I bambini ci guardano: Kore’eda e gli altri

19 Settembre 2024

Sembra che la comprensione del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, alla fine, sia legata principalmente a una questione di prospettive. Della giusta prospettiva, a essere precisi. E probabilmente è anche inevitabile che una profonda differenza di comprensione delle dinamiche dell’esistenza, com’è quella che mette di fronte due generazioni diverse, non sia altro che un confronto di visioni e valori antitetici, complesso da capire e rappresentare senza analizzare le divergenze soggiacenti con la dovuta profondità. 

La differenza prospettica è la costante di alcuni dei lavori che ruotano intorno al mondo della scuola e che, attraverso una sorprendente congiuntura, sono usciti in Italia nell’ultimo anno, come il recente L’innocenza, o gli immediatamente precedenti Racconto di due stagioni, Una spiegazione per tutto e La sala professori. Film che stimolano una riflessione non solo sul tema delle difficoltà affrontate dall’adolescenza a esprimere compiutamente sé stessa, ma anche — e forse soprattutto — sulle modalità che le produzioni recenti hanno nel rappresentare un’inconciliabilità tanto marcata.

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L’innocenza (2023), Hirokazu Kore’eda.

Per far questo, Hirokazu Kore’eda, in L’innocenza, non solo si cala in diverse realtà intime ma condiziona perfino la struttura del suo film, conducendo un’indagine quanto più possibile rivelatoria e vicina alla verità, ammesso che ne esista davvero una e che non appaia rifranta in una serie di realtà soggettive, tutte ugualmente valide se riferite a un singolo personaggio. Non è certo la prima volta che Kore’eda stratifica la narrazione per andare oltre le evidenze, è però una novità che per fare questo abbia lavorato a stretto contatto con lo sceneggiatore televisivo Yûji Sakamoto, quasi per allargare il livello d’analisi. E in effetti L’innocenza, nella sua sovrapposizione concettuale, svia e procrastina il nucleo del problema, presentandosi dapprima come la triste vicenda del maltrattamento di un allievo da parte di una scuola sostanzialmente indifferente e passiva, se si assume la prospettiva di una madre preoccupata (e anche frettolosa, volendo), di un caso di bullismo se si condivide il punto di vista dell’insegnante accusato di molestie, di una tenerissima esperienza sentimentale, inconfessabile con i parametri socialmente diffusi, se ci si lascia cullare dal rapporto tra Minato, l’allievo considerato prima vessato e poi vessatore e un suo compagno di classe, Yori. Lo scopo, centellinato dagli autori e bramato dal pubblico, è trovare chi sia il mostro evocato fin dalle prime scene dai protagonisti (oltre che dal titolo originale, Kaibutsu; Monster nella fedele traduzione internazionale): un mostro che si annida ovunque in relazione alle apparenze e ai pregiudizi e che il film asseconda, mutando collocazione in funzione del personaggio su cui si concentra ma del quale non condivide il punto di vista. Quella che Kore’eda propone al pubblico è, infatti, una prospettiva indotta, che non procede mai dallo sguardo dei personaggi, però è capace di situarsi in una posizione (narrativa) ideale per osservare le cose dal verso più opportuno, per poi, successivamente, dotarsi di una proficua ubiquità. 

Kore’eda non cerca la verità, scava dietro le apparenze e nelle zone d’ombra per comprendere le ragioni di una sofferenza. L’essenza ultima di un problema. È lontano il relativismo pirandelliano di Rashōmon, cui L’innocenza è stato paragonato in qualche recensione seguita alla sua presentazione a Cannes nello scorso anno: nel suo sviluppo di puzzle narrativo, i segmenti non entrano in conflitto tra loro ma tutto scorre coerentemente, collegandosi intorno a un evento (l’incendio di un palazzo in una cittadina non specificata) e a un oggetto (un accendigas) a loro modo simbolici, e lambendo una realtà che ha bisogno della totalità delle esperienze per poter essere assunta compiutamente. 

Il film non è soltanto un thriller spurio, come può apparire inizialmente, o un’elegia della purezza dei sentimenti, come invece sembra chiudersi. Il senso ultimo si dispone tra questi due aspetti e fa sì che l’appellativo di «mostro», che i ragazzi si attribuiscono in un accesso di senso di colpa, sia in realtà da accollare all’universo degli adulti e al loro sistema di valori distorto al quale i due adolescenti sentono l’obbligo di conformarsi per non vedersi sbagliati.

La forza di L’innocenza, al di là della ricercatezza della struttura, che stimola a ricavare un significato in funzione del rilascio progressivo delle informazioni da parte dei personaggi, risiede anche nell’indiretto e impietoso confronto tra due universi, quello adulto e quello infantile, che Kore’eda e Sakamoto ci suggeriscono essere inconciliabili, perché non disponibili all’incontro e alla comprensione, quanto alla presunzione degli uni a porsi come indiscutibile riferimento per gli altri. Nonostante tutto. Perché le parole dette senza senso di responsabilità (il padre alcolizzato di Yori che convince il figlio di aver ricevuto il trapianto di un cervello suino), gli atteggiamenti affrettati e acritici (la madre autoindulgente che accusa istintivamente la scuola; l’insegnante convinto che Minato si sia macchiato di atti di bullismo) e le ipocrisie quotidiane (la preside che piazza opportunamente nell’ufficio la foto con il nipote da poco scomparso come deterrente per la collera della madre di Minato) rappresentano un danno a quello stesso sistema di valori che si vorrebbe inappuntabile e che invece risulta devastante per le conseguenze provocate nei minori. E la comparazione, in Kore’eda, è sempre mediata, mai banalmente diretta, perché frutto maturo di una messa in scena delicata, in grado di dominare con il suo tatto le situazioni drammatiche tramite la grazia della rivelazione.

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Racconto di due stagioni (2023) di Nuri Bilge Ceylan.

I bambini ci guardano, si diceva fin dagli anni Quaranta del secolo scorso. Ma l’assunzione della loro prospettiva resta un mistero insondabile. Un altro insegnante, il tutt’altro che inappuntabile Samet, al termine di Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan, uscito in Italia a fine giugno, si scusa idealmente con la sua pupilla Sevim, spiegando con la sua voce narrante (meglio: commentante) che tutte le incomprensioni erano dovute al vano tentativo di guardare sé stesso attraverso i suoi occhi, gli occhi della ragazza. Ossia assumere la prospettiva dell’infanzia per vedersi dall’esterno e fissarsi nella perfezione di un’immagine ideale, a cui aggrapparsi per andare oltre la frustrazione dell’esistenza quotidiana che, in Turchia, obbliga un insegnante a trascorrere quattro anni in regioni sperdute dell’Anatolia orientale prima di poter chiedere l’agognato trasferimento. La sua illusoria intenzione è superare quello stesso relativismo che tra prima e seconda parte di L’innocenza faceva ritenere il professor Hori un mostro alla stizzita madre di Minato e una persona gentile per gli altri allievi della classe. Un relativismo che sul piano filosofico non è che un aspetto dell’inconoscibilità ma che nella pratica educativa rappresenta un grave problema, perché esposto a soggettività conflittuali. Con le sue lunghe sequenze e i suoi dialoghi speculativi, Ceylan, a differenza di Kore’eda, non presenta il mondo adulto come un’alternativa mostruosa, incapace di comprendere, però ne evidenzia la profonda meschinità e l’inopportunità delle azioni. Il rapporto privilegiato tra Samet e Sevim, la considerazione particolare di cui gode la ragazza rispetto ai suoi compagni, i piccoli regali con cui l’insegnante la gratifica rappresentano uno squarcio nell’inappuntabilità deontologica e un ponte verso un infamante mutamento di ottica, a causa del quale l’insegnante è accusato dalla stessa allieva di aver avuto atteggiamenti lascivi. 

Gli equilibri in ambito educativo, si sa, sono precari. In Una spiegazione per tutto, uscito a inizio maggio, Gábor Reisz rende grottescamente allegorica l’attuale situazione sociale ungherese attraverso l’effetto domino che si origina da una notazione pressoché innocua. L’osservazione con cui durante l’esame di maturità un insegnante di storia domanda ragione a un suo allievo della coccarda tricolore che indossa all’occhiello (ritenuta simbolo del nazionalismo orbániano) diventa dapprima per il padre conservatore del ragazzo il vero motivo della sua bocciatura e poi, nella cronaca di una giovane giornalista che ambisce al salto di carriera e che ha carpito per caso un brandello di conversazione, la strumentalizzazione di una polemica politica che sconfina in un devastante effetto domino. Il motivo, come per L’innocenza, è tuttavia molto più banale, esclusivamente ripiegato nella sfera intima: l’allievo non ha studiato perché perdutamente innamorato di una sua compagna. Rispetto al film di Kore’eda le ansie sono differenti (là si è alla ricerca di un’identità, qua ci si avvia a fare il proprio ingresso nel mondo), ma la visione dell’universo adulto, aggressivo, polemico e totalmente velleitario, è altrettanto impietoso. Cambiano anche i toni, parabola di formazione e rinascita in Kore’eda, satira pungente nel film di Reisz, ma è sempre il sensibile gioco prospettico a condizionare la labile stabilità esistente. Che spaccia frammenti e impressioni per evidenze assodate nell’assoluta mancanza di reali certezze cui ancorarsi. Complice una società totalmente ossessionata dal sospetto del nemico.

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Una spiegazione per tutto (2023) di Gábor Reisz.

Ed è ancora una prospettiva parziale a originare il problematico gap fra le generazioni in La sala professori, candidato tedesco all’Oscar come migliore film straniero, uscito in Italia nello scorso marzo. Se in Una spiegazione per tutto si origliava casualmente una conversazione, nel film diretto da Ilker Çatak un’insegnante, Carla Nowak, si aggrappa a un frammento d’immagine, il motivo di una camicetta ripreso in un video, visto nel tentativo improprio di condurre un’indagine per scagionare un suo allievo di origine straniera dall’ingiusta accusa di furto. La difficoltà di un contatto possibile tra insegnanti e allievi si sostanzia nel paradosso per cui il tentativo di avvicinare divarica ancora di più le distanze con conseguenze inattese, impossibili da prevedere e del tutto destabilizzanti. Un frammento, per quanto apparentemente chiaro, suggerisce l’allegoria alla base del film, non sostituisce la realtà, è solo una visione parziale di un problema molto più complesso, ed è quindi inadeguato a porsi come spinta inequivocabile rispetto all’azione da compiere. In questo caso, inoltre, agisce anche una sorta di presunzione da parte dell’insegnante protagonista, convinta di padroneggiare la pedagogia e di possedere l’appropriata sensibilità per agire trascurando la necessaria collegialità. 

La messa in scena di Çatak riflette fin dall’inizio l’isolamento di Carla, la sua prospettiva limitata concepita come indubbia, mettendosi a ridosso del personaggio, stringendola in un’inquadratura poco più grande di un quadrato (il classico ma attualmente poco utilizzato formato 1,33: 1), coincidendo con il suo movimento nelle aule e nei corridoi della scuola in cui lavora e concedendo spazio ad allievi, colleghi e anche genitori solo quando entrano in contatto con lei. Perché alla fine, paiono indicare questi lavori, tutto si origina da un individualismo che malgrado le buone intenzioni rimane schiavo delle apparenze (L’innocenza), della frustrazione personale (Racconto di due stagioni), di un conflitto di posizioni (Una spiegazione per tutto) o di un’ingenua sopravvalutazione personale (La sala professori). Creando una frattura, drammatica, morale e stilistica, laddove si dovrebbe costruire un’auspicabile relazione. 

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