Aleksandar Tišma: la letteratura e il male
La letteratura, afferma Georges Bataille, ha bisogno del male. È l’angoscia che dà tensione al plot, imprime quello spasmo capace di non renderla noiosa, soprattutto aiuta ad affrontare il peggio. E non si è uomini senza saper affrontare il peggio. Perché nel momento in cui il racconto cerca di mostrare l’individuo nella sua interezza, dice anche della violenza della specie. Sulla pagina la sofferenza fisica è irrappresentabile, ma non è inaccessibile al racconto, come testimonia l’opera di Primo Levi.
E sono ormai quasi un genere i testi che, in forma letteraria, cercano di entrare nella mente del cattivo, da Truman Capote di A sangue freddo a L’avversario di Emmanuel Carrère. Per descrivere gli effetti del potere che ha l’essere umano, come dice Simone Weil, di trasformare un uomo in cadavere.
Una letteratura nutrita dal male, dove la violenza è un basso continuo, dove rovesciamenti storicamente ripetuti tra carnefici e vittime intersecano le grandi vicende collettive e segnano le biografie dei singoli è quella degli slavi del sud. Braccati dalla Storia, cercano scampo nelle pagine della letteratura, lì provano a dare una forma mentis all’Orrore. Che ieri ha nutrito le pagine dei grandi classici, oggi i racconti brevi e brevissimi dell'ultima guerra balcanica.
Passato e presente dispongono della letteratura come di un luogo privilegiato, dove, in una sospensione spazio-temporale, è possibile descrivere il gusto di uccidere e depositare ed elaborare la vergogna del sopravvissuto. Andrić, Krleža, Crnjanski, Tišma, Kiš sono ancora i modelli letterari per chi continua a interrogarsi sugli “eccessi di violenza”, quando è una minuzia a decidere della vita o della morte, quando la morte del vicino significa la propria salvezza, quando i molti tacciono e i pochi reagiscono.
È Aleksandar Tišma (1924-2003) a “specializzarsi” in racconti impregnati di violenza e senso di colpa, tradimenti e sospetti, rastrellamenti e vendette. Nasce a Horgoš, al confine tra l'Ungheria e la regione serba della Vojvodina – “Senza una frontiera io non sarei mai nato”. Sua madre era un’ebrea ungherese, suo padre un serbo del confine militare, zona cuscinetto asburgica a protezione dalle incursioni dell’impero ottomano. Vent’anni dopo Horgoš fu invasa e nacque una nuova frontiera che passava per il Danubio – e Tišma ci nuotava sopra. Da giovane non ha passaporto: gli viene concesso solo nel 1957, con il regime comunista non avrà mai un rapporto facile. Nel frattempo la frontiera si era ancora spostata, era tornata di nuovo a Horgoš.
Autore di romanzi, racconti, poesie e di molte traduzioni (dall'ungherese e dal tedesco), redattore di case editrici e di riviste, Tišma ha sempre vissuto a Novi Sad, dove ha ambientato quasi tutte le pagine della sua opera. Durante la sua giovinezza la città era un insieme di desideri contrastanti formato da una popolazione mista – serbi, ungheresi, tedeschi, slovacchi, rumeni, ruteni, ebrei, armeni. È il suo essere meticcio che gli impedisce di sentirsi parte – senza riserve e senza sospetti – di una comunità, dice nell’intervista del 24/1/2000, Ero in quei giorni a Novi Sad (contenuta in Danilo Kiš, Aleksandar Tišma, Novi Sad, i giorni freddi, ADV, 2012).
Lo scrittore ripercorre con la memoria le mutazioni urbanistiche e architettoniche della città, vuole testimoniare i destini degli esseri umani che, strappati dalle loro case e dalle loro strade, erano stati uccisi perché diversi dai vincitori di quel momento. Nascono così Il libro di Blam (1972), L’uso dell’uomo (1976), Scuola di empietà (1978). Il pessimismo storico di Tišma, testimoniato da una scrittura realistico-naturalistica che non perdona il dettaglio e ricorda l’economia della frase di Andrić, non lascia scampo: è questo l’inventario del “giardino non zoologico, ma antropologico”.
“Ero in quei giorni a Novi Sad. Durante la razzia del gennaio 1942 tenevo, insieme a mio padre e a mia madre, le mani in alto davanti a una pattuglia di soldati ungheresi che ci urlavano in faccia che nascondevamo dei fucili in casa. Era il tempo della guerra, il tempo dell’assurdo, dell’odio, della manipolazione, del patriottismo e dell’inimicizia” racconta Tišma (sempre nell’intervista del 24/1/2000).
Durante i rastrellamenti dei “giorni freddi” – il termometro segnava meno 27 –, uno degli episodi più terribili accaduti durante la seconda guerra mondiale nei territori jugoslavi controllati dalle potenze dell’Asse, quasi duemila persone vengono ammazzate e gettate nel Danubio gelato. In fila con i condannati c’è anche il padre di Danilo Kiš. Il ragazzino di sette anni osserva senza capire, i “giorni freddi” sono la prova generale, storica e familiare, di quello che poi accadrà.
Il Libro di Blam (trad. it. di I.O.Venier, Feltrinelli, 2000), considerato il capolavoro di Tišma, è ambientato a Novi Sad nell’immediato secondo dopoguerra. Per il protagonista, Miroslav Blam, l’attività pubblica e la quotidianità con la moglie e la figlia sono poco più di un camuffamento, sono atti di un’esistenza meccanica che funziona da copertura: dei sogni e delle visioni, degli incubi e dei ricordi del mondo parallelo in cui è immerso. Perché è a una “imitazione della vita” che Blam si è votato da quando, ebreo, è riuscito a sfuggire all’Operazione dello Sterminio che ha trascinato con sé parenti e amici, vicini e compagni di scuola, cancellato il mondo delle botteghe e dei commercianti della Via degli ebrei sostituiti ora dal Nuovo Boulevard dove “Il progresso è in marcia verso l’impersonalità”.
Il racconto di vite che la Grande Storia conduce inesorabilmente a una fine violenta, si svolge come la stesura di un’anamnesi che procede accumulando dati cronologici e bizze del caso, ripercorrendo crimini e tradimenti, eroismi e atti di vigliaccheria. Blam sa di essere perseguitato, eppure in lui prevale un angoscioso torpore. Ma, gioco del caso, è uno dei pochi che si salva, anche perché sposato a una cristiana. Evitare la morte ha consumato tutta la sua forza vitale, Blam spia dappertutto i segnali di un pericolo imminente, fantastica di gettarsi nel vuoto: non basta rendersi invisibile, bisogna sparire.
Del piccolo mondo di Novi Sad lo scrittore, in un’alternanza di eros e thanatos, descrive gli aromi e i sapori della sessualità, la potenza della libido che guida l’attrazione dei corpi: un fenomeno generale, non legato a nessun luogo particolare. Questo dice come mai, e diversamente dalla maggior parte degli autori della sua generazione, Tišma dedica molto spazio alle figure femminili. Sempre piena di forza è Janja, la moglie di Blam, che fin da subito lo ha tradito e che di lui sa poco o nulla. Estranea e inaccessibile, Janja non ha bisogno di riflessioni e ripensamenti, non soffre i tormenti e i dilemmi dell’etica, le sue giornate hanno l’urgenza dell’élan vital. Nel suo rapporto con Janja, Blam non è troppo lontano da quei personaggi di Simenon che, mente e sensi intorpiditi, trascorrono le giornate prigionieri di un’indolenza incantata. Janja lo aveva travolto, solo per una volta, quando anche lui si era sentito forte, perché aveva creduto di poter morire senza paura insieme agli altri. In branco.
L’ultima volta che ho incontrato Aleksandar Tišma, al Salone del libro di Torino nel maggio del 1992, mi aveva detto: “A fine marzo ho visto per l’ultima volta Sarajevo. In casa di uno scrittore c’era una tavola rotonda che definirei mista: i cognomi rivelavano le tante nazionalità. Uscendo mi sono accorto che uno dei partecipanti aveva un fucile infilato sotto l’abito. Mi è sembrato un fatto incredibile. Ora quella casa non c’è più e nemmeno il tavolo.
Questi massacri, la gente uccisa nei vicoli e per le strade, cecchini che colpiscono quello che si muove. Tutti ci chiedono: come è possibile? Anche noi ce lo chiediamo. È vero, la letteratura, forse, può aiutare a capire. Per me, però, quanto è avvenuto durante la seconda guerra mondiale è meno incomprensibile, c’erano degli eserciti, forti meccanismi coercitivi. Questa volta la gente si tuffa nell’orrore, vuole uccidere. C’è un desiderio di scontri morbosi, di vendette. Un godimento biologico nell’uccidere. Mi ricorda il piacere del cacciatore, una conferma del mio pessimismo storico. È una paura che si tramanda nel tempo: è la multinazionalità dei Balcani. Abbiamo una tradizione di vita tollerante e in comune, ma anche la tradizione dell’ucciderci”.
Anche Tišma, come Andrić e Kiš, in bilico tra paura e fermezza, sospeso tra l’homo poeticus e l’homo balcanicus, ha affrontato con l’icasticità del dettaglio la condensazione di vite immaginarie descritte “in modo del tutto obiettivo e imparziale” e perciò capaci di rappresentare la storia universale.
Lunedì 18 novembre alle ore 16.00, presso la Sala B di Ca' Bernardo, all'interno del ciclo Writers in conversation, si terrà un incontro con la scrittrice Helena Janeczek, che converserà con Stefano Petrungaro, docente presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, a partire dal romanzo L’uso dell’uomo di Aleksandar Tišma.