Don McCullin: l’uomo fotografo
Don McCullin non si allontana mai dalle sue foto. Nei testi che accompagnano le immagini in mostra, nelle interviste, nelle dichiarazioni, la voce del fotoreporter sorveglia la narrazione del dove-come-quando, ribadisce la storia dietro ogni scatto, racconta e si racconta. “Mi sono trovato davanti al sangue ancora caldo di due uomini. […] Mi sono chiuso la porta alle spalle e ho cominciato a fotografare. All’improvviso è entrato un gruppo di persone completamente sconvolte. È stato il momento più terribile, una donna è entrata urlando. Uno dei morti era il marito con cui si era appena sposata. Io ero proprio vicino a lui… cercavo un cenno di approvazione da loro per continuare… Mi sono messo a fotografare silenziosamente con il massimo rispetto. Mi avevano dato il permesso di continuare a farlo e quelle immagini sono ciò che ho fatto.”
All’uomo e al fotografo Don McCullin è dedicata una grande mostra a Roma (Palazzo delle Esposizioni, fino al 28 gennaio 2024), curata da Simon Baker e Tim Jefferies insieme allo stesso McCullin. Una panoramica della sua carriera dagli inizi fino agli anni Duemila che presenta oltre duecentocinquanta fotografie in bianco e nero.
Don McCullin: l’adolescente violento “salvato” dalla fotografia diventa un inviato dell’“Observer” nel 1959 e del “Sunday Times” fra il 1966 e l’84. Ammetterà con rara onestà intellettuale di non sapere cosa lo spinga alla guerra, se l’adrenalina, il cameratismo, il sentirsi sul confine della Storia, la sete politica o semplicemente una spinta innata con la quale ha sempre dovuto convivere. Il fotoreporter di fama internazionale è un uomo inquieto, fa a botte e si ritrova ammanettato dai poliziotti, scalpita, prende l’aereo nonostante gli neghino l’incarico e racconta con generosità dei propri traumi, degli incubi che lo inseguono, dell’impossibilità di piangere perché da dove viene lui, Finsbury Park, un quartiere povero a nord di Londra, non si piange. No. Si va avanti, anche se fotografare è una forma di oscenità e ad un certo punto non se ne può più, lacerati dal senso di colpa, stanchi di ripetere a sé stessi: “Non ho ucciso quell’uomo nella fotografia, non ho fatto morire io di fame quel bambino”.
Sta qui il punto: ogni immagine è un binomio inscindibile: l’oggettività dei fatti e la storia personale di chi sta dietro alla fotocamera; l’orrore accaduto e l’orrore visto accadere. Appena mosso un passo dentro la prima sala capiamo che non vedremo “belle fotografie” e che non ci saranno sconti sul loro contenuto: solo nuda realtà.
Gli scatti degli esordi ritraggono i quartieri operai di Londra fra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, quando la trasformazione economica, culturale e sociale è tanto violenta da lasciare molti indietro. Vite dure, i giorni buoni sono un evento; bande di giovani con ciuffo sigaretta e mani in tasca, oppure ragazzini che fanno pugilato in mezzo alla strada tra i resti di rifiuti bruciati.
L’interregno tra vecchio e nuovo del tessuto urbano in evoluzione è sintetizzato in modo emblematico da un gregge di pecore portate al macello in mezzo alla città, appena dietro alla stazione di Kings Cross; a condurle, un uomo con un lungo impermeabile, una specie di pastore cittadino, personificazione degli affanni, della stanchezza che ciascuno porta in sé. Lunghi edifici scuri e recinzioni rievocano analogie sinistre e anche in questo caso si preannuncia un feroce destino. È l’alba. “Le lampade sono accese ma non risplendono, ha notato?”, scriveva Anna Maria Ortese in Silenzio a Milano.
Sono gli anni della crisi di Cuba. Don McCullin è in mezzo ai cortei, tra i manifestanti che affrontano la polizia. Non c’è in lui solo la volontà di documentare: le sue foto sono politiche, mostrano le sproporzioni dell’esercizio del potere e spesso la distanza tra la psicologia individuale e la divisa, per esempio quando un soldato guarda ammirato le gambe di una donna o tiene per mano una bambina dal vestitino a balze. O quando, durante una manifestazione contro la bomba atomica, un poliziotto sorride all’ironia della situazione: lui e il collega stanno trascinando via di peso una donna di mezza età, una simil-regina Elisabetta in outfit campestre; lei tiene la sua valigetta e si lascia trasportare guardando dritto in fotocamera: il suo sguardo beffardo esprime una piccola vittoria, dice: “Ho fatto la mia parte”.
Fotografo irrequieto, mai riappacificato con la violenza della propria infanzia, McCullin riversa nelle immagini i suoi traumi irrisolti: “Come tutta la mia generazione a Londra, io sono un prodotto di Hitler. Sono nato negli anni ’30 ed ero sotto i bombardamenti negli anni ’40. Poi è arrivata Hollywood e ha cominciato a mostrarmi film sulla violenza”. D’altra parte, “‘Non c’è stato molt’altro nella vita’. ‘No, è quasi tutto laggiù’”, scrive Michele Mari in un racconto della sua raccolta Tu, sanguinosa infanzia. Laggiù è sempre lo stesso posto per ciascuno di noi: i nostri anni da bambini.
Un comportamento irragionevole (anche titolo dell’autobiografia pubblicata nel ’90), insieme all’intuito politico di essere là dove si fa la Storia, gli procura la prima importante esperienza all’estero. 1961: nonostante l’Observer gli abbia negato l’incarico, McCullin paga di tasca propria un biglietto per Berlino e vola a documentare la costruzione del muro. Ciò che nelle foto sembra un normale cantiere di soldati che scavano e trasportano carriole è una tacca sulla linea del tempo nei libri di scuola. McCullin ha osato esserci e ora le sue immagini rappresentano i fotogrammi intermedi di un evento epocale, di cui riusciamo a immaginare solo il prima e il dopo. Grazie a queste fotografie, possediamo il punto di vista di un berlinese nel momento irripetibile in cui il muro arrivava al petto e si poteva ancora guardare verso l’altra Berlino, appena prima che la follia fosse compiuta.
“La guerra per sua natura riproduce gli stessi eventi, perché la guerra è questo: sempre gli stessi eventi” (da un’intervista rilasciata a Michael Kamber per il New York Times, 6 novembre 2015, qui). Cipro, Congo, Libano, Biafra, Vietnam; Don McCullin ha registrato senza esitazioni, senza schermature, la morte orribile e l’assurdo oltre l’umano. “Voglio che guardiate le mie foto”, dichiara, nonostante sia duro sostenerne la crudezza. Ed è davvero difficile fissare negli occhi la donna del Biafra che ci fissa negli occhi mentre tiene in braccio il figlio denutrito; una Madonna con Bambino invecchiata dalla fame e con il seno rinsecchito dall’inferno della condizione umana.
Realtà. Fatti. L’arte è un pericolo da cui tenersi lontano e anche se l’occhio conosce il mestiere, le fotografie di McCullin sono prive di sentimentalismi, di superficiale commozione estetica, di geometrie ruffiane ed effetti imitativi. Solo bianco e nero, tutto a fuoco, vale il contenuto. E nei cartellini di sala frequentissime note dell’autore a contestualizzare lo scatto, una sorta di libro fotogiornalistico traslitterato nell’allestimento.
Il tratto forse più caratteristico dei reportage di McCullin sta nella capacità di mostrare l’equivalenza di ogni conflitto e allo stesso tempo di produrre immagini folgoranti in cui è condensata l’atmosfera, la tonalità di una specifica guerra. Ne è un esempio la fotografia del marine americano all’interno di un’abitazione civile saccheggiata durante la guerra in Vietnam. Sta in piedi vicino alla finestra da cui solitamente spara, ma stavolta il mitra è abbassato e c’è qualcosa di sottilmente hollywoodiano nella sua posa. Un attimo di riposo. Giusto un momento rubato all’angoscia, appena il tempo di immaginare la vita di prima, gli affetti, il salotto oltreoceano in cui è appeso un ritratto molto simile a quello che sta ai suoi piedi: nella cornice sul pavimento, un uomo o una donna, probabilmente i padroni di casa.
In un’altra, l’angolo di una strada demarca due mondi in conflitto. A sinistra, un gruppo di soldati britannici in equipaggiamento antisommossa; sulla destra un ragazzo irlandese, perfettamente vestito in giacca e cravatta, impugna un bastone come se sollevasse una spada in un gesto antico, eroico e incongruo, mentre a terra restano i sassi e i mattoni di precedenti scontri. Nella scena c’è qualcosa di ironico, in un certo senso affine allo spirito di Henri Cartier-Bresson, ma c’è anche durezza, violenza trattenuta: gli attori della scena ignorano la reciproca presenza, ma noi, al di qua, spettatori privilegiati come il fotografo, li vediamo simultaneamente e possiamo cogliere la tensione mortale del momento.
La sofferenza è ovunque, anche vicino a casa. McCullin lo sa bene. Tra gli anni ’60 e ’70 conduce progetti personali nel nord dell’Inghilterra e nell’East End sulle comunità operaie ridotte in povertà dalla deindustrializzazione. In mezzo a paesaggi cupi e quasi distopici, tra acciaierie e fumi neri, vivono famiglie costrette in alloggi malsani e sottoposte all’umiliazione di condizioni di lavoro estenuanti. Il fotografo compie un’operazione di denuncia e al contempo di rivalsa, illuminando la loro dignità, nonostante tutto. È un lampo nell’espressione, un niente, ma basta. Gli uomini con sacchi di carbone sopra una bicicletta spinta a mano nel fango; o la ragazzina con la carriola gonfia di bucato pulito che per tornare a casa taglia il percorso attraverso uno sfasciacarrozze: si tratta di persone, non di gente. E sembrerebbe di poterli chiamare per nome e farli voltare tanto il gesto o un dettaglio colto al volo ne fissano l’identità. Vicinanza umana, da un lato; e forse anche l’ombra di un vecchio pensiero: “avrei potuto essere io”.
Più di altri fotoreporter McCullin ha rivelato nel suo lavoro i fantasmi personali, il risentimento verso l’autorità, verso dio. Il suo ricordo più doloroso: la madre mette lui di cinque anni e la sorellina di tre su un autobus che avrebbe evacuato i bambini in campagna, al riparo dai bombardamenti tedeschi. Una volta giunti nel Somerset, però, vengono separati: Marie è accolta da una famiglia benestante mentre Don trova una sistemazione molto più modesta. “Io la andavo a spiare dalla finestra”, racconta nella sua autobiografia. “Ero suo fratello, eppure mi consideravano un bambino di una squallida casa comunale e non mi facevano entrare. Riguardando indietro, credo che quello sia stato l’inizio di qualcosa che si intravede nelle mie fotografie: il tentativo di avvicinarsi il più possibile al soggetto rimanendo invisibile” (Unreasonable behaviour. An autobiography, Don McCullin con Lewis Chester, consultabile qui).
È vero. Nelle immagini si avverte una distanza, una separazione intenzionale utile a cogliere la verità d’insieme senza essere travolti emotivamente. Un distacco formale a servizio del soggetto: niente pietismi, non renderebbero giustizia alla dignità di uomini e donne che restano persone anche quando sono homeless, spesso con disturbi mentali, talmente luridi da fondersi col marciapiede, pelle di pietra, capelli di cemento. “Vedere questi senzatetto era altrettanto tragico che andare in Africa a coprire alcune delle guerre che lì si combattono. Gli esseri umani sanno come soffrire, e la sofferenza non è qualcosa che riusciamo a estirpare.”
La fotografia non è un’attività indolore: “È triste essere un osservatore. Rende malinconici” (Works, Vitaliano Trevisan). Come si sopporta? Come si guarisce? Adattamento, accettazione? Dopo vent’anni il reporter drogato dall’umano– troppo umano decide di ritirarsi e dimenticare la realtà fotografando la campagna del Somerset, i luoghi-casa. Il paesaggio anestetizza e raffredda gli incubi; come una grande massa inerte assorbe i ricordi traumatici e ne viene a sua volta contaminato. Non si tratta di vedute idilliache, al contrario: cieli pesanti e strade che si infilano nel nero della brughiera. Qualcosa incombe. Le nebbie scure ricordano la polvere sollevata dalle bombe e il terreno fangoso rigato dall’acqua in controluce è d’improvviso la morchia urbana di altre foto, il limo del Vietnam, la melma di altre guerre. C’è calma. Eppure, “Mi pare di udire in lontananza i mortai da 106mm. Non mi usciranno mai dalla testa.”
L’ultima sala della mostra ospita il progetto più recente di McCullin, una sorta di mappatura dei resti architettonici dell’Impero Romano nel Mediterraneo meridionale. Le immagini restituiscono la grandezza sublime di questi siti storici capaci di resistere al tempo ma non alle guerre del presente; in particolare le rovine di Palmyra, prima che fossero parzialmente distrutte dall’ISIS, risuonano come un macabro monito alla hybris umana.
Lungo tutto il percorso il visitatore si confronta con una fotografia dalle ombre dense, carnose; c’è dentro l’ambivalenza del mondo e l’oscuro di ognuno. Desiderio di violenza. Inestirpabile sofferenza. I neri di McCullin denunciano e sfidano con questioni scomode: tu che guardi, cosa faresti al mio posto? Quali sono le tue colpe? Interrogativi forse irrisolvibili, ma necessari.
In copertina, Dew Pond by Iron Age Fort, Somerset.