Capodanno à la carte. Un racconto.

31 Dicembre 2024

Silvestro si sentiva perseguitato dalla tecnologia. Una mail gli diceva alla fine del mese quante città aveva visitato, quanti continenti, quanti chilometri aveva percorso in bici o a piedi, se aveva utilizzato la nave o il motorino. Un altro sistema ogni fine settimana lo bastonava per non aver fatto abbastanza come dipendente: aveva usato solo il 30 per cento del suo tempo per corrispondere con i colleghi interni dell’azienda e solo il 20 per cento con utenti che non appartenevano alla struttura. Aveva usato la piattaforma per le riunioni collettive solo per il 10 per cento del suo tempo lavorativo. Forse aveva bisogno di un aiuto? Bastava rispondere a quel sollecito.

Se diceva “tende”, apparivano sul motore di ricerca decine di offerte di tende in saldo. Se diceva “mare”, subito saltava fuori una vacanza a Rimini o a Dubai.

Era per questo che aveva acquistato dal cartolaio sotto casa i più eleganti e costosi bigliettini cartacei per mandare l’invito alla sua festa di pensione. Voleva compilare una lista rigorosamente manuale in modo che nessuna Intelligenza artificiale potesse rimproveragli di aver dimenticato il compagno d’ufficio, con cui corrispondeva per il trenta per cento del tempo lavorativo, o quello con cui spendeva il cinque per cento del tempo, sempre lavorativo, davanti alle macchinette.

Era stato a lungo sulla sedia meditabondo a stilare una lista di persone. Poteva pescare da ogni stagione della sua vita. Era sempre rimasto nella sua città d’origine. Aveva avuto la spinta ad andarsene, a dire la verità, ma quando era arrivato il tempo dell’università i genitori lo avevano subdolamente dissuaso: “Certo, se vuoi andartene, ben venga. Ma qui ci sono le migliori università del paese…”. Così Silvestro era rimasto, non tanto per la qualità delle università, quanto perché aveva nasato che in famiglia non se la passassero così bene, nonostante l’appartamento di proprietà in una zona d’alta borghesia cittadina. Anzi, forse proprio per quello. Mamma aveva venduto la pelliccia e non era certo mai stata animalista. Un giorno la Mercedes era sparita: papà gli aveva detto che in una città dove i mezzi funzionavano non aveva senso tenere un’automobile. Infine, quel lavoretto da barista che gli avevano trovato sotto casa “perché si facesse le ossa e capisse cos’era la vita” aveva coronato il quadro della famiglia a corto d’ossigeno finanziario. Se n’era accorto soprattutto dopo, che per togliere l’ipoteca sulla casa di mamma, si era ammazzato di straordinari, trascurando la moglie.

Era quasi Capodanno… Doveva rimandare la festa per la pensione?

D’un tratto ebbe un’idea: ecco, cos’avrebbe fatto. Avrebbe invitato gli amici per il 31 dicembre sera, per il suo onomastico. Chi lo amava sarebbe venuto. Chi no, non importa. Intanto lui avrebbe adempiuto al suo dovere di fare una festa. Casella spuntata.

Anzi, era fiducioso che non sarebbe venuto nessuno.

Si mise di buona lena: invitò tutti i suoi colleghi d’ufficio. La maggior parte erano “immigrati interni” e se ne erano già partiti per le terre d’origine. Invitò anche quelli dell’area limitrofa al suo open space. Open space: spazio aperto. A tradurlo aveva il sapore di una campagna dove sfinirsi di corse e invece era stata una tortura per il corpo e per la mente. I colleghi che urlavano sempre e lui che non si riusciva a concentrare. Il freddo d’estate e il caldo collettivo d’inverno per un uso dissennato delle fonti di riscaldamento o refrigerazione, assieme a tutte le influenze che passavano di scrivania in scrivania. Alla lista, aveva aggiunto tre compagni delle elementari, nessuno delle medie, cinque delle superiori, cinque dell’università, due con cui giocava a tennis, due con cui andava al cinema, tre genitori dei compagni di classe dei suoi figli.

Fu una fatica immensa trovare gli indirizzi di casa, ma tra intelligenza artificiale e vecchie rubriche ce la fece. Il 31 dicembre se ne andò al più gran centro commerciale della città, quello vicino alla casa dei genitori. Aveva architettato tutto per creare un evento che sarebbe rimasto nell’ingorgo della sua memoria. Avrebbe consegnato le chiavi di quella famigerata casa al nuovo proprietario e sarebbe andato a fare la spesa più costosa della sua vita. Voleva bruciare in futilità una piccola parte del poco che ne sarebbe arrivato dalla vendita. Tutta la sua vita lavorativa a pagare il mutuo di una casa dove non aveva abitato, se non in gioventù, e a estinguere i debiti di suo padre. Ma si era ripromesso che la mamma sarebbe vissuta serenamente in quella casa fino alla fine. Gli era costato tutto molto.

Silvestro si aggirava tra gli enormi scaffali del supermercato che condivideva con tutta la parte della città che non era potuta partire o che non aveva radici da altre parti del Paese. Appartenere a quel sottobosco di latitanti della vacanza invernale lo galvanizzava, così come l’idea di poter comprare quello che non si era potuto permettere per anni. Fermo davanti al frigobar del Beluga si sentì, però, chiamare: “Silvestro”.

Si voltò e vide davanti a sé un uomo con la barba bianca ben curata, uno sguardo sommesso, il sorriso malinconico. Strizzò gli occhi. “Silvestro non mi riconosci?”. Lo prese una sorta di affanno, come gli accadeva quando non riusciva a collegare i ricordi, il libro che aveva letto e di cui non si rammentava la trama, il film che vedeva per la seconda volta senza riconoscere una battuta o una sola inquadratura.

k

Alzò le braccia in aria per arrendersi.

“Silvestro sono Giuseppe”.

Silvestro rimase immobile.

“Sono Giuseppe”.

Silvestro scrollò le spalle. “Abbiamo condiviso il banco per cinque anni al liceo”.

Silvestro lo guardò meglio. A fatica riconobbe in quegli occhi ormai tirati verso il basso, lo sguardo chiaro del suo migliore amico, quegli occhi che lui ammirava mentre passavano gioiosi sulle equazioni come se ballassero. Dentro le orecchie avvertì la scampanellata prolungata che Giuseppe metteva in atto inchiodando il dito al citofono, seguito da tre trilli brevi per farlo scendere in fretta. Quell’accento impeccabile, che la mamma era del Nord e il papà del Sud, e lui sembrava uno che annunciava il carosello ogni sera. Si ricordò un fiotto di affetto puro, sentito e ricevuto, come quello che si scambiano i cuccioli di animali mentre fanno la lotta.

“Giuseppe, Giuseppe!”, sussurrò commosso Silvestro. “Ma ti sei rimpicciolito!”, gli disse ridendo.

“E tu ti sei ingrossato”, rispose l’altro abbracciandolo.

“Ma che ci fai qui?”

“Sto facendo la spesa per una festa per la pensione… Per stasera…”

“A Capodanno? Una festa per la pensione?”

“E già…”

Silvestro esitò, ma poi prese coraggio. “Vuoi, per caso, venire?”

Giuseppe non rispose, sembrava sorpreso.

“Scusami, avrai la tua famiglia…”.

Giuseppe rise amaramente: “Divorziato di fresco”.

“Davvero? Anche io! Allora vieni?”, chiese speranzoso Silvestro, mentre in testa sentiva il brusio delle risate giovanili. Le ragazze che rispondevano ai loro approcci, tutte serrate, gomito a gomito, mentre camminavano.

“Vengo”, rispose Giuseppe dopo averci pensato un poco.

Silvestro lo abbracciò di nuovo.

“Mandami la posizione”, disse Giuseppe.

“Ah no, nessuna posizione. Ti scrivo l’indirizzo qui”, ed estrasse un foglio dove scrisse a penna una strada.

“Ah, vivi qui adesso. Dall’altra parte del nostro quartiere”.

Chissà perché si riabbracciarono.

“E basta!”, sbottò una donna minuta e nervosa. “Sono 5 minuti che aspetto di aprire il frigo. Carramba che sorpresa non c’è più. Spostatevi ai surgelati e lasciate festeggiare il Capodanno anche a noi altri”.

Silvestro e Giuseppe si spostarono nel corridoio “Pane e companatico”.

“E figli?”, chiese Giuseppe.

“Due. E tu?”

“Due anche io”.

“I miei esplosi: uno in America, l’altro in Asia. Li videochiamo”.

“Anche i miei, più o meno. Meno esplosi, ma sempre lontani”.

“Senta, lei che è alto, mi allunga una confezione di pane carasau per favore”, chiese una donnina bassa con i capelli freschi di ricci e di lacca. Quando Giuseppe le porse il cartone, lei rispose con un sorriso malizioso di un’ottuagenaria che quel giorno profumava come una ventenne.

Giuseppe gli diede uno spintone scherzoso. “Cosa fai tu alle donne!”

“A proposito”, sul viso di Giuseppe passò un’ombra. “Non ci siamo più visti per… Lei. Ti ricordi?”.

“Eh, sì!”, sospirò Silvestro con le mani in tasca. “Ha preferito te”

“Ma come?”, esclamò Giuseppe. “Ma se mi ha lasciato per stare con te!”

Entrambi si appoggiarono sui rispettivi carrelli.

“Quindi non è mai stata con nessuno dei due?”, chiese Silvestro.

“Evidentemente”, si accarezzò la barba Giuseppe.

“E noi che non ci siamo più visti per quarant’anni…”.

Si scrutarono per un attimo malinconici.

“Dai!”, disse Silvestro, come a dissolvere le nubi. Quelle memorie erano dolorose. Ricordava vagamente di essere stato eccessivamente violento con l’amico. “Ci vediamo stasera?”

“Contaci”, rispose Giuseppe e allargò le labbra cordiali in un sorriso. Ecco, notò Silvestro, il sorriso non era cambiato. La bella dentatura franca, decisa.

k

Silvestro tornò a casa e cominciò a predisporre il tavolo. La più bella delle tovaglie, il caviale, il foie gras, le brioche salate, il panettone gastronomico, champagne, ostriche, aragoste sotto gelatina, salmone, tartare di tonno, uova di quaglia. Tutto quello che la sua fantasia aveva preteso. E mentre preparava, gli sovveniva Giuseppe che gli prestava la racchetta migliore, che le aveva prese da uno molto più grande di lui per difenderlo, che gli passava i compiti di matematica sottobanco. E tutto questo perché era finito? Per un sorriso di troppo, per una sfida, per vedere se contava più l’amicizia o un reggiseno slacciato.

Silvestro finì i preparativi alle sette e si mise ad aspettare i suoi invitati, cristallizzato nella stessa posizione sul divano, come se fosse prigioniero di una ragnatela. Nessuno in vista. Se l’era voluta, aveva fatto tutto perché nessuno arrivasse.

“Nemmeno lui è venuto…”, mormorò mentre voltava la testa verso la tavola imbandita.

Poi ecco che lo sorprese un suono sordo. Una scampanellata lunga e poi tre trilli brevi.

Silvestro si sentì ridere.

Schiacciò l’apri portone e sentì correre sulle scale. Aprì la porta e Giuseppe brandì una bottiglia di champagne.

Vedendo la sala vuota, disse: “Ce l’hai fatta, eh, a non fare venire nessuno… Come se non ti conoscessi…”.

Aprirono la bottiglia e cominciarono, mangiando, a tirar fuori tutti gli aneddoti sulla loro amicizia. Quelli sì erano scolpiti e nessuno poteva cancellarli.

“A proposito…”, disse a un certo punto Silvestro timoroso. “Ma come si chiamava… Lei?”

Giuseppe scoppiò a ridere. “La sai una cosa? Ci ho pensato in tutte queste ore… E non me lo ricordo”.

Ma poi ecco un trillare di campanelli. Sobbalzarono.

“Ospiti? Ospiti che hanno abboccato?”, chiese Giuseppe.

Silvestro si alzò e spense la luce. Si affacciò al balcone facendo sporgere solo lo sguardo e fece un gesto a Giuseppe perché si avvicinasse.

Sotto c’era una coppia con una bottiglia in mano che si appendeva al citofono prima timidamente, poi più decisamente. A quella si aggiunse un’altra coppia e poi man mano altre persone. Alcune riuscirono a entrare e cominciarono a suonare il campanello del pianerottolo.

Giuseppe e Silvestro, chissà perché procedevano a quattro zampe, come se qualcuno potesse vederli da una finestra immaginaria che dava dentro casa e ridevano. “Shhh” sibilavano l’uno all’altro. Mentre alzavano i calici silenziosamente sentivano la gente pian piano andarsene, chi imprecando, chi mettendosi d’accordo per raggiungere insieme un locale.

Quando ci fu silenzio stapparono la seconda bottiglia di champagne.

“Buon anno!”, disse Silvestro, alzando in alto il calice.

“Buon anno”, rispose Giuseppe, addentando una fetta di panettone gastronomico.

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