Giovanni Chiaramonte tra realismo e infinito
Realismo e infinito. Ecco i due poli entro i quali ha orbitato l’intera vicenda artista e umana di Giovanni Chiaramonte, scomparso a 75 anni il 18 ottobre 2023. Artista, teorico, docente, editore, ha dato un contributo decisivo e originale alla cultura fotografica italiana, e non solo. Da un lato il reale, quel teatro quotidiano dell’abitare così pieno di contraddizioni, misura dell’esperienza umana e terrena; dall’altro l’infinito, come orizzonte metafisico e insieme pratica immaginativa, lavoro interpretativo.
È all’interno di queste due dimensioni che, nella sua opera, l’immediatezza percettiva lascia il posto a un modo di pensare-immaginare il mondo nella sua durata e continuità. L’espressione “Realismo infinito” definisce perfettamente la cifra di Chiaramonte e ci offre al contempo una chiave di lettura fondamentale del suo immaginario visivo, con il quale ha sempre smontato l’idea di uno spazio precostituito fuori di noi, l’idea cioè di una cosiddetta realtà assoluta, mettendo in opera quel valore differenziale che è lo sguardo.
Questa è stata la ragione che ci ha spinti, dopo lunghi confronti e ripensamenti, a intitolare Realismo infinito la mostra del 2022, a Bergamo, all’ex Monastero di Astino e il libro (edito da Electa), che lui stesso ha definito: «il mio testamento per immagini». Un progetto – al quale ha partecipato con un bellissimo testo anche lo scrittore americano Teju Cole – che riunisce cento fotografie, molte delle quali inedite, realizzate nell’arco temporale di oltre due decenni, dal 1980 ai primi anni del 2000; una sintesi organica del complesso lavoro di Chiaramonte intorno alla rappresentazione del paesaggio e della veduta urbana. In questa esplorazione (così come è stato fin dagli inizi e in tutta la sua opera), l’Italia è un punto d’osservazione privilegiato, capace di raccontare in un colpo d’occhio, con la stratificazione delle sue culture e civiltà, la storia dell’intero Occidente. L’Italia dunque come “spazio contemporaneo” perché accoglie in sé epoche diverse che sono visibili simultaneamente.
È in questa occasione che ci siamo conosciuti. L’anno prima era venuto all’inaugurazione dell’esposizione di Guido Guidi, Cinque viaggi, 1990-98 (Giovanni era un uomo generoso sempre in dialogo con i suoi colleghi e non mancava di manifestare loro la sua vicinanza nelle occasioni importanti). Il giorno dopo mi telefonò entusiasta della mostra e gli proposi di realizzare insieme, per l’anno successivo, un progetto sul suo lavoro (ero rimasto molto colpito dalle sue immagini sul paesaggio e sulla luce siciliana), in continuità con le mostre volte a valorizzare l’opera dei singoli autori presenti in Viaggio in Italia (prima di Guidi c’erano stati Luigi Ghirri, Olivo Barbieri e poi Mario Cresci), oggi considerati i maestri della nostra fotografia. Non esitò un attimo a dirmi di sì. Da quel momento è iniziata la nostra frequentazione e amicizia (pur così distanti per età anagrafica), fatta di scambi a distanza, di lunghe telefonate, ma anche di tanti incontri e conversazioni nella sua casa milanese piena di libri e di oggetti, ricordi di una vita e di tanti viaggi in giro per il mondo, spesso seduti a tavola (nella dimensione conviviale era molto a suo agio). Saresti stato ore ad ascoltarlo, a osservare le accensioni dei suoi occhi quando raccontava come era riuscito a realizzare una certa immagine o quando aveva trovato una corrispondenza di sguardo dentro un verso di Iosif Brodskij o di Les Murray, poeti da lui amatissimi (è stato un grande lettore di poesia, cosa rara tra i fotografi).
Giovanni è stato un uomo e un artista “totale”, nel senso che ha vissuto la propria arte come una vera e propria missione e ossessione, un viaggio interiore, una riflessione sul senso dell’esistenza, tanto da rendere quasi indistinguibile il suo sguardo di uomo e di artista. È forse per questa ragione che nella sua fotografia il confine della rappresentazione è così sottile, realtà e apparenza si compenetrano e invitano chi guarda a una nuova constatazione: il mondo così come lo conosciamo è costruito dalle immagini che di esso abbiamo accumulato nel tempo. Per Chiaramonte, natura e percezione umana sono inscindibili. «La fotografia – ha scritto – non può più, o non ha mai potuto, rappresentare il mondo, ovvero l’altro e il diverso da sé, ma la fotografia può rappresentare solo se stessa, la materia fisica che ne forma la struttura primaria e costitutiva».
Se per Luigi Ghirri il mondo è un grande contenitore d’immagini, per Giovanni Chiaramonte il mondo stesso è immagine, la realtà prende forma perché qualcuno la osserva, svelandola e ri-velandola. Intorno a questa idea s’incardina da subito la sua vicenda artistica, iniziata negli anni Sessanta, quando si trasferisce a Milano, dopo essere vissuto a Varese, dove è nato nel 1948 da genitori di Gela. A dar corpo alle sue prime ricerche, come lui stesso ha ricordato, è stato spesso lo iato tra il Nord dell’esilio e il Sud delle origini, una ricerca continua, e non consolatoria, delle radici, che informerà l’intera sua esperienza artistica, disegnando un percorso tanto coeso quanto aperto a svolgimenti nuovi.
La sua arte, da sempre legata a un’esplorazione esistenziale e spirituale, è un “testo” stratificato che narra il lungo e difficile cammino dentro le immagini per costruire un discorso che va oltre la dimensione del racconto del mondo, rivelando piuttosto i fondamenti del vedere umano. Un “testo” nel quale confluiscono una profonda esperienza filosofica, ma anche le forme del cinema e della poesia, la conoscenza dell’arte antica, dell’architettura e dell’estetica teologica: da Andrej Tarkovskij a Michelangelo Antonioni, da Kierkegaard a Merleau-Ponty, fino a Norberg-Schulz, Brosdkij e von Balthasar.
Questa complessità di saperi intrecciati è la chiave per capire la sua concezione della «realtà come dramma della forma», che propone un modello di interpretazione del mondo originale rispetto agli autori della sua generazione, come Luigi Ghirri, Guido Guidi, Gabriele Basilico, Mario Cresci con i quali, nel 1984, partecipa all’avventura di Viaggio in Italia.
Chiaramonte ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione di questo grande progetto. Come Ghirri, l’autore milanese è stato un profondo conoscitore della storia della fotografia americana ed entrambi sono stati accomunati dal desiderio di costruire un nuovo racconto in fotografia, un nuovo modo di rappresentare il paesaggio italiano, anche sull’esempio dei grandi fotografi e narratori statunitensi del Novecento, puntando lo sguardo sui margini, sui segni del paesaggio, che nessuno fino a quel momento aveva mai indagato.
Nel 1983 pubblica con Jaca Book Immagini della fotografia europea contemporanea, un libro che mette insieme personalità significative di tutta Europa. È la prima volta che si indica un gruppo di fotografia italiana di paesaggio: Ventura, Jodice, Barbieri, Cresci, Ghirri, Guidi, Rozzo, Leone, Castella, Basilico e Chiaramonte stesso. Tutto questo mentre Ghirri prepara Viaggio in Italia. Ha ricordato l’autore: «La struttura narrativa è un racconto di Ghirri, portatore di identità. Sceglieva lui le foto e le ordinava, secondo sequenze narrative. Ma in quel periodo il nostro dialogo era stretto. Il mio libro è un’antologica, un’altra cosa. La fortuna editoriale di Viaggio in Italia deriva dal fatto che, essendo un viaggio, comunica un’esperienza che riguarda chiunque. Il mio libro non ha questa valenza di destino. Queste fotografie dimostrano la genialità di Luigi, uno dei pochi che aveva davvero capito Benjamin, in particolare il tema della genealogia. La fotografia è una citazione, noi siamo davanti al mondo come ce l’ha dato la storia, la tradizione. Il filosofo e scrittore tedesco afferma che la citazione può salvare la tradizione. E Ghirri ha fatto un imprescindibile lavoro di citazione».
A differenza di altri autori, Chiaramonte non ha mai rinnegato questa esperienza collettiva, che ha sempre considerato una tappa fondamentale all’interno del suo percorso, riconoscendo l’importanza del lavoro di Ghirri e l’influenza che l’opera del maestro emiliano ha avuto su un’intera generazione, e non solo.
Come gli altri autori di Viaggio in Italia, non è stato un fotografo “realista”, semmai concettuale, certamente legato ai modelli della nuova ricerca della fotografia degli anni Settanta. Tuttavia a Chiaramonte non importa costruire un’immagine “concettuale”, bensì interpretarla in termini metafisici: trovare tra i diversi piani della realtà le immagini che rispecchiano più fedelmente il proprio volto interiore. La fotografia dunque come punto di incontro tra l’esteriorità del mondo e l’interiorità della persona, all’interno di un percorso che dal particolare conduce al generale, dal relativo all’assoluto. Ecco, scoprire l’Assoluto è alla base di tutta la sua ricerca, scoprirlo negli spazi marginali, nei grandi vuoti, nei luoghi periferici e perfino metastorici, dentro i quali Chiaramonte, animato da una forte spiritualità, ci offre la lunga durata di una meditazione, dove la luce, anche metaforicamente, è il vero soggetto delle sue immagini. Una luce precisa che a volte trascolora nel chiaro assoluto di una lieve sovraesposizione.
Chiaramonte lavora molto sulla luce e sull’ombra; anche in ragione della sua fede cristiana, questi fenomeni sono rivelatori dello spirito e del mistero che sta dentro la materia e assumono un’importante valenza simbolica. La luce come elemento originario della visione, che il fotografo cattura per riportarla alla sua funzione unitaria e primaria di luce epifanica. Forse la sua fotografia più emblematica su questo tema è Jerusalem, 1988: una strada della Via Dolorosa con le botteghe tutte chiuse e una luce che piove dall’alto e invita lo sguardo verso una direzione. Un’immagine che ci guarda e ci interroga.
Chiaramonte ha riflettuto incessantemente sul suo fare e come pochi altri ha saputo coniugare con naturalezza lucidità critica e ispirazione artistica, iscrivendo la fotografia in un più ampio discorso sui meccanismi della visione, le arti visive, la percezione e l’esperienza dell’esterno. Anche per questo è stato un maestro per molti giovani, con i quali ha instaurato un dialogo sincero e sempre disponibile all’ascolto. Credeva molto nelle nuove generazioni, sulle quali ha esercitato un vero e proprio magistero, anche come docente (negli ultimi anni ha insegnato Storia e Teoria della fotografia allo IULM di Milano e all’Accademia NABA).
Per concludere, parafrasando il poeta Iosif Brodskij, autore di riferimento di Chiaramonte (a lui si ispira soprattutto per il libro Terra del ritorno del 1989): ciò che spinge a fotografare non è tanto una preoccupazione per la caducità della propria carne quanto l’impulso a salvare certe cose del proprio mondo – della propria civiltà personale, della propria continuità non-semantica... L’arte non è un’esistenza migliore, ma è un’esistenza alternativa; non è un tentativo di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca carne ma trova immagini.