Dimmi cosa vedi. Anatomia di una caduta
Che accadrebbe se, a causa di un improvviso fatto tragico e senza sceglierlo, la nostra vita più privata venisse esposta e guardata pubblicamente, ricostruita da estranei e giudicata? Cosa e a chi potrebbero credere gli altri, se, senza conoscerci, dovessero interrogarsi sulla nostra storia di coppia? Anatomia di una caduta, il quarto lungometraggio di Justine Triet, vincitrice della Palma d’Oro al Festival di Cannes, lavora attorno a questa domanda, componendo un film di tensione, che perciò va visto dentro un cinema, per viverne al meglio le qualità. Occorre uscire, da casa e dalle abitudini, trovare una sala dove stare in silenzio e in solitudine ma in mezzo a altre persone, ascoltando e sprofondando lo sguardo nel grande schermo. E occorre “resistere” addirittura per centocinquanta minuti, cioè dilatando i tempi di attenzione sempre più tagliati sulla lunghezza massima di un’ora degli episodi delle serie tv. Durata, immersione e spettatorialità sono condizioni essenziali richieste da Anatomie d’une chute, un’opera che ci fa “assistere” doppiamente, perché si tratta non solo di guardare, ma, per due terzi del tempo, come se facessimo parte della giuria popolare, di partecipare a un processo, nel tribunale di Grenoble. Si tratta infatti del procedimento intentato contro la protagonista, una famosa scrittrice tedesca, Sandra Voyter (Sandra Hüller), accusata di aver ucciso il marito. Il punto però, come dice l’avvocato della difesa, non sarà ciò che dichiara la donna («Io non l’ho ucciso»), ma cosa potranno credere i giudici. Questa condizione di opacità e indecidibilità tra verità e finzione funziona anche come logica formale dell’intero film:
E tuttavia forse non basterebbe a farne un’opera significativa, se non fosse per il modo originale in cui il film sa smentire le nostre aspettative, costruendo via via modi diversi di guardare la storia. Si comincia infatti da una pallina che cade dalle scale di uno chalet di tre piani sperduto tra le montagne intorno a Grenoble, dove Sandra e Samuel vivono con il figlio undicenne, ipovedente, e con un cane guida – la palla è un suo gioco. Sono notizie, tuttavia, che ricaveremo più avanti, perché in prima battuta il nostro sguardo è orientato su due donne sedute che stanno conversando. Con un atteggiamento poco formale per un incontro di lavoro, Sandra replica alle domande che le rivolge una studentessa universitaria venuta apposta da lei, ponendo lei stessa delle domande di tipo personale alla ragazza. Quasi subito però l’intervista è disturbata e interrotta dal volume altissimo della musica (un brano strumentale del rapper 50 cent ) messa in continuazione dal marito al piano di sopra. La ragazza se ne va, mentre anche Daniel, il figlio, esce col cane. Saranno loro, al rientro dalla camminata nel bosco, a scoprire davanti a casa il corpo morto del padre, volato dal terzo piano, mentre la madre era all’interno. Le indagini sull’incidente non portano a una conclusione certa. In più, una scrittrice che uccide suo marito è un’idea più interessante di un insegnante che si suicida. Di conseguenza un anno dopo comincia il processo:
Anatomia di una caduta usa i codici del racconto giudiziario – talvolta si ripensa anche a Testimone d’accusa (Billy Wilder, 1957) – del thriller e del romanzo matrimoniale, ma forse lo fa, più che altro, strumentalmente, come se la struttura del genere fosse ripresa e poi rovesciata, per mettere in scena altri aspetti importanti.
Succede di regola con le narrazioni di un processo: lo spostamento del racconto all’interno del tribunale, trasformato in spazio di formazione delle verità, non comporta soltanto un passaggio di ambientazione, ma, soprattutto, un cambio graduale di prospettiva e di messa a fuoco, nel senso che a questo punto l’attendibilità e la verità dei fatti è messa, scenicamente e simbolicamente, sotto lo sguardo della corte. A quel punto spettatrici e spettatori del film non sono più interpellati soltanto sulla verità, ma sugli occhi e i modi, sia interni sia esterni alla storia, con cui si sta guardando. E così l’opera non narra più una vicenda personale, ma un sistema di credenze sociali. Il modo in cui Sandra, la protagonista, agisce e viene vista, per esempio, appare (a chi? perché?) poco conforme, da tutti i punti di vista, perché è entrata in scena con frasi che potevano essere indizi di una bisessualità che sarà poi effettivamente chiamata in causa più avanti; in più, all’interno della coppia, è lei che ha avuto successo, tradendo il senso comune; è tedesca, è una madre tedesca, dunque, sempre assecondando i clichés, poco effusiva anche con il figlio; è ambigua, perché è una ladra di storie, nel senso che si è disinvoltamente impossessata di un progetto romanzesco del marito. Ci sono momenti più didascalici, per così dire, come quando Sandra, durante le settimane del processo, chiede al figlio di non pensare che lei sia un mostro. Ma, a parte certe piccole debolezze, Anatomia di una caduta è un film bello, che funziona, e ci fa vivere il cinema come esperienza. Continuiamo allora a riflettere su altri tre aspetti originali della realizzazione.
I primi due riguardano direttamente il personaggio del figlio, che incarna la prima “caduta” avvenuta dentro la coppia. Daniel è quasi cieco perché a quattro anni ha avuto un incidente indirettamente provocato, secondo la ricostruzione dei fatti, da un litigio tra i genitori, e questo ha dato origine a una catena di sensi di colpa, reciproche accuse e intossicamenti (che si inverano, simbolicamente, quando Daniel a momenti rischia di far morire per avvelenamento il cane, animale totemico e per certi aspetti narratore della storia). In più, il ragazzino, come ogni figlio, e prima ancora di deporre in aula, è “testimone” della relazione tra Sandra e Samuel. Ma, essendo ipovedente, Daniel non è testimone oculare e questa particolare stranezza rende così significativo e importante il suo ruolo, in termini sia simbolici sia drammaturgici, perché Daniel, che dovrà ricostruire lo svolgimento della storia servendosi di risorse non visive, agirà, progressivamente, come interprete dei fatti e protagonista del loro (provvisorio) scioglimento.
A questo motivo se ne attacca un altro anche più interessante, in termini formali, perché attraverso la cecità di Daniel e la relativa necessità di mobilitare gli altri sensi, lavorando su forme altre di percezione, Anatomia di una caduta diventa un film che lavora soprattutto sul potere della memoria e della fantasia in quanto situazioni uditive e non visuali.
Di solito, pensiamo al cinema come a una straordinaria metafora di quanto la nostra attività proiettiva e fantasmatica tragga nutrimento dalle immagini. È vero, naturalmente, ma la visione del film di Justine Triet ci fa vivere e sentire meglio quanto i suoni possano essere altrettanto fondamentali per percepire la realtà, e quello che vogliamo credere di essa. Tutto il film è costruito su un’intelaiatura acustica dove quello che udiamo – la musica assordante all’inizio, le deposizioni dei testimoni, Chopin suonato al pianoforte da Daniel, la registrazione del litigio con la moglie registrata di nascosto da Samuel e fatta riascoltare al processo – non funziona come un semplice accompagnamento sonoro, ma è significante e significato decisivo di questo film, così fondato anche sul potere dell’immaginazione uditiva. Come quando sogniamo, quando ricordiamo viviamo forme diverse di prossimità o estraneità dal nostro passato anche attraverso una memoria sonora. Attraverso gli occhi velati di Daniel, il film di Justin Triet ci mostra che il cinema è pure questo: un ragazzino cieco che potrebbe vedere più lontano di tutti.
È molto interessante, infine, anche la trama multilingue del film. Sandra, che è tedesca, parla con il marito e con il figlio in inglese, ma al processo deve parlare in francese, quando può, chiedendo però di aiutarsi anche con l’inglese. Ancora suoni diversi, lingue differenti che, lavorando sulla trama fonica del film, favoriscono il clima di estraneità, anche acustica, alzando muri, dubbi e incomprensioni intorno alle varie ipotesi giudiziarie. Al tempo stesso, questa situazione di polifonia spesso gridata e dissonante è anche un modo per rappresentare, senza definirla ma facendola agire (ragione per cui si consiglia la visione in lingua originale), l’intraducibilità letterale di una relazione sempre più diventata un rompicapo, un labirinto, per usare un’immagine cara al cinema di Justine Triet, una macchina della tortura incapace di andare avanti, come il romanzo di Samuel, ma anche come il disco che l’uomo mette aggressivamente in loop, all’inizio del film. Fino alla tragedia.