Sette obiettivi sul paesaggio

8 Maggio 2024

Apro Instagram mirror, mirror on the wall – faccio una ricerca e annoto: #luigighirri, circa 36 mila occorrenze; #luigighirristyle, 1300 occorrenze, e ancora #luigighirriinspired #luigighirriphotographer, le varianti sono molte. Visito alcuni profili guidata da questi hashtag e sì, ritrovo immagini di dettagli marginali, il ciglio della strada, tapparelle color turchese, estetiche minimaliste, geometrie studiate e tonalità sbiadite, per lo più spiagge o ambienti periferici, mozziconi di campagna. Tutto torna. I commenti sotto agli scatti confermano l’impressione: “Sembra Ghirri”, “Ma è Ghirri?!”, “In stile Ghirri”, ecc.

Così come il nome proprio di un prodotto diventa talvolta un sostantivo di uso comune (lo scotch e le sottilette, per esempio), Luigi Ghirri ha raggiunto lo stadio dell’antonomasia: questo nome equivale a evocare uno specifico modo di guardare, ovvero di fotografare.

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Luigi Ghirri, Ferrara, 1981.

Complici i social media e una certa facilità di esecuzione/post-produzione a portata di qualsiasi smartphone, le sue foto sono molto imitate, magari in modo inconsapevole, perché quel tipo di sguardo è spesso un riflesso automatico, uno stilema divenuto consuetudine. O forse è accaduto il contrario, forse davvero il mondo contemporaneo, dominato dallo junkspace e dalla periferia indeterminata dei consumi, ha finito per assomigliare ovunque a una foto di Luigi Ghirri.

Sta di fatto che di fronte a un’immagine di paesaggio rarefatta, di fronte a qualcosa che evochi “vaghezza”, stasi, o nella quale si rivela la banalità dell’oggi, noi pensiamo “Ghirri”. Cosa intendiamo? Beh, una certa “visione atmosferica”, ha scritto Gianni Celati in Il profilo delle nuvole (1989), ovvero il modo di Ghirri di “presentare tutte le apparenze del mondo come fenomeni sospesi, e dunque non più come fatti da documentare”. La chiave della sua fotografia sta proprio, secondo lo scrittore, nella capacità di ridare al mondo la sua apertura indeterminata, il suo strano mistero.

Per sfuggire al ghirrismo è necessario allora ripercorrere le fonti e riappropriarsi delle premesse concettuali alla base di quell’estetica, ritrovare l’autorialità dietro l’imitazione, lo spessore storico di un’esperienza pioneristica al di là dell’imitazione banale. Un’opportunità in tal senso è il saggio di Corrado Benigni Viaggiatori ai margini del paesaggio Ghirri, Barbieri, Basilico, Chiaramonte, Cresci, Guidi, Jodice, edito da La nave di Teseo in coincidenza col quarantennale appunto di Viaggio in Italia.

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Olivo Barbieri, Lugo, Ravenna 1982.
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Gabriele Basilico,1980, Milano. 

Quando, nei primi anni ’80 del secolo passato, Luigi Ghirri concepisce l’idea di un lavoro sul paesaggio italiano e comincia a parlarne con altri fotografi della sua generazione, non può immaginare la portata di ciò che si va configurando, ovvero un’esperienza collettiva che cambierà la storia della fotografia italiana. Il progetto culminerà nel 1984 con la mostra Viaggio in Italia, inaugurata alla Pinacoteca Provinciale di Bari e poi resa itinerante; trecento scatti di venti fotografi coinvolti da Ghirri, e un libro omonimo in cui erano contenuti una selezione di fotografie e gli importanti interventi di Arturo Carlo Quintavalle e Gianni Celati. 

A quarant’anni di distanza, a partire da saggi in parte già pubblicati, il libro di Corrado Benigni ripropone un racconto critico di quel momento culturale fondativo. Benigni sceglie di giocare con uno schema 1-7-1: un testo iniziale che ripercorre genesi, finalità e sviluppi posteriori di Viaggio in Italia; sette capitoli dedicati a ciascuno dei fotografi da lui ritenuti più rappresentativi di quel progetto; infine, un dialogo con Arturo Carlo Quintavalle che funge da riflessione finale. Se “la qualità di un racconto non dipende dalla storia in sé, ma dal montaggio” (Fondamenta degli Incurabili, Iosif Brodskij), in questo senso il risultato non delude. Il libro ben restituisce la complessità di Viaggio in Italia e mostra il suo valore di laboratorio intellettuale, oltre che di indagine fotografica in sé. 

A partire dalla comune ammirazione per la fotografia documentaria americana (i classici Dorothea Lange e Walker Evans) e per autori più recenti come Gary Winogrand, Robert Adams e William Eggleston, Ghirri e gli altri creano in effetti un approccio del tutto nuovo alla rappresentazione del paesaggio dell’Italia del loro tempo. Ne evidenziano i nuovi caratteri, quelli di un paese diventato una grande periferia che ha perduto il rassicurante carattere oleografico e pittoresco trasmesso da una lunga tradizione fotografica, e in cui “stabilimenti industriali, distributori di benzina, costruzioni moderniste, gasometri, cavalcavia, case abbandonate”, come scrive Benigni, compongono un caotico e ben più realistico inventario. Ormai tramontato il fervore militante che aveva percorso l'Italia tra la metà degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo, quello di Ghirri e dei suoi compagni di avventura è ormai uno sguardo distaccato, a volte, e sempre de-ideologizzato, postmodernista in una parola. Il mondo che emerge nelle fotografie di Viaggio in Italia assume così i tratti di una composizione metafisica, invita alla contemplazione più che al cambiamento, e proprio per questo ben presto assume il valore di un nuovo paradigma figurativo, di un vero e proprio “stile”.

Li immaginiamo, i fotografi, impegnati a ragionare tra loro su cosa significhi fare immagine, sul rapporto tra soggetto e l’oggetto dell’osservazione, sui cambiamenti del mondo che avevano sotto gli occhi, in altre parole, sulla contemporaneità. Certo è che il frutto di quelle conversazioni è confluito nel lavoro, ne ha costituito la premessa indispensabile; muovendosi sul confine con la filosofia e la letteratura, la fotografia in Italia aveva raggiunto una maturità piena, non più come uno strumento di registrazione passiva del mutamento ma di sua interpretazione. Ricorda Mimmo Jodice, “la somma immaginaria di [quelle] ricerche eterogenee si presenta come un archivio monumentale sul pensare la fotografia di paesaggio, un magazzino talmente complesso e ricco da costituire ancora oggi un modello con il quale è utile confrontarsi”. 

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Copertina di Viaggio in Italia, ed. Il Quadrante, ©Finarte.

I profili dei sette fotografi proposti da Benigni condividono una struttura simile: raccontano come è avvenuto l’incontro con Ghirri, espongono la poetica del singolo autore e il suo contributo al progetto per poi mettere in luce il ruolo di Viaggio in Italia nella sua ricerca successiva, quanto egli abbia proseguito secondo quell’impostazione o quanto se ne sia discostato, ovvero come i temi di quella stagione siano stati elaborati con l’evolvere del personale percorso artistico. Così, ad esempio, seguiamo Olivo Barbieri dagli esordi tra anni Settanta e Ottanta, quando ritrae “scene di provincia riscoperte nei suoi rimossi contrappunti di mistero e quotidianità”, e “si rivolge al non-visto, al non-guardato, a ciò che lo circonda e a cui nessuno presta troppa attenzione”, alle sue immagini in Viaggio in Italia, di cui si mette bene in luce una precisa impronta autoriale che mette in causa “l’apparizione, il salto di scala, rilanciando la dinamica dell’osservazione”, prefigurando quello che sarà poi il lavoro posteriore del fotografo, per il quale, dice Benigni, il paesaggio diviene “il pretesto per indagare l’atto del vedere, il rapporto tra apparenza e illusione, vero e rappresentazione del vero”.

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Oliviero Barbieri, Roma, 2004.

Benigni compone così un quadro multidimensionale che ha il merito di ridistribuire i pesi e ristabilire la natura collettiva del progetto, spesso schiacciato, suo malgrado, dalla sola figura di Ghirri. Con una scrittura scorrevole, rivolta a un pubblico di non specialisti, il pubblico che frequenta le ormai numerose mostre di fotografia – un fenomeno impensabile quattro decenni fa –, Benigni ci invita a una sorta di raduno tra vecchi compagni di liceo e come sempre in queste occasioni i sorrisi hanno in sé una nostalgia, certi dettagli d’improvviso assumono un senso diverso, tutto è cambiato eppure molto è rimasto uguale. Attorno alla tavola troviamo “l’atteggiamento esistenziale” di Ghirri, “il realismo infinito” di Chiaramonte, “la poetica del vuoto” di Basilico, il “tutto vero” di Barbieri, l’“attesa e metafisica” di Jodice, “la fotografia come ipertesto” di Cresci, “la città nelle città” di Guidi. Con la sua prosa precisa Benigni delinea diversi modi di fare fotografia, caratterizza approcci individuali che in Viaggio in Italia si trovano a operare fianco a fianco, in autonomia ma anche con la consapevolezza di un orizzonte di esperienza comune. Così, ad esempio, se per Chiaramonte “fotografare – e dunque conoscere – […] è un modo per confrontarsi con la realtà, forse l’unico per non fermarsi ai segni di superficie”, per Guidi al contrario “non parte della realtà, ma alla realtà cerca di arrivare, lavorando non tanto su un’idea di spirito del luogo di spirito nel luogo.”

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Guido Guidi, Villa Fossa, Cesena 1972.

Un libro-retrospettiva, dunque. E d’altra parte, oltre che poeta e saggista, Corrado Benigni ha curato varie mostre fotografiche all’interno del Complesso monumentale di Astino (Bergamo). Forse, proprio la frequentazione del doppio versante parola-immagine lo spinge a far dialogare l’opera dei sette fotografi con le pagine di grandi scrittori, da Andrea Zanzotto a Daniele Del Giudice, da Giacomo Leopardi a Italo Calvino. L’angolatura letteraria ci pare legittima e coerente con l’intenzione di Viaggio in Italia di costruire il tessuto di un racconto attraverso i diversi sguardi dei suoi autori, attraverso la qualità narrativa della fotografia, e, in maniera dialetticamente opposta, attraverso la forte connotazione visiva della scrittura di Celati: “Poco fa, mentre giocavo a flipper, c’è stato un momento di silenzio assoluto in queste campagne. La luce entrando da una finestra tagliava l’ambiente in due zone, e l’ombra allungava le gambe delle sedie e dei tavoli. Tutto appariva finalmente compatto, come riparo dalla solitudine e dall’isolamento, sullo sfondo di questa lunga stanza attraversata da un bancone di linoleum verde. E una foto dei calciatori alla parete, la macchina per macinare il caffè, una scatola di plastica piena di palline di chewing-gum, orari delle corriere vicino alla porta, tutte queste cose sembravano in salvo dentro un ordine leggero e possibile.” Cos’è questa, se non una fotografia a parole?

Scrive Benigni: “la domanda da porci oggi è: che cosa c’è ancora di vivo, di costruttivo, di pregnante in quella antica ricerca, che cosa ha cambiato quel Viaggio dentro la storia della fotografia e il modo di riflettere sul paesaggio e di concepire il fare fotografia in Italia e in Europa?” E aggiungiamo: la riflessione sulla contemporaneità è ancora protagonista dell’indagine fotografica? Oppure nell'epoca degli hashtag ciò che era in origine un dispositivo critico per la conoscenza e la comprensione del mondo si è trasformato in ulteriore strato di opacità, in un riflesso automatico e cieco, che del fotografico riprende meccanicamente la facilità proliferante delle immagini, senza farne mai, inevitabilmente, uno strumento di rivelazione? Proprio il contrario, insomma, di ciò che Ghirri e i suoi compagni di strada avevano immaginato e realizzato.

Viaggiatori ai margini del paesaggio Ghirri, Barbieri, Basilico, Chiaramonte, Cresci, Guidi, Jodice, edito da La nave di Teseo.

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