Jacopo Benassi. Autoritratto criminale 

1 Maggio 2024

L’immagine davvero può essere qualcosa da raggiungere senza riuscirci, qualcosa che addirittura può esserci negato: un fuoco fatuo, un viso che resta voltato. Ci si inganna, infatti, a considerare l’immagine come foriera instancabile di un messaggio, come velo purissimo, come specchio del mondo; l’immagine a volte è volume, è corpo scalfito, trasportato, è ingombro. Nella mostra inaugurata lo scorso 27 febbraio alla GAM di Torino, “Autoritratto Criminale” di Jacopo Benassi, noto artista di La Spezia, nulla di quanto esposto ci viene incontro davvero. 

A ben guardare, il titolo della mostra inizia prima del titolo stesso: entrando nello spazio espositivo, ora diventato atelier e magazzino, luogo davvero dedito all’incompiuto, al divenire delle cose che saranno o non saranno, si attraversa un ingresso si direbbe vandalizzato, che non porta più il nome consueto di quest’area del museo, Wunderkammer. La parola kammer è stata infatti totalmente cancellata col colore e distrutta. Ѐ dunque la “camera” a essere tolta di mezzo, ed è una camera che a noi può suonare, nella traduzione dal tedesco, come vera e propria negazione/rinnegamento della “camera” fotografica, del mezzo senza il quale, ci dirà Benassi, comunque si può arrivare a parlare di fotografia. Ed è allo stesso tempo la pura esaltazione del Wunder, della meraviglia, lasciata libera e senza bisogno di una collocazione (la kammer) che ne localizzi l’esistenza, l’estensione. Si entra, dunque, in una città diversa e di un diverso dominio. Il meraviglioso generato senza “camera” (nella doppia accezione) è quello che ci attende varcata la soglia danneggiata. 

Una mostra che discute, tra gli altri aspetti, sul linguaggio fotografico e dell’immagine tutta, inserendosi nella migliore tradizione di ricerca in questa direzione: da quando Franco Vaccari iniziava a ragionare sul mezzo fotografico trovandovi una sua propria autonomia di volontà – il noto inconscio tecnologico – alle Verifiche di Ugo Mulas, la fotografia ha sempre cercato una strada per parlare di se stessa, mettendosi spesso in discussione e cercando il proprio “specifico” con accurate auto-vivisezioni. 

Anche in questo caso, allora, trovare un’esposizione di un artista fotografo in cui le immagini quasi non compaiono, o se compaiono sono martirizzate dentro cinghie spesse, accavallate, impilate su carrelli o appese a un gancio, desta quel felice scalpore di sapere la fotografia ancora capace di spingersi più in là dei suoi confini. 

L’immagine si fa corpo, entra nello spazio, nelle dimensioni, celandosi in tutti i modi: il “Panorama di La Spezia” (2022) non è che un muro che ci accoglie appena entrati, il retro di alcuni telai, un paio di ciabatte – firma inconfutabile dell’artista spezzino. Questo, di La Spezia, è tutto quello c’è da vedere. Un luogo che pare lasciato da poco, eppure trasportato e riprodotto. Un pezzo di stanza e niente più: il metodo sottrattivo genera sineddochi efficaci per raccontarci un mondo attraverso quello che si vede da un piccolo spiraglio, come quello che sulle pareti dello stesso “Panorama” è indicato come punto attraverso cui poter guardarne un altro, questa volta però tedesco, per ragioni che vedremo. 

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Jacopo Benassi, Serie di ritratti appesi, 2024, Courtesy Francesca Minini, Milano, Photo Giorgio Perottino.

Anche questo aspetto viene sollevato nell’opera di Benassi: lo sguardo, attraverso l’installazione, può vagare facilmente tra spazi geograficamente non comunicanti, riprodotti in un luogo ridottissimo. 

Ma, ricominciando dal principio per un momento, Jacopo Benassi ci istiga a rintracciare le tracce della sua dichiarata criminalità – l’autoritratto criminale – confessandosi da subito come membro di una categoria socialmente e tradizionalmente tenuta ai margini, dentro i confini delle carceri e delle schedature giudiziarie. L’immagine che si presta alla comunicazione della mostra è, infatti, “Autoritratto truccato da femmina” (2007) scattato con la consueta impietà del flash – consueta all’opera di Benassi, così come alle fotografie segnaletiche dei carcerati. In questo modo Benassi genera col suo lavoro una sorta di grande citazione al lavoro di Ando Gilardi e al suo libro Wanted!, pionieristico nel tracciare le linee di un’estetica in questo tipo di immagini, e riallacciandosi così anche a questo filone di discussione fotografica. 

Come il soggetto inseguito di nascosto e pedinato, sempre sfuggente, dell’opera Suite vénitienne (1980) di Sophie Calle, nella mostra di Benassi è il soggetto a essere sempre a un passo da noi, per poi scomparire dietro l’angolo e non farsi più prendere. Ed è così che impariamo che il soggetto, quando negato, si trasforma nell’ingombro di tutto quello che lo copre, come nell’opera “Adolf Hitler – museo delle cere di Londra” (2000), che rappresenta il “panorama tedesco” da guardare attraverso quello di La Spezia. Qui, una spessa serie di lastre di vetro sono tenute insieme, verticali, da una cinghia, mentre schiacciata dietro questi strati spunta appena la stampa di quella che sappiamo essere – perché lo leggiamo nel titolo – un ritratto della statua di cera di Hitler conservata al Madame Tussaud di Londra. Neanche la trasparenza, quando fatta volume e peso e ingombro, può più chiamarsi trasparenza, perché non lascia più vedere nulla di quanto le sta dietro, mentre l’immagine ci è offerta attraverso il solo tratto didascalico, e la fiducia che gli accordiamo. L’uso della cinghia, questo tema ricorrente nel discorso denso in cui ci conduce Benassi, è forse la frase che ricorre più spesso e che con più insistenza sottolinea quanto davvero l’immagine sia un peso a volte ingovernabile se non lo si tiene fermo e a freno, come il paziente psichiatrico con la camicia di forza, così anche più facile da spostare o trascinare. 

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Jacopo Benassi, Adolf Hitler - Museo delle cere di Londra, 2000, stampa fine art, cornice di legno e vetro, Courtesy Francesca Minini, Milano, Photo Giorgio Perottino. 

Forse per questo motivo l’epilogo, che sopraggiunge in fretta e che culmina col grande gesso a opera di Leonardo Bistolfi di Cesare Lombroso, pare chiudere un cerchio naturale: come racconta la curatrice della mostra, Elena Volpato, “in preparazione di questa mostra ho portato [Jacopo Benassi] a visitare i depositi, immaginando che qualcosa in lui potesse accadere davanti alla collezione dei nostri gessi. La visione del Lombroso di Bistolfi ha immediatamente cancellato tutto il resto, tutte le altre opere disposte sugli scaffali.” Il grande esaminatore di ritratti, di maschere di gesso, di conformazioni craniche, è ora osservato, sotto forma di statua di gesso, sotto un crudo riflettore che tanto richiama il flash utilizzato solitamente da Benassi nel suo lavoro. Riflettore che diventa opera a sua volta, “Luce che illumina la luce” (2024), ancora una volta esempio di ragionamento sulla struttura semantica dell’immagine stessa, soprattutto fotografica. 

Così come la trasparenza, fondamento tecnico e teorico che dà origine alla fotografia (la luce è trasparente, e pure il mirino, la lente dell’obiettivo, il bagno di sviluppo, come già intuiva Luigi Ghirri alla fine degli anni Ottanta nelle sue Lezioni di fotografia) può diventare il proprio opposto – il negativo di se stessa – anche la luce può vivere nel proprio sdoppiamento, illuminando qualcosa che è già comunque luce, se stessa. 

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Jacopo Benassi, Panorama di La Spezia, 2022 (particolare), opera ambientale: stampe artistiche, acrilici su tela, cornici d'artista, pannelli e strutture in legno, Dimensione variabile, Fondazione per l'arte moderna e contemporanea CRT, GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino, Photo Giorgio Perottino

Sempre Elena Volpato, a riguardo del lavoro di Benassi, afferma: “In Benassi, tutto ciò che affiora, affonda, e tutto ciò che affonda, affiora.” Anche in “Serie di ritratti appesi” (2024) infatti, non vediamo che venti cornici tenute sollevate da una gru da magazzino – in modo da farla quasi sembrare un’impiccagione, condanna storicamente più simbolica per la punizione dei prigionieri condannati – ma nessuna immagine, “affondate” tutte dentro la massa di legno che le confina. Così troviamo il fallimento dell’evidenza della fotografia e del ritratto, dei lineamenti di una persona fissati sulla stampa, messi a tacere semplicemente voltando l’immagine dall’altra parte, sovrapponendola ad altre. 

In un percorso che guarda alla storia della rappresentazione del “criminale” a partire dai teschi analizzati da Lombroso – e raccolti in un video – ai volti delle foto segnaletiche studiati da Ando Gilardi, la mostra di Jacopo Benassi può dirsi la conseguenza logica del ragionamento per superfici e contenitori della storia criminale, giungendo agli involucri finali, la cornice delle fotografie e il muro con cui veniamo accolti nella visita.

Quasi un gioco di matrioske: teschio, volto, cornice, muro non sono altro che la storia di tutti, i contenitori di tutte le storie umane, tutti criminali in potenza da schedare, a partire da Benassi stesso, autoritratto.  

L’autoritratto pare dunque essere il modo scelto dall’artista per costituirsi alla giustizia, composta in questo caso dagli spettatori stessi, come si vede già nel celebre M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (1931), dove il reo viene spudoratamente condannato dal popolo cittadino. A questo siamo infatti chiamati: guardare la fuga incessante di un profilo già dichiarato colpevole, vedere in lui quei tratti che senza saperlo potrebbero già appartenerci.

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Jacopo Benassi, Autoritratto criminale, 2024 (frame da video), Video, 3 minuti, Musica di Lori Goldston, Prodotto da Basement HQ 
Courtesy Francesca Minini, Milano, Collaborazione con il Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino.  

La mostra “Autoritratto Criminale” di Jacopo Benassi, a cura di Elena Volpato, è aperta dal 27 febbraio fino all’1 settembre 2024 negli spazi della Wunderkammer della GAM di Torino.

In copertina, Jacopo Benassi. Autoritratto Criminale, Installation View, In primo piano: J. Benassi, Serie di ritratti appesi, 2024, Sullo sfondo: L. Bistolfi, Monumento a Cesare Lombroso, 1910 ca. Photo Giorgio Perottino

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