokov e Pylon di William Faulkner (in questo caso ce la farà, nel 1958 con Il trapezio della vita – ma in bianco e nero perché la Universal non credeva abbastanza nel progetto per investire nel Technicolor). Gli Studios cercano invece di appioppargli altri progetti, fra i quali i remake di Habanera, del Gabinetto del Dottor Caligari, di M di Fritz Lang, di Madame X (che aveva già diretto a teatro, ad Amburgo negli anni ‘20): Sirk preferisce evitare.
Il suo primo film negli Stati Uniti è una produzione completamente indipendente, Il pazzo di Hitler (Hitler's Madman, 1943): piace molto a Louis B. Mayer, che lo acquista per la MGM («era la prima volta in assoluto che la MGM comprava un film indipendente»). Sotto contratto con la Columbia come sceneggiatore, lavora poco: il produttore Harry Cohn lo ostacola, lui riesce comunque a girare Temporale d’estate (Summer Storm, tratto da Cechov), Lo sparviero di Londra (Lured) con Lucille Ball, allora reginetta dei B movie, e Donne e veleni (Sleep, My Love) con Claudette Colbert, due noir del filone damsel in distress dai quali è già possibile intuire che Sirk non è semplicemente un mestierante; «Ricordo – racconta il regista nel libro – che a Hollywood mi dicevano, Doug, non essere troppo arty. Era un termine che non avevo mai sentito prima, perché non esiste in nessuna altra lingua».
Detrattore di Metropolis ma fan di Rancho Notorius, amante di Renoir, Dreyer e Lubitsch, ma anche di Ford, di Kafka, Melville, Henry James (per la sua ambiguità), orgoglioso delle sue regie teatrali, meno di quelle cinematografiche (troppe interferenze da parte degli studios), Sirk è stato un regista che non ha potuto esprimere a pieno il suo potenziale, troppo europeo per gli Stati Uniti, ormai troppo americano per un’Europa in cui nemmeno lui si riconosceva più.
Il successo lo raggiunge con il melodramma, mettendo in scena il ceto borghese e le sue dinamiche soffocanti, il conformismo sociale e le nevrosi domestiche degli Stati Uniti. Sirk costruisce il suo discorso autoriale attorno a figure doppie, ambigue, sfuggenti. Accetta malvolentieri gli happy ending imposti dagli studios, li concepisce e li usa al pari del deus ex machina della tragedia greca. Dalla lunga intervista con Halliday si capisce come Sirk non sia mai stato un autore veramente libero o ascoltato, e dal suo corpus cinematografico emerge con evidenza una discrasia tra contenuto e forma.
«Se avessi dovuto mettere in scena a teatro Magnifica ossessione non ne sarei uscito vivo – racconta a Halliday – È un misto di kitsch, follia e trash. Ma la follia è molto importante, ed è capace di salvare un romanzo spazzatura come Magnifica ossessione – c’è una distanza piccolissima che separa la grande arte dalla spazzatura, e quando la spazzatura contiene elemento di follia, ecco allora che si avvicina ancora di più all’arte».
Se già in Uno scandalo a Parigi (A Scandal in Paris), Lo sparviero di Londra e Donne e Veleni (girati durante il purgatorio alla Columbia) è evidente la mano di un regista cosciente delle potenzialità della macchina da presa («motion is emotion»), con i film del “periodo d’oro”, Magnifica ossessione, Il trapezio della vita, Come le foglie al vento, Lo specchio della vita, non può non saltare all’occhio – anche dello spettatore più distratto – una tecnica e un gusto non così comuni tra i suoi coevi; nessuna delle pellicole a colori di Hitchcock è invecchiata così bene come Secondo amore o Come le foglie al vento – dal movimento di macchina che passa dalla finestra al primo piano della casa di Jane Wyman al piano terra dove la figlia amoreggia col suo spasimante, all’inquadratura split diopter di Foglie al vento che mette a fuoco contemporaneamente i primi piani di Lauren Bacall, Rock Hudson e Robert Stack.
I suoi racconti sono fatti di anti-suspense e presagi, animati dalla legge del desiderio e vessati da ingiustizie primordiali, la felicità esiste perché non dura, se durasse sarebbe qualcos’altro. I suoi protagonisti sono inadeguati, repressi, si muovono in schermi imposti dal sessismo, dal razzismo e dalla lotta di classe.
Viene ricordato come il re del melodramma, ma odiava le storie strappalacrime: «Se fossi stato americano probabilmente sarei diventato un regista di western, il cinema americano par excellence; puoi girare in esterni quando vuoi, ed è lì che mi piace stare». Dal teatro porta sul grande schermo la capacità di ricreare artificialmente dei contesti coerenti, non rincorre il verismo, gli esterni si amalgamano alla perfezione agli interni artefatti – le desolate strade desertiche punteggiate dai tralicci che vanno a braccetto con le pareti rosa shocking, gli specchi enormi e gli arredi di lusso dell’albergo di Come foglie al vento, non sono contrasti, ma complementarità che illustrano universi desolati e doppi, ambivalenti, nello sprofondo della cultura americana – una lezione ripresa, molti anni dopo, da un regista apparentemente lontanissimo da lui come il David Lynch di Velluto Blu.
Nel già ricordato “Castoro” del 1987, Castellano vede in Kylie e Marylee Hadley (Robert Stack e Dorothy Malone), i fratelli di Come le foglie al vento, “tare edipiche e complicità incestuose”; forse è più corretto vedere in loro una rivalità, in virtù dell’omosessualità repressa di Kylie (doppio, frustrato e malevolo), anche lui innamorato, come tutti, di Mitch Wayne (Rock Hudson), che non fa nulla per tutto il film. Se i suoi colleghi al soldo delle major hanno dovuto sforzarsi di essere meno espliciti per via delle restrizioni del Codice Hays, Sirk, uomo di lettere, al contrario era troppo sottile, interessato alle sfumature, ai non detti, insomma troppo criptico per la fame di didascalismo dell’industria cinematografica: «A teatro come nei film, il tipo di personaggio che mi ha sempre interessato e che ho sempre cercato di mettere in scena – anche nel melodramma – è il personaggio divorato dal dubbio, il personaggio ambiguo, che non è sicuro di niente. L’incertezza, la vaghezza delle aspirazioni umane sono al centro dei miei film».