Intervista a Paola Agosti

15 Novembre 2023

“Ricordo che mio padre Giorgio, dotato di un grande senso dell'umorismo, ripeteva spesso una frase per prendermi in giro: “ma a questa bambina, così sciocchina, che non ha interessi, cosa faremo fare da grande?”. E poi aggiungeva: “al massimo le troveremo un buon marito!”. Sono queste le parole con cui la fotografa Paola Agosti sceglie di dare avvio alla nostra intervista. Mi sembra davvero un ottimo inizio. Una frase che si potrebbe leggere fra le pagine di Lessico familiare, un ricordo pungente e allo stesso tempo affettuoso, a cui Paola ha risposto con il lavoro di un’intera vita. Da piemontese ligia al senso del dovere, nonostante dica spesso che si stanca facilmente, non ci pensa a dire un solo “no!” alle numerose proposte, come ha fatto per la mostra a Palau, in Sardegna, tenutasi in occasione del festival Isole che Parlano. 

Paola ha fotografato il movimento femminista, e nel 1976 ha realizzato per l’editore romano Savelli il libro Riprendiamoci la vita, da cui sono nati per osmosi altri progetti dedicati all’universo femminile, come Firmato Donna una mostra con i ritratti di cinquantasei delle più importanti scrittici italiane del ‘900 e La donna e la macchina (1983), che l’ha portata a fotografare le operaie che lavoravano nelle fabbriche del Nord-Ovest. E soprattutto altri due libri fondamentali ispirati alle opere di Nuto Revelli, Immagine del mondo dei vinti (1979), che rivelava una realtà di emarginazione alle porte di Torino, importante quanto Morire di classe di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, e Il destino era già lì (2015) dedicato alle donne che Revelli aveva intervistato. Ha pubblicato le sue fotografie su molti giornali, fra cui Il Corriere della Sera, La Stampa, L’Unità, Vie Nuove, L’Espresso, Time, Le Monde, Stern. E soprattutto su Noi Donne, il giornale dell’UDI, una collaborazione durata quasi vent’anni e fondamentale per la sua formazione. 

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Vignolo (CN), 1991. Paola Agosti con Nuto Revelli ©Giovanna Borgese.

Non mi accoglie a Torino, dove c’è la casa dei genitori e della sua infanzia, e nemmeno a Roma, in cui ha vissuto molti anni quando faceva la fotoreporter, ma in casa di un’amica che conosce da più di sessant’anni, a Brescia, dove ha presentato il suo libro Itinerari, il lungo viaggio di una fotografa (Postcart, 2023). Mi è parso un modo molto intimo di condividere l’amicizia con Camilla Bergamaschi, che mi ha ospitata senza avermi conosciuta prima. Questa circostanza ha reso più intimo il nostro colloquio al punto che ho spento il registratore e abbiamo continuato a parlarci e a dirci cose che normalmente, nella mia esperienza, vengono dette solo quando intervisto le donne. 

Carriera, prestigio, il mondo come scenario. Il tuo libro è la sintesi di un’intensa attività di donna, attivista e fotografa. C’è qualcosa che avresti voluto fare e non hai fatto? E qualcosa che ti rimproveri di aver fatto?
Beh… devo correggerti perché sono stata iscritta al P.C.I., sono stata simpatizzante del femminismo, ma attivista non sono mai stata, quindi in questo senso non mi considererei tale. Se ripenso a qualcosa che mi rimprovero di non aver fatto, e qui la vita personale si intreccia con quella professionale, potrei dire che nel 1981 René Burri e sua moglie Rosellina Mandel mi candidano per entrare alla Magnum. Poco dopo sono travolta da un abbandono amoroso che mi fa soffrire immensamente, per il quale starò male molto a lungo, quindi lascio perdere questa occasione. Questa è una cosa di cui mi dispiaccio ancora veramente molto. Certo, non so se mi avrebbero accolta, ma in quel momento il personale ha prevalso sul professionale. Poi grazie al lavoro mi sono ripresa, ma non sono stata capace di cogliere quell’opportunità…

E qualcosa che ti rimproveri di aver fatto?
In questo caso rispondere è più difficile. In termini professionali ho fatto ciò che ogni fotografo faceva per campare, ovvero accettare i lavori più diversi, e io ne ho realizzati tanti che non mi interessavano, che non mi piacevano. Però non mi sono pentita perché è stato un modo per me, completamente autodidatta, di impadronirmi del mestiere. 

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Roma, 1977 ©Paola Agosti.

Raccontaci un episodio legato a questo tipo di lavori…

Quando la sorella di Agnelli, Susanna, tramite una comune amica, mi chiede di fotografare la festa che Gianni Agnelli avrebbe dato a casa sua a Roma per il battesimo del bambino della ex modella Elle Macpherson, di cui era padrino, sono riuscita a farmi pagare, dopo parecchio tempo, solo perché  sapevo chi era la segretaria degli Agnelli, e quindi, attraverso varie amicizie torinesi sono arrivata a lei e le ho chiesto quello che mi spettava. C’è una cosa da chiarire bene. Noi non eravamo artisti, noi eravamo dei reporter, eravamo dei testimoni del nostro tempo, l'arte c'entrava relativamente poco, noi facevamo quel lavoro per vivere. E quando fai un lavoro per vivere, accetti di fare tante cose che non necessariamente ti piacciono. Poi, il fatto di avere le spalle più coperte di altri, mi può avere avvantaggiato, ma non più di tanto.

Lo scarto tra la tua situazione “privilegiata”, tu stessa ti definisci “torinese e borghese”, e quella delle realtà sociali svantaggiate con cui ti sei confrontata è stato uno stimolo ulteriore o uno svantaggio nell’approccio ad una fotografia sociale?

“Borghese e torinese” non sono definizioni che ho dato io di me stessa. Anzi, ci tengo a ribadire che sono apparse in un libro di memorie di uno dei miei stampatori romani. Come fossero due marchi. Io sicuramente sono torinese, non c'è niente di male; e sono anche borghese, però non nel senso con cui quell'aggettivo veniva utilizzato negli anni della contestazione, ovvero come categoria da combattere, antagonista al proletariato e alla classe lavoratrice, alle sue istanze che condividevo e sostenevo. Per quanto riguarda lo scarto tra la mia situazione e quella delle realtà sociali svantaggiate non è stato né uno stimolo e nemmeno un limite. Appartengo a una generazione che credeva di poter cambiare il mondo, credeva che sarebbe arrivata la rivoluzione, che saremmo stati tutti uguali, credeva nei principi sacrosanti del comunismo, e quindi, avvicinarmi alle persone, e soprattutto ai meno privilegiati di me era qualcosa di assolutamente naturale, doveroso. Non mi ponevo mai questo problema, non mi dicevo mai: “sono la signorina borghese di fronte a dei proletari o dei contadini”. No. Credo che in questi casi conti il rapporto umano che tu riesci a stabilire. Penso al “mondo dei vinti” al fatto di entrare in quelle case, di confrontarmi con quella realtà di così grande miseria, solitudine, abbandono. E penso che in quel caso è solo una questione di rispetto umano, di sguardo che tu devi avere verso il tuo prossimo che sta infinitamente peggio di te. Uno sguardo rispettoso che poi porterà a una testimonianza. All’epoca speravo che potesse accadere qualcosa, che potesse servire… ma forse vado fuori tema.

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Rapallo, 1984. Anna Maria Ortese ©Paola Agosti.

Racconta quello che vuoi…

Penso con quelle fotografie di aver lasciato anche una testimonianza visiva del profondo Nord, non solo del profondo Sud su cui avevano lavorato molti fotografi italiani. Penso che per me la lettura de Il mondo dei vinti di Revelli è stata veramente una folgorazione. E poi, in generale, quando sono entrata in tantissime case di gente che stava in una condizione sociale certamente peggiore della mia, ho cercato sempre di farlo con grande rispetto, considerazione, attenzione senza mai ritenermi, “diversa” da loro. 

Le tue fotografie sono indubbiamente “politiche”. Tra la dimensione celebrativa, quella d’occasione e quella “militante”, quale ti sembra sia stata a te più vicina?

Non sono d'accordo con quello che dici. 

Perché?

Non credo che la mia fotografia sia politica, credo invece che sia una fotografia di testimonianza che ha un valore in quanto tale; se pensi ai ritratti che ho fatto agli scrittori e agli intellettuali non c’è nulla di politico: lì ci sono dei signori fotografati a casa loro. Ma siccome molto spesso mi dicono che sono una fotografa militante, ultimamente mi sono stufata di negarlo e ho detto sì, effettivamente sono militante. Ti faccio un esempio: ho documentato il femminismo perché, nel 1976, un editore romano mi aveva commissionato un libro sull'argomento. In quello stesso anno seguii molte delle manifestazioni femministe che si tennero a Roma e iniziai a frequentare la Casa delle donne occupata mesi prima. Sono stata femminista come molte. Mi riconoscevo sicuramente nelle lotte che il movimento portava avanti. Grazie al lavoro mi consideravo una donna emancipata; tra l’altro venivo da una famiglia dove le donne erano tenute in grande considerazione e avevano studiato e lavorato.

La foto di Bruno Trentin mi ha ricordato i soffitti delle chiese barocche, dove, all’interno di un coro angelico e di uno sbuffo di nuvole, emerge il santo o il dio. Pensi che questo mio pensiero abbia un fondamento di verosimiglianza?
La tua analisi è molto lusinghiera, ma è merito di Noris Lazzarini se ho guardato con occhi diversi quella foto. Era una donna molto simpatica, che aveva lavorato a lungo con Lanfranco Colombo. Tanti anni fa mi aiutò a creare il mio portfolio e fu lei a scoprire quello scatto, a cui io non avevo dato alcuna importanza.

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Vallemosso (Biella), Lanificio Giuseppe Botto, 1983 ©Paola Agosti.

A me piace…

Anche a me adesso piace! Vedi, come è importante che altri guardino le tue foto e ti aiutino a scoprire e valorizzare il tuo lavoro. Sono molto colpita e ammirata dalla tua interpretazione. Credo di aver scattato quella foto nello stesso giorno in cui Bruno Trentin venne a Torino, durante una di quelle grandissime assemblee che si tennero nel cortile di Mirafiori per approvare il nuovo contratto dei metalmeccanici.  Siamo nel ‘73, e ancora c'erano molti operai che lavoravano in fabbrica. Recentemente ho riproposto, per una mostra, quella stessa foto ed ho messo come didascalia: “C'era una volta la FIAT”. Adesso non so quanta gente lavori a Mirafiori, ma credo che sia veramente una cifra irrilevante rispetto a quegli anni. 

La foto di Enrico Berlinguer sembra esprimere l’idea di un comunismo giovane, contrapposto a quello della Rivoluzione d’ottobre, un comunismo che guarda lontano, ed essendo giovane, è capace di andare lontano come un bambino in bicicletta.  Tuttavia la mise di Berlinguer ricorda più quella di un burocrate di partito, che non quella del leader del più grande e dinamico partito comunista d’Europa. Credi che questa foto esprima una contraddizione?

Ma figurati! Tu voli troppo con la fantasia! Lui era a Berlino proprio nell'ambito di quella Conferenza dei partiti comunisti europei di cui ti ho parlato, e quello era un attimo colto per strada. È banalmente un'istantanea! Ma mi fa piacere che tu dia questa interpretazione così ricca di significati, però ti confesso che questo intento non c'era assolutamente. Sai invece cosa mi aveva colpito? Berlino Est. Perché credo che all'epoca, a parte la mia esperienza a Cuba, io non ero mai stata in un Paese del cosiddetto socialismo reale. Mi aveva molto colpito quanto la città fosse vuota… Comunque a Berlinguer io ho fatto tante foto, ed alcune mi piacciono di più rispetto a questa, ne mostrano un aspetto meno conosciuto. Ricordo che gliele scattai nella Marsica mentre brindava con i compagni della federazione di Avezzano. Ricordo che la sua morte mi colpì moltissimo, come penso sia successo a tanti italiani. Regalai tutte le foto che lo ritraevano a sua figlia Bianca e oggi ne sono pentita perché erano dei bellissimi vintage …

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Tetto Ciapin, frazione di Roccasparvera (CN), 1977. Pietro Goletto ©Paola Agosti.

Parlaci del tuo rapporto con Nuto Revelli e del tuo libro Immagine del mondo dei vinti. Cosa pensi del rapporto tra parola e immagine, tra letteratura e fotografia?

Del mio lavoro su “Il mondo dei vinti” qualche cosa ho già detto all'inizio della nostra intervista.  Avevo la fortuna di conoscere Nuto Revelli fin da bambina, poiché anche lui era stato partigiano come lo è stato mio padre. C'era una vecchia amicizia che li legava e dopo aver letto, nell'estate del 78, quel meraviglioso libro, decisi che di quelle pagine volevo lasciare una testimonianza visiva. Andai quindi a Cuneo per incontrarlo e lui si dimostrò da subito molto disponibile. Disse che mi avrebbe aiutato, andai a conoscere alcuni dei suoi testimoni, che poi fotografai, a volte in sua presenza, a volte con quelli che Revelli nella sua introduzione definisce i mediatori, persone del posto che lo avevano aiutato a intervistare gli anziani, con racconti di vita avvincenti. È stato un lavoro molto interessante perché mi ha dato modo di entrare in realtà che non conoscevo, in quella realtà che Nuto definisce “il terzo mondo alle porte di Torino”: una situazione di grande abbandono, di grande solitudine, di grande miseria. E quindi devo dire che Il Mondo dei vinti continua a essere per me un libro bellissimo che consiglio di leggere a tutti. Aver potuto lasciare delle immagini non solo delle persone che Revelli aveva intervistato, ma anche dei luoghi, degli strumenti di lavoro, è stato il primo progetto di taglio etnografico che sono riuscita a realizzare. Mi ha portato lontano da Roma, dall'attualità, dalle tematiche che prima avevo documentato. Naturalmente, come ti ho detto, avevo già viaggiato in America Latina, però non conoscevo il mio Piemonte. Lavorai un anno circa su quel tema, e poi, molto più avanti lavorai all’altro libro di Nuto Revelli, L'anello forte nato da una raccolta di interviste solo alle donne.

Negli anni Settanta era fondamentale l’impegno politico, e ad una intellettuale si chiedeva un’esplicita adesione ad un partito o movimento. Tu ti sei mai considerata un’intellettuale organica, nel senso tradizionale del termine?

No, assolutamente. Anzi, una volta sono stata definita tale, da un giornalista che scrisse un articolo su di me per una rivista fotografica, e mi venne veramente da ridere!

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Berlino Est, 1976. Leonid Brežnev e Erich Honecker alla Conferenza dei partiti comunisti europei ©Paola Agosti.

Nel tuo libro affermi: “trovo che [la fotografia] abbia avuto un ruolo contraddittorio rispetto all’emancipazione e alla liberazione femminile: racconta la condizione della donna ma veicola stereotipi”. Puoi approfondire questo aspetto?

Lo stereotipo che viene veicolato è sempre legato all'immagine della donna giovane, bella, con un corpo che deve essere perfetto. Mi ricordo che negli anni in cui io lavoravo intensamente intorno alle tematiche femminili, e non solo femministe, anche i giornali più impegnati, per vendere, in copertina mettevano sempre un'immagine femminile, che spesso non c'entrava niente, di ragazze nude, e questo secondo me è stato grave… e oggi non è che sia cambiato molto…

Una curiosità: luci e ombre sulla tua collaborazione a Noi donne.

Ombre non ce ne sono state. È stato un lavoro molto, molto bello… l'esperienza professionale più ricca dal punto di vista umano. È stato possibile entrare in realtà femminili diversissime. Ho girato l'Italia, e grazie a Noi donne sono entrata nelle case di chi faceva una vita ben diversa dalle ragazze che sfilavano a Roma nei cortei femministi: le operaie, le mondine, le vecchie partigiane. É stato estremamente interessante incontrare quell’universo. Questo specchio di tante diverse realtà femminili che il giornale dell'Udi mi ha dato la possibilità di conoscere, per me rimane una tappa fondamentale della mia vita di fotografa e di donna. 

 

Com’era la redazione?

Un lavoro tra donne perché non c’erano giornalisti maschi… E poi soprattutto c'era il fatto, per me anche positivo, che ci fossero pochi soldi… I viaggi che facevamo non sempre prevedevano le notti in albergo, per cui ogni tanto si dormiva a casa di qualche compagna dell'Udi. Io ricordo delle notti passate in letti, non precisamente comodissimi, da dividere con simpatiche e a me care giornaliste come Gabriella Lapasini. Peccato che russasse come un trombone! Ricordo come un incubo una goccia d'acqua che durante tutta la notte cadeva dal tetto in una bacinella… Non c'era niente di eroico, era la normalità. In quegli stessi anni dovetti fare un reportage per un giornale americano che aveva stanziato molto denaro e io disponevo di una diaria sostanziosa in dollari, ma non sapevo come spenderla, ero talmente abituata al risparmio praticato con Noi donne che non ne ho saputo approfittare. 

Piero Berengo Gardin ti ha definita “il più fragile carro armato che conosco”. A me è venuta subito in mente la definizione che Occhetto diede del Pci, come “gioiosa macchina da guerra”. Analogie e differenze.

Eh sì, potrei essere anche definita gioiosa macchina”… Comunque la competizione era un elemento che a un certo punto ho ritenuto insopportabile, perché nel seguire quotidianamente l'attualità dovevo avere dei ritmi che poi diventavano pesanti per la fatica fisica e per lo stress psicologico. Soprattutto c'era una competizione scatenata dal momento in cui scattavo al momento in cui dovevo andare a vendere le foto.  In questo senso Immagine del mondo dei vinti è stato un salto di qualità. Mi ha fatto uscire dalla dimensione competitiva poiché, oltre a tutto, ho fatto un lavoro dove c’ero sempre solo io e non altre decine di fotografi. Ti ricordi quella foto che c'è su Itinerari, di una conferenza stampa di Umberto Agnelli? Ecco quella era la situazione da cui mi sono allontanata…

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Torino, 1973. Operaie nel cortile della Fiat Mirafiori ©Paola_Agosti.

Dimmi ancora un’ultima cosa: in tutta la tua opera qual è il lavoro che prediligi?

Nasce da un invito che ricevo per esporre Immagine del mondo dei vinti a Buenos Aires, e lì mi rendo conto, osservando e ascoltando i visitatori che vengono alla mostra, di quanti argentini di origine piemontese vivano a Buenos Aires. Comincio a progettare un lavoro su questo tema, prima mettendomi in contatto con una storica dell'emigrazione, Maria Rosaria Ostuni, che aveva portato avanti una ricerca sui biellesi di Buenos Aires. Negli anni, tornai più volte e lavorai in quel grande triangolo che è la provincia di Santa Fe… In quella pampa piattissima, (definita “pampa gringa” perché abitata dai gringos che sono gli stranieri) i piemontesi cominciarono a stabilirsi già nella seconda metà dell'Ottocento. Ci sono paesi che si chiamano Silvio Pellico, Cavour, Nuevo Torino, Piemonte… dove gli abitanti, parlano piemontese, mangiano la bagna càuda, e hanno un attaccamento straordinario alla terra da cui sono partiti i loro avi. Quel mondo mi ricordava atmosfere della mia infanzia, nell'Italia degli anni ’50, e mi faceva pensare a certe pagine scritte da Edmondo De Amicis che laggiù era stato un secolo prima di me. Fotografare quei luoghi, senza nessun fascino particolare, è stata una sfida tutt’altro che facile, ma lo considero il mio lavoro meglio riuscito.   

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