Danilo Kiš: sentire il male sulla pelle
Con una Gauloises sempre tra le dita, con un bicchiere di vino sempre nelle vicinanze, mentre flirtava con il gruppo di fan dalle quali era circondato, agli incontri letterari Danilo Kiš sembrava rappresentare il suo credo: “La scrittura è vanità. Una vanità che talvolta mi sembra meno inutile di altre forme di esistenza”. Ma il frammento Perché scrivo – in Homo Poeticus. Saggi e interviste (trad. di Dunja Badnjevič, Adelphi 2009) – che termina con: “Scrivo, dunque, perché sono insoddisfatto di me stesso e del mondo. Per esprimere quest’insoddisfazione. Per sopravvivere!” spiega la vibrazione artistica costante che trasmetteva ai suoi interlocutori ogni volta che si accendeva l’ennesima sigaretta.
Vita e letteratura, esperienza e poetica, i suoi temi ossessivi, sono contenuti nell’elaborazione del significato della biografia: “la storia unica e irripetibile di una persona unica e irripetibile in un unico e irripetibile tempo; (…) la biografia ideale, la più interessante potrebbe essere quella che contiene la biografia di tutti gli uomini di tutti i tempi” (in Homo Poeticus, p. 228). È questo l’ideale che lo scrittore perseguirà con un’opera dove ogni parola ha il suo destino, l’etico non può essere disgiunto dall’estetico, e l’unicità di ogni esperienza ha diritto all’unicità della sua forma. Perché solo così la vita distrutta, la vita calpestata, può essere riparata e ricordata.
Già nel suo testo giovanile Salmo 44 (trad. di Manuela Orazi, Adelphi, 2025), scritto in meno di un mese all’età di venticinque anni per un concorso dell’Associazione ebraica di Belgrado, adotta quello che sarà il suo metodo compositivo: partire da un documento, da un dato, in questo caso il reportage su una coppia che porta il figlio a visitare il lager dove, negli ultimi giorni di guerra, il bambino era nato.
Il testo uscirà, insieme al poema satirico La mansarda, nel 1962, in diverse occasioni lo scrittore lo criticherà: “la debolezza di quel libro giovanile non sta tuttavia nella vicenda in sé, troppo forte, troppo patetica, ma nella fatale mancanza di distacco ironico – l’elemento che più tardi diventerà parte integrante del mio procedimento letterario” (in Homo poeticus, p. 246).
La protagonista, Maria, insieme al figlio neonato e alla compagna di prigionia Jeanne, sta cercando di fuggire da Birkenau, mentre in lontananza si sentono i cannoni degli Alleati e si parla dell’evacuazione del campo. Accanto, sul pagliericcio, Polja, la compagna russa, delira in preda alla febbre malarica. “Suonava da tempo il violoncello nella Cappella Nera di fronte all’ingresso della camera a gas”, ma il motivo non era questo, non erano ancora venuti a prenderla perché l’avanzare alleato aveva fatto rimandare le esecuzioni. Non si sa che cosa sia la salvezza: morire al più presto come sta per accadere a Polja, riuscire a immaginare la libertà senza essere sopraffatti dall’angoscia dell’attesa. Sono momenti in cui Maria non pensa a nulla, se non alle tre donne “che qualche notte prima erano finite sul filo spinato ed erano morte crivellate fino a dimenticare tutto, perché la morte è questo, pensò, dimenticare tutto”.
La condizione della sezione femminile del campo di concentramento è ricostruita con la veridicità di ogni particolare e con una “sensibilità femminile” che, dice Kiš, aveva fatto pensare alla giuria che l’autore fosse una donna. Il terrore di Maria, quando il sangue delle mestruazioni le inonda le gambe, ricorda le pagine di Luciana Nissim Momigliano in Ricordi della casa dei morti e altri scritti (Giuntina, 2008) quando evoca il suo ribrezzo di ragazza, l’impazzimento quasi, di fronte all’impossibilità di qualsiasi forma di pulizia e di igiene nel lager.
Maria, sospesa tra sonno e veglia, racconta in uno stato febbricitante e allucinatorio: il suo è un flusso di coscienza interrotto da flashback, mentre Kiš trasfigura il trauma con pennellate di quel realismo magico che diventerà una delle caratteristiche della sua prosa più matura. Alla stazione Maria “vide una lunga fila di vagoni piombati dove volti spettrali facevano capolino da finestrelle con le grate e riconobbe quel lamento babelico che aveva sentito anche lei quando era stata trasportata in furgoni simili, quel lamento che si trasforma in un singhiozzo rauco e secco: in tutte le lingue d’Europa la parola acqua viene pronunciata come se incarnasse la vita stessa”. Il treno si trasforma in “un enorme antidiluviano Tyrannosaurus rex scacciato dal suo mondo acquatico sulla dura terraferma diversi millenni dopo la sua èra”, diventa un rettile che si contorce e si dimena sibilando, “trasformandosi in quell’Acqua! Acqua! da dinosauro stegocefalo babelico ed europeo”.
L’odore del corpo di Polja in decomposizione porta Maria all’inizio degli inizi: i cadaveri nella neve, la fila umana che scompariva nel Danubio. Quel vecchietto e quella vecchietta, “nudi Homo sapiens con il petto cadente per la vecchiaia e il gelo. Privi degli indumenti e dei gioielli che distinguono l’Homo sapiens dalle altre specie umane meno evolute”. Solo dopo, tornando a casa, aveva capito quello che aveva visto: “era stata fatta una buca nel ghiaccio e sulla buca avevano messo una tavola (un vecchio trampolino per i tuffi): di tanto in tanto un civile (il guardiano della spiaggia), quando la buca si otturava, con una grossa pertica spingeva i cadaveri sotto il ghiaccio”.
Lo stesso Danilo Kiš, allora un ragazzino di sette anni, non aveva capito che cosa stava capitando nel gennaio del 1942 a Novi Sad – il massacro da parte dei fascisti ungheresi di quasi duemila serbi ed ebrei. In fila con i condannati c’era anche suo padre, quella volta tornerà a casa. I “giorni freddi” sono la prova generale, storica e familiare, di quello che poi accadrà. In Salmo 44 Kiš ne dà una descrizione realistica, in Giardino, cenere (1965, trad. di Lionello Costantini, Adelphi, 1986) i “giorni freddi” ritornano nel ricordo notturno del bambino Andreas, in La clessidra, (1972, trad. di Lionello Costantini, Adelphi, 1989), dedicata alla sorte del padre Eduard Sam svanito nel 1944 ad Auschwitz, in una rappresentazione così particolareggiata da risultare quasi insostenibile.

Basato sulle testimonianze di alcuni parenti tornati dal lager, scrivendo il libro Kiš “voleva liberarsi di alcuni temi che lo opprimevano nell’intimo” e si manifestavano attraverso le “paure traumatiche” di cui soffriva. In Homo poeticus (pp. 244-245) racconta che fu una rivelazione scoprire che la diagnosi con la quale il padre era stato ricoverato nel 1934 in un ospedale psichiatrico vicino a Belgrado, non era delirium tremens, ma nevrosi da spavento. L’alcol era un modo per tenere a bada il terrore interiore, la nevrosi da spavento è stata a lungo considerata una malattia endemica dell’intelligencija ebraica mitteleuropea. La malattia è ereditaria, aggiunge, “in una percentuale che varia dal dieci al venti per cento dei casi, secondo altri anche dal settanta al novanta per cento”.
In Maria il passato “disseminato di ossa e tombe” riesce a “scavalcare il presente”, a “saltare nel cuore stesso del futuro”, a trasformare la paura: “non era la stessa paura che aveva provato costantemente fino ad allora, la paura degli eventi che si sviluppavano e la trascinavano, senza che lei avesse la minima parte in essi. È la paura, pensò, che provano gli uomini. (…) Lei la definiva paura attiva”.
Con Salmo 44 Kiš affronta la “resistenza latente che esiste nei confronti della tematica ebraica all’interno della realtà jugoslava”. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’eco della guerra era ancora percepibile, ma i morti legittimi erano plurali e politically correct. L’uso pubblico della memoria non prevedeva la possibilità di sottolineare le diversità nazionali e tanto meno la “differenza inquietante” dell’identità ebraica. E le idee di Kiš sono distanti dall’ideologia del realismo socialista: “Credo che la letteratura debba correggere la storia: la Storia è generalità mentre la letteratura è concretezza. La Storia è numero, la letteratura è individualità” (Homo poeticus, p.199).
Jeanne e Maria si interrogano sull’esistenza di Dio, in un luogo dove non c’è né il Dio degli ebrei né quello dei cristiani. Nel mondo del lager Dio è morto – a chi svolge il ruolo di Mengele viene dato il nome di dottor Nietzsche –, e si ha paura che un Dio, se esiste, possa assomigliare all’immagine dei carnefici. La preghiera del salmo 44 è un’invocazione a Dio che arriva da una comunità alla disfatta, che si sente “consegnata come pecore da macello”.
Kiš continuerà a occuparsi della “fenomenologia concentrazionaria", confidava agli amici il timore di questa sua esasperata sensibilità che gli faceva “sentire il male sulla pelle". Negli anni di incubazione di Una tomba per Boris Davidovič. Sette capitoli di una stessa storia, (1976, con due saggi di Iosif Brodskij, trad. di Ljilana Avirović, Adelphi, 2005), dirà del bisogno di parlare della ripetizione dell’Orrore nella sua versione comunista: il gulag. Le giustificazioni ideologiche, la necessità storica, la lotta di classe non possono essere invocate per aggirare il tema. “Per gli intellettuali di questo secolo, di questa nostra epoca, esiste solo un esame di coscienza, esistono solo due materie per le quali non si perde l'anno, ma si perde il diritto (morale) di parola una volta per tutte: il fascismo e lo stalinismo". E nei Consigli a un giovane scrittore: “Manda al diavolo cento volte chi dice che Kolyma era diversa da Auschwitz”. I Sette capitoli di una stessa storia sono una sintesi dei tanti rovesciamenti possibili tra vittime e carnefici, dominatori e oppressi, tra fede politica e fede religiosa, tra verità e menzogna. Una cavalcata che descrive nello spazio “un cerchio di gesso europeo (Bucovina-Polonia-Irlanda-Spagna-Francia-Ungheria-Russia) e, nel tempo, una verticale di sei secoli".
Il suo ultimo progetto, a cui lavora mentre si è ripresentata la malattia ai polmoni – morirà a Parigi il 15 ottobre 1989 –, è ancora legato al tema del lager e del gulag. Nel marzo di quell’anno Kiš si recherà in Israele con una piccola troupe per girare una serie televisiva le cui protagoniste sono Eva Nahir e Jenny Lebl, due donne ebree vissute in Jugoslavia. Entrambe sono state detenute nel campo di prigionia dell’Isola Nuda di Tito, Jenny era già stata deportata in Germania. Kiš ricopre il ruolo del narratore-investigatore che le incalza per conoscere, della loro esperienza, anche il più piccolo dettaglio (Danilo Kiš, Aleksandar Mandić, La vita nuda, trad. di Alice Parmeggiani, postfazione di Božidar Stanišić, Mimesis, 2021).
Nella prefazione all’edizione inglese di Salmo 44 (trad. di J. K. Cox, Dalkey Archive, 2012) Aleksandar Hemon, lo scrittore più vicino alla sensibilità di Kiš, scrive: “L’unico modo per ricordare ciò che deve essere ricordato è raccontare storie di vite che sono state cancellate dalla megalomaniacale insensibilità della storia. Sono storie che possono essere difficili da costruire e difficili da leggere, ma sono eticamente ed esteticamente necessarie. Senza di esse saremo dimenticati. Senza di esse noi siamo il nulla sulla nostra strada verso il nulla”.
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