Basquiat e l’inconscio della metropoli

4 Novembre 2024

A volte è un’appassionante detective story, a volte è un raffinato procedimento chimico che fa scoprire colori e pigmenti, a volte è un caso che rivela quanto fino a quel momento una cornice aveva taciuto: l’opera d’arte è un oggetto che possiamo studiare da prospettive diverse, ma è l’azzardo della psicoanalisi riuscire a comprendere le stratificazioni della mente dell’artista, le combinazioni creative tra le sue vicende biografiche e l’estetica delle sue immagini. È con l’intento di non ridurre freudianamente l’opera alle vicende esistenziali dell’artista e di non occuparsi, invece, solo degli effetti del suo lavoro che l’analista junghiana Eva Pattis Zoja e lo storico dell’arte contemporanea Antonio Rocca compongono, a quattro mani, Il furore del simbolo. Arte e psicologia di J.-M. Basquiat (Moretti&Vitali, 2024). 

Agitato, accelerato, imbottito di droga “Basquiat lavorava giorno e notte. ‘Non so fare altro’, disse una volta, come se non ci fosse molta distanza tra lui e la sua opera. Forse, con questa frase stava dicendo anche che non aveva una vera alternativa di vita: aveva solo questa, immersa in gran parte nell’inconscio. (…) Tutto il resto della sua energia psichica – l’intelligenza, la sensibilità e l’affettività – era impegnato nella sua esplorazione degli inferi”, scrive Eva Pattis Zoja,

Le pennellate di parole che interagiscono con le figure, le lettere cancellate, i segni e gli elenchi, i pittogrammi accompagnano il farsi di un’identità dove è il colore nero a fare da protagonista. “Questi quadri sono spesso più vivi di quanto possiamo sopportare. Come se la tela e i colori fossero fatti di carne e ossa, senza la necessità di ricorrere ad azioni di performance concretizzanti”, come se le sue “storie vere”, in cui i neri vengono rappresentati realisticamente, come persone appartenenti alla razza umana, e non come esseri alieni, oppure come ladri e spacciatori, avessero l’obiettivo di “scoperchiare elementi rimossi della società occidentale”.

Per cercare di contestualizzare la storia della sua breve vita – l’artista, nato nel 1960, muore di overdose prima di avere compiuto ventotto anni –, per comprendere i suoi graffiti e le sue figure antropomorfe, l’autrice lo mette in relazione con l’opera e la figura di Jung perché crede che avrebbe potuto svolgere un ruolo di sostegno, “avrebbe potuto offrire senso e visione prospettica alla lotta instancabile di questo ragazzo iper emotivo, che riempiva ossessivamente le sue tele con simboli vivi, senza volerli o poterli decifrare. Avrebbe testimoniato che il furore di questi simboli ha dato voce alle urla di popoli interi, che si sono spenti, e che si spengono ancora oggi, senza legge né giustizia”. In un capitolo prova a ipotizzare un incontro tra un Jean-Michel Basquiat ventenne e lo psichiatra svizzero che ha già scritto i saggi su Joyce e Picasso (1932) e La Psicologia Analitica nei suoi rapporti con l’arte poetica (1922).

L’idea junghiana che l’immagine emersa in un’opera d’arte non deriva da un’ispirazione solamente singolare, ma si collega a un’immagine primordiale dell’inconscio collettivo – in Tipi psicologici (1921) la definizione della parola archetipo rimanda a immagine – è, secondo l’autrice, ben rappresentata dalla complessità della figura di Basquiat che fondeva nel suo processo artistico la dimensione politica e la consapevolezza storica del suo “essere di colore”. In questa lettura l’uso di droghe potrebbe essere stato un aiuto per sopportare la potenza delle visioni dalle quali era sommerso. Si sentiva non solo in corsa contro il tempo, ma incalzato da una ricerca ossessiva dedita a narrare le origini delle tracce coloniali del nostro mondo. La sua lotta al razzismo e il suo impegno sociale – distribuire soldi ai mendicanti per strada –, che poteva apparire un’azione semplicistica, si ampliava in modi raffinati nella sua pittura. “L’analisi di Basquiat comprende storia, psicologia, religione e sciamanesimo. È sofisticata e profetica a tal punto che la critica d’arte fatica a orientarsi nei suoi molteplici strati: man mano che il terzo millennio procede, i suoi riferimenti culturali si fanno più chiari”.

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L’artista connette passato e presente, “osservandolo dipingere sembrava che brandisse il pennello come un’arma” diceva Keith Haring; si ha sempre l’impressione che il suo storytelling sprizzi violenza e che i suoi personaggi siano vittime: con le braccia protese verso l’alto, chiedono aiuto. “In molte rappresentazioni umane di Basquiat, ossa e viscere sono esposte con una tale assenza di contesto o protezione che ci sentiamo come dei voyeur”. Come capita spesso agli artisti outsider alcuni suoi dipinti sono stati paragonati agli scarabocchi di un bambino.

Ma, si chiede Eva Pattis Zoja, “questa sofferenza fotografata da dentro e rovesciata all’esterno, è in qualche modo legata al vertiginoso valore economico che le è stato conferito sul mercato?”. Quotazioni che quasi nessuno riesce a sborsare, più di cento milioni di dollari per una “testa” di Basquiat sono un modo per “pagare” il passato coloniale, cercare di assolverci da un debito della nostra civiltà? Sono gli aspetti rituali della pittura di un nero cresciuto con i bianchi che vive conflitti culturali e psichici – “non sono mai stato in Africa ma ne ho una memoria culturale” – a esprimere il miscuglio di colpa e redenzione, con figure di angeli e diavoli, immagini metasimboliche che ricordano i tempi della schiavitù, la costruzione di un’identità collettiva fatta di bocche e voci presenti e assenti, piedi che evocano l’incatenamento. 

I contrasti erano presenti già in famiglia dove “succedono un sacco di brutte cose”. Il padre, un funzionario pubblico di livello medio-alto, proveniva da Haiti, da una cultura coloniale francese, la madre era legata alla cultura coloniale spagnola di Puerto Rico. Disegnava sul pavimento insieme al figlio, lo portava a visitare i musei newyorkesi, la lingua spagnola li univa. Dopo la separazione dal marito, la donna è ricoverata in un reparto psichiatrico dove si dedica per ore all’imitazione del canto degli uccelli. Lo sguardo etnopsichiatrico, afferma Eva Pattis Zoja, può ora dare significato al suo sintomo: ancora oggi Puerto Rico è l’habitat di trecentoquarantanove specie di uccelli che popolano la foresta fluviale.

Nelle pagine di Antonio Rocca troviamo le atmosfere del cambiamento epocale di una New York instabile e creativa dove l’arte di Basquiat diventa una sorta di metronomo visivo. In Indovina chi viene a cena? (1967) un bacio misto non è ancora possibile, Sidney Poitier è il volto che i bianchi possono accettare. “Il piccolo Jean Michel era bombardato da informazioni che raccoglieva ovunque, dai manifesti e dalle scritte sui muri, dalla radio e dalla tv, da fumetti e da riviste”, ma i suoi testi preferiti erano degli anni Cinquanta: La scimmia sulla schiena (1953) di William Burroughs e I sotterranei (1958) di Jack Kerouac, i ritmi che amava erano quelli di Charlie Parker, la sua leggenda poteva essere avvicinata ai destini degli sportivi, i primi afroamericani a diventare famosi che “avrebbero tutti trovato spazio nei suoi quadri”.  

Tra strada e museo, tra l’eredità dell’Art Brut, di Pollock e Picasso, all’amore odio per la Pop art e per la persona di Andy Warhol, tra guadagni stratosferici e gli alti e bassi di un incredibile successo internazionale “Jean-Michel esibiva la dipendenza come fosse un trofeo o un legame con il mondo della strada. Era il suo modo per testimoniare la propria autenticità esistenziale, il suo rimanere intimamente connesso al rischio e alla sorgente di senso, che costantemente scaturisce dagli angoli della metropoli”.

Negli ultimi anni la sua è la cronaca di una morte annunciata, culminata nell’opera capolavoro Riding with Death (1988). Mentre dipingeva aveva davanti a sé un libro con le riproduzioni di Leonardo da Vinci, ma quello che emerge è il Perturbante: “Nella grande tela, scrive Antonio Rocca, la morte è ovunque: nello scheletro del cavallo e nelle vacuità del cavaliere, oltre a essere il bordo del quadro verso cui inevitabilmente si dirige la coppia. La morte è nello sfondo immenso su cui galleggia quel che rimane della figura, tutto il resto è già stato inghiottito dal nulla”.

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