Marina Ballo Charmet: Tatay

7 Giugno 2023

Porzioni di corpi, volti tagliati. Forma azzurra globosa: i braccioli gonfiabili di un bambino; zona scura striata: le pieghe di una camicia a quadri; concrezione scura irregolare: un pomo d’Adamo sporge da un colletto. Allo spettatore è richiesto di lasciarsi colpire dalla violenza cromatica di blu, verdi, arancioni carichi e luminescenti, oltrepassare le zone abbagliate, addentrarsi nel fuori fuoco fino a intravedere due figure – un adulto e un bambino – che sorgono dalla luce, dal nulla, da fondali impenetrabili in cui la relazione comincia a individuarsi: l’uno è chiamato a sapersi padre e l’altro chiede di essere compreso come figlio. In ogni immagine i soggetti sono vicini; si abbracciano, oppure si sfiorano appena. 

Concedendogli tempo, lo sguardo impara a districarsi tra linee, impasti di colore, aree sovraesposte fino alla bruciatura che rendono i soggetti quasi astratti. Alcuni luoghi sono riconoscibili: una piscina, il parco, un interno; ma il dove poco importa, perché il contesto è decostruito e reso pulsante, la sua indistinzione rimanda alla dimensione preconscia dei legami familiari, qualcosa già presente in noi, antico milioni di anni. Si procede per salti quantici tra livelli di astrazione via via crescenti: quel padre e quel figlio; mio padre/io figlio; qualsiasi padre e qualsiasi figlio. 

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Marina Ballo Charmet Tatay #01, 2022-23, ink jet print su Dibond.

La mostra personale di Marina Ballo Charmet a Firenze, intitolata Tatay – “papà”, in filippino – (a cura di Marco Meneguzzo, Galleria Il Ponte, fino al 28 luglio 2023), restituisce, attraverso dodici fotografie a colori in grande formato, un’intuizione originale riguardo alla paternità e insieme l’ambizioso, affascinante tentativo di cogliere una percezione autentica, quel qualcosa che in tedesco viene chiamato Wahrnehmung, parola che contiene nel tema il riferimento “a ciò che è vero”. Non a caso, perché queste fotografie racchiudono in effetti la promessa di una ricompensa, la sensazione di essere a un passo dall’“anello che non tiene”, a tanto così da capire, a patto di osservare le immagini con “attenzione fluttuante” (si vedano in proposito l’intervista dell’artista con Marco Meneguzzo, pubblicata nel catalogo che accompagna la mostra, e qui su doppiozero quella con Sara Benaglia e Mauro Zanchi). Questo è infatti l’habitus mentale consapevolmente assunto dall’artista prima dello scatto per cogliere l’“oggetto perduto” nel magma della realtà, un atteggiamento messo in atto anche nel suo lavoro di psicoterapeuta in applicazione dell’equivalente concetto freudiano (gleichshwebend Aufmerksamkeit).

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Marina Ballo Charmet, Tatay, mostra a cura di Marco Meneguzzo presso la Galleria Il Ponte, Firenze.

Salto. In un racconto di Beppe Fenoglio, Il gorgo, un uomo è chiamato solo padre dalla prima all’ultima riga del racconto, dal momento in cui, sentendo su di sé il peso del mondo, decide di finirsi nel fiume Belbo, a quando, in un’inversione temporanea di ruoli, si lascia salvare dal figlio. Quando il figlio, per una frase detta a tavola dal padre, intuisce le sue intenzioni suicide, decide di non dare l’allarme perché non crede nella parola; né ha presa, in seguito, la voce severa dell’adulto mentre allontana il ragazzo. Lui non molla, gli tiene il passo, gli sta a fianco – ostinato guardiano – finché svanisce la seduzione del gorgo. Sulla strada del ritorno a casa, il padre compie un gesto emblematico. Racconta il figlio: “mi teneva sulla spalla la mano libera dal forcone e ogni tanto mi grattava col pollice, ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo.” Chi è qui il padre e chi il figlio? Le due funzioni scivolano nell’indistinto, si invertono e a turno riemergono, in una continua, reciproca, ridefinizione. Di fronte alla relazione-abisso, la chiarezza verbale non funziona, e altrettanto le categorie e le idee. A colmare lo scarto, tra i due si innesca qualcosa di corporeo, di esperienziale, una forma di pura ricettività.

In un modo non lontano dal racconto di Fenoglio, in Tatay la relazione sprigiona da un contatto traboccante di presenza. Sta lì, la soglia. I corpi si toccano in un punto, luogo simbolico ad alta densità di senso da cui irradiano i possibili modi, presenti e futuri, del loro stare insieme. La stessa Marina Ballo Charmet esplora il concetto di limite in una serie precedente, Il limite (1989-1990), riguardo al quale afferma: “la luce è il centro del mio interesse e l’oggetto-luogo è visto in modo intenzionalmente non analitico: è la luminosità diffusa, non la “definizione” del luogo, a dominare.” (Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, Quodlibet 2017, p. 22.)

Luce e oggetto-luogo percettivo dunque, elementi fondamentali della poetica dell’artista. Obiettivo: rendere presente ciò che c’è, proprio così com’è. E in Tatay la tangenza è punto di singolarità necessaria al legame, perché determina il canale di ogni possibile scambio tra il padre e il figlio (la zona fenogliana tra i due nervi che abbiamo dietro il collo). Al contempo, il contatto-confine è espressione della funzione paterna di rivelare al figlio l’esperienza dell’impossibile, cioè l’idea del limite. La ritroviamo per esempio nelle braccia adulte che contengono o nel corpo adulto che delimita un orizzonte. 

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Marina Ballo Charmet Tatay #02, 2022-23, ink jet print su Dibond.

Il paradosso intrinseco dell’operazione di Marina Ballo Charmet è rendere, attraverso uno strumento teso a catturare l’istante come la fotografia, un processo per sua natura in divenire, qual è la relazione tra due esseri umani. La soluzione stilistica adottata in Tatay consiste nell’affidarsi al bagliore come medium. Il bagliore veicola la metafora paterna: che si tratti del baluginio sull’acqua, o del prato abbagliato dal sole, o del chiarore riflesso sulla pelle bianca, un’aura avvolge i soggetti, e diviene correlativo oggettivo del carattere spesso epifanico della relazione col padre in quanto apparizione abbagliante (immediato l’accostamento con le atmosfere luminose di L’isola di Arturo di Elsa Morante e le comparse inattese di Wilhelm Gerace, fazzoletto annodato al collo e pantaloni lisi pieni di sole). Il padre come rivelazione della legge; il padre che incarna un’aspettativa eroica.

In queste fotografie luminescenti il bagliore è la relazione primordiale padre-figlio, bagliore che persiste proprio nelle zone di contatto tra i soggetti e de facto scardina l’ordine compositivo, producendo lo s-centramento del punto di vista nonostante le inquadrature centrali. Se in serie precedenti come Con la coda dell’occhio, Primo campo, o ancora nella videoinstallazione Agente apri, l’artista utilizzava la ripresa ad altezza-bambino, in Tatay la prospettiva si trova ora ad altezza-relazione. La piscina: fotografie scattate a filo d’acqua, dove il corpo del padre galleggia con il figlio per condurlo fuori dalla paura; la ripresa ci porta dentro il loro scambio amniotico, nel movimento sincrono, fluido, sospeso dei corpi. Il prato: il punto vista è rasoterra, adulto e bambino giocano sull’erba; siamo anche noi dentro le braccia del padre, tese a formare una capanna sopra il figlio. È questo sguardo, che struttura il visibile in funzione della relazione che scopre al suo interno, a conferire alle immagini la loro forza di sorpresa.

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Marina Ballo Charmet Tatay #11, 2022-23, ink jet print su Dibond.

Il progetto fotografico si lega alla videoinstallazione Tatay da poco inaugurata sempre a Firenze al Museo degli Innocenti (fino al 24 giugno), dove è allestita nella Sala Grazzini appositamente preparata come camera immersiva di grande intimità e significato: fu la sede dell’antico Ufficio di Consegna, dove venivano registrate le generalità dei bambini abbandonati agli Innocenti. La proiezione (già esposta in Triennale di Milano e presso la Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia) mostra un ambiente buio sul quale fluttuano due sagome sfocate; di nuovo lo spettatore è chiamato a intravedere e stavolta dall’oscurità, anziché dal colore, emerge il padre che culla il suo piccolo. Dondolare un figlio tra le braccia: gesto associato nella tradizione alla cura materna ma oggi rappresentativo del cambiamento della famiglia, con l’evoluzione del padre “da guerriero a costruttore di pace notturna” (si veda qui in proposito l’intervista rilasciata dall’artista a Sara Benaglia e Mauro Zanchi per ATPdiary).

Museo degli innocenti

Durante la visione siamo avvolti (e in un certo senso torniamo accuditi) da dodici voci di padri di paesi e lingue diversi che cantano la ninnananna al loro bambino. È la musica della tenerezza – perché si ricorda così poco? – legata a un tempo astratto da cui riaffiora un mistero latente che ognuno di noi sente di aver vissuto.  Il suono viene da un corpo, risuona nel corpo. Voci indecifrabili, risultato di tracce sonore intrecciate (che Ludovico Einaudi ha contribuito a elaborare): note, bubbolii, riverberi si sommano e ricorrono a formare un’unica litania ancestrale. Regressione del linguaggio, inglobata ogni varietà culturale, annullato il significante. Tolta la parola, restano la vibrazione dell’onda sonora e una relazione padre-figlio tutta corporea, intuizione e contatto. L’eco di un battito oscuro: deve essere stato così nel grembo materno. Per questo, la videoinstallazione Tatay restituisce anche ciò che manca a chi non ha partorito, la relazione attraverso un corpo condiviso. 

Cosa significa paternità, cosa significa veramente? Forse è come nel racconto di Fenoglio: un padre lo si capisce meglio di schiena, camminandogli dietro. Ma una risposta è annidata anche nelle immagini, nel video e nelle voci raccolte da Marina Ballo Charmet: lavori costruiti attorno all’indefinito, al periferico, a quella porzione che precede appena lo stato cosciente. Tatay interroga lo spettatore e fa ancor di più: induce a percepire.  

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