Jhumpa Lahiri: Racconti romani
C’è uno stormo di rondini che sovrasta le teste di tre pini marittimi sulla copertina di Racconti romani di Jhumpa Lahiri (Guanda, pag. 250, euro 17). È un’immagine metafisica della Capitale, ma la scrittrice americana guarda ad altezza d’uomo, ai dolori e alle piccole contorsioni cui sono costretti i tanti protagonisti dei nove racconti, come nove erano le storie di vita quotidiana del suo L’interprete dei Malanni (Guanda, 2016), libro vincitore del premio Pulitzer nel 2000.
Allora lo sguardo era rivolto a chi migrava da un continente all’altro e doveva scegliere se “tradire” la terra d’origine dei genitori, lasciare la cultura di appartenenza, o contaminarla in una tensione continua tra passato e presente, tra il mondo quotidiano e quello latente, come è successo alla stessa autrice, figlia di genitori bengalesi, nata a Londra e trasferitasi a tre anni negli Stati Uniti. Nel dissidio del personaggio di Gogol, protagonista di L’omonimo (Guanda, 2021), da cui la regista Mira Nair ha tratto il film Il destino nel nome – The namesake, c’è quello che la scrittrice ha provato sulla propria pelle: come un'altra cultura ci può salvare la vita, trasformarci in ciò che vogliamo essere, farci rinascere. Lahiri ha infatti un dottorato in studi rinascimentali ed è professoressa di scrittura creativa all'Università di Princeton.
L’ambivalenza, lo sradicamento è da sempre la cifra della sua analisi e narrazione, ma con questo libro Lahiri sceglie di continuare la strada di uno dei suoi “padri letterari”, Alberto Moravia, e lo omaggia dando alla sua opera lo stesso titolo di quella che lo scrittore aveva dato alle stampe per la prima volta nel 1954, raccogliendo gli articoli usciti per varie riviste e quotidiani dal 1948 e il 1959.
In parte, anche Lahiri recupera e trasforma alcuni brani pubblicati sul “Corriere della Sera”, “Nuovi Argomenti” e raccolte collettanee, ma poi cuce e reinventa concludendo un percorso suddiviso in tre parti.
Come Moravia, osserva i comportamenti di tutte le classi sociali, dalle più umili alle più agiate, dagli autoctoni agli ambienti internazionali, dall’immigrazione di lusso e quella dettata dall’estrema povertà. Moravia analizzava il Belpaese alle prese con la trasformazione del boom economico nel Dopoguerra; Lahiri sconfina nel côté borghese romano contemporaneo con un occhio clinico sulla famiglia e la sua implosione; come un radar scandaglia ciò che è molto terreno e a volte prosaico. E non dimentica mai il motore della sua ispirazione, ovvero lo sguardo sugli e degli ultimi (chirurgico è il racconto delle cause che fanno finire un uomo a vivere come clochard sulla strada), degli immigrati appena arrivati nel nuovo paese e quelli di seconda generazione.
In tutti i suoi lavori Lahiri ha esplorato il canto dell’esilio e della perdita, l’abbandono e il ritorno, come in Una nuova terra (Guanda, 2008), vincitore del Premio Gregor von Rezzori per la miglior opera di narrativa straniera nel 2009 e La moglie (Guanda 2013), finalista al Man Booker Prize e al National Book Award for Fiction.
È un libro sulle soglie, Racconti romani, sul confine, da cui prende il titolo la prima delle novelle, la nave ammiraglia che segna la rotta, in cui la scrittrice si immerge in una bambina, immigrata di seconda generazione, che a sua volta guarda ciò che la circonda con gli occhi di una donna di una classe sociale e abitudini molto diverse dalla sua. Non c’è invidia, né voglia di riscatto, ma solo stupore, scoperta della diversità possibile.
La morte incombe in ogni capitolo: i protagonisti hanno perso qualcosa, il proprio posto nella società, una persona cara, la sicurezza di un amore, la salute, il senno e forse l’innocenza. Lahiri scandaglia con delicatezza l’ipocrisia della famiglia borghese, dove esiste “un’infedeltà accettabile”, in cui ci si sente ingabbiati dalle convezioni e dove l’adulterio può essere una prova di forza “per paura di morire senza mai sgarrare”. È forse l’ambiguità dell’Italia cattolica, dove tutto viene perdonato dopo il pentimento, dove la bugia è un male necessario per barcamenarsi, dove le apparenze dovrebbero essere frontiere da abbattere, come dimostrava Bellocchio già negli anni Sessanta con I pugni in tasca. Nella gran Capitale tutto si sgretola nel cinismo, nell’incombenza dell’enorme potere dei palazzi e della Chiesa, dove si finge di essere sudditi e invece si è padroni di quella piccola cosa che è la propria esistenza, la sola proprietà senza pignoramenti.
Come nei romanzi gotici a un certo punto è un luogo a diventare protagonista, una scalinata attorno a cui si dipanano diverse storie, come il mare da cui Roma è lambita idealmente nell’odore di salsedine e nei gabbiani che invadono le piazze.
Salgono e scendono gli scalini tanti personaggi, ognuno con un bagaglio di ricordi e una speranza per il futuro. C’è l’house keeper che è in Italia per mantenere i suoi figli che sono rimasti lontani, ma ha imparato a voler bene ai bambini che cura. C’è una vedova che si sente minacciata dai cocci di bottiglia, come riflesso della Roma invasa dai rifiuti. Le bottiglie sono rotte come la sua fiducia verso il mondo, al contrario della ragazza che sulla scalinata sente invece di potersi fondere con un organismo collettivo.
Non c’è la Roma monumentale, spirituale ed eterna in questa raccolta di racconti, ma una città terragna, anche razzista, in cui gli immigrati sono oggetti di attentati tanto casuali quanto spietati. Pochi i luoghi iconici riconoscibili, come il ponte Sisto o piazza del Fico. L’insostenibile bellezza di questa città rischia di far sentire ogni essere umano inadeguato, perseguitato dalla paura di avere “un rapporto tenue con la città”. Roma è insomma un riverbero, che però tiene insieme il filo delle storie, dove la natura accarezza la città e la ammorbidisce con i suoi grandi parchi. Una città dove si impara la scaramanzia e dove si apprezzano le rotondità del corpo, perché il cibo assume una funzione primaria, di cui la stessa scrittrice riconosce l’importanza anche come cinghia di trasmissione delle vecchie generazioni. “The Long Way Home; Cooking Lessons”, pubblicata su “The New Yorker” è una storia sull'importanza del cibo nella relazione di Lahiri con sua madre.
Dentro ai personaggi attiva il suo personale periscopio, come se fosse un sottomarino. È figlia di studi coltissimi (il capitolo su “Dante” è anch’esso un omaggio), ma sa “sporcarsi” scegliendo vocali e aggettivi di nuovo conio, come “incasinato” per indicare le condizioni di una stanza o “mantecare” per amalgamare non degli ingredienti, ma un gruppo di persone.
Jhumpa Lahiri è come il signor Kapasi, uno dei personaggi dell’Interprete, appassionato di lingue, mediatore linguistico. Osserva i vocaboli, li studia, se ne appropria e li mette nella pozza della sua cultura primigenia, quella bengalese, per poi trasformarla in un nuovo orizzonte originalissimo, cosmopolita, voce interiore di un processo misterioso. È qualcosa che la trascina e la sequestra e da cui vengono fuori sentimenti antichi che si mescolano con quelli moderni.
Lahiri scrive in italiano dal 2015, a partire dall’autobiografico In altre parole, vincitore nello stesso anno del Premio Internazionale Viareggio-Versilia. Il primo romanzo nella nostra lingua arriva nel 2018, Dove mi trovo, una voce femminile nel tentennamento tra vecchio e nuovo. Un sentimento forse imprestato o forse emerso nei dieci anni trascorsi in Italia, in cui si è trasferita con il marito e figli (cui il volume è dedicato) nel 2011.
In Racconti romani Lahiri guarda l’Italia senza sconti, ma con benevolenza grazie anche a una scrittura controllata e matura, frutto di un processo creativo analitico, di profonda umiltà con cui si offre al lettore in una narrativa assai godibile. Il risultato è di sorprendente luminosità, come quando si scarnifica per porgere al meglio il significato delle cose, una certa filosofia di vita e di scrittura. Una riflessione e profonda devozione a una lingua e a un Paese che la ricambia.
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