L’arte drammatica: ieri, oggi e domani

6 Gennaio 2023

Milano, giugno 1968. Per i giovani allievi attori erano i giorni del diploma conferito dalla “Scuola d’arte drammatica Piccolo Teatro di Milano”. L’attestato da appendere in casa della mamma era firmato dal sindaco Aldo Aniasi (la scuola era appena diventata civica), dal direttore del teatro Paolo Grassi e dal direttore della scuola Luigi Ferrante. La dizione “arte drammatica”, consonante con l’Accademia Silvio D’Amico di Roma, superava la vecchia idea di scuola di ‘recitazione’ (anche se ancora ci si formava soltanto come attori), ma nel giro di qualche anno sarebbe stata sostituita da ‘teatro’ (passando da biennale a triennale e offrendo corsi per registi, animatori e operatori a vario titolo).

A quel tempo, quando si parlava di teatro s’intendeva il teatro di prosa, quello in cui i testi venivamo messi in scena da registi che sceglievano di volta in volta i propri attori, gli interpreti. Ciò valeva per il Piccolo Teatro come per l’avanguardistico Living Theatre, entrambi fondati alla fine degli anni Quaranta. E la scuola ti preparava a questo, a essere un interprete volonteroso e collaborativo del testo drammaturgico (del “Poeta” si diceva allora) nella visione del Regista. Oggi la gran parte del teatro in tutto il mondo è ancora quella cosa, ma la parola teatro evoca un lungo elenco di generi oltre che di mestieri e la polisemia del termine si è rivelata talmente insufficiente da richiedere l’adozione estensiva del termine “performance”.

Il lessico dello spettacolo è tuttavia lontano da un assestamento basato sull’accordo del significato da attribuire alle parole. Basti pensare alla figura del Performer evocata da Jerzy Grotowski nel suo famoso seminario del 1987 e alle molteplici definizioni del termine che ogni giorno si possono trovare persino in una stessa pubblicazione.

La nozione di teatro di prosa non era però monolitica. Uno degli insegnanti più illuminati della Scuola del Piccolo, il musicologo Luigi Pestalozza, da sempre in attrito con Paolo Grassi e i dirigenti politici dei teatri stabili, lui comunista loro socialisti o democristiani, spiegava con cura e passione che la situazione era in realtà più complessa e interessante, ovvero che (nella musica) l’interprete è un altro autore, l’autore nel qui e ora di una esecuzione (performance) che mai dice l’ultima parola sul senso dell’opera originaria e, tra le altre cose, racconta la ‘storia’ dell’esecutore stesso. Quella era in effetti la radice di un’altra nozione di teatro, un messaggio semplice ma difficile da intendere immediatamente, un contrappunto critico ai modelli teatrali dominanti e proiettato nell’immaginazione di un teatro nuovo che in tutto il mondo cominciava a manifestarsi come avanguardia minoritaria ancorché con l’ambizione di essere maggiormente rappresentativo del mondo presente.

Un tema che invece vale la pena di riprendere oggi è proprio quello dell’arte drammatica, ovvero del suo destino nel nuovo panorama di generi e istanze linguistiche che oggi affollano i vasti campi denominati teatro e performance. Non si tratta di rifiutare le novità, ma di chiedersi se non sia il caso di reagire alla sempre più diffusa dimenticanza di cosa l’arte drammatica sia, naturalmente osservando il fenomeno nelle sue effettive declinazioni storiche. 

Secondo Aristotele, l’arte drammatica doveva essere posta al centro di un grandioso progetto di formazione dei cittadini e dunque era considerata una questione universale prima che riguardante i professionisti della scena. All’arte drammatica intesa come rappresentazione di due o più azioni in conflitto, punctum contra punctum, rappresentazione eseguita utilizzando la parola, il canto e la danza insieme, si sarebbe giunti con un lavoro continuativo a partire dall’infanzia, dapprima con il canto e la danza, attività intuitive e dunque alla portata dei più piccoli, e via via praticando varie ‘arti minori’ come l’osservazione (che implica l’ascolto e l’attenzione), l’imitazione e l’improvvisazione, per poi procedere alla composizione di unità espressive e al loro montaggio in un’opera scenica il cui senso (catarsi) si definiva nel confronto con la città e nella mente di ogni spettatore. Su ognuno di questi passaggi ci sarebbe molto da dire, ovviamente, ad esempio per distinguere tra addestramento e allenamento e tra incorporazione e incarnazione, ovvero sull’accento posto nel primo caso sull’imparare a fare automaticamente e nel secondo sulla creatività individuale, senza dimenticare il rapporto imprescindibile e costante tra i due processi. Basti qui ricordare due cose essenziali: in generale, che ognuno dovrebbe far crescere questi semi nel proprio campo, nel quadro di una formazione che nell’età adulta sboccerà in una specializzazione, eventualmente anche teatrale o artistica. Gli attori sociali e gli attori così formati si esprimono nei rispettivi ambiti con la parola, la voce e l’intero corpo in modo spontaneo e consapevole e sono giustamente chiamati “poeti” (poietés): la loro opera è una “musica” (mousiké). Ricordiamo che Carmelo Bene, pur considerandosi ed essendo un’eccezione, invocava la regola generale secondo cui un attore è un poeta oppure non è un attore.

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Otello, al centro della pista, è in attesa dell’ordine di esibirsi nella sua storia di femminicida. © Vasco Dell’Oro.

La pacatezza di queste affermazioni è soltanto apparente, anzitutto perché sono lontanissime dai paradigmi culturali prevalenti e per dare loro seguito bisognerebbe realizzare un rivolgimento dei processi educativi e di quelli propriamente teatrali. Per quanto riguarda i primi, basti pensare a come è stato letto fino a oggi quel testo capitale dell’estetica occidentale che è la cosiddetta Poetica di Aristotele, malinteso fin dal titolo che dovrebbe essere in effetti Arte drammatica, come ha documentato Gregory Scott. Nella rilettura attenta e ‘liberata’ di Aristotele la definizione di arte drammatica coincide con quella di poesia, poesia performata nella quale la parola è l’ombra della voce e l’eco del gesto; poesia la cui definizione dobbiamo, nella fallocratica Grecia di Socrate, a una donna, Diotima, poco importa se immaginata o realmente esistente, comunque consistente come figura e principio: donna che non scrive ma fa poesia. Nel passaggio da Diotima ad Aristotele (il filosofo che scrive quando quell’utopia era già tramontata) la poesia si fa dramma, opera collettiva (“sinfonia” nelle parole di Carlo Sini: “Letteralmente, l’arte dinamica compie ‘incantamenti’ e da questo incantesimo della musica nasce la sinfonia – altra paroletta straordinaria, nel suo senso originario –, cioè l’accordo di ognuno con sé stesso, con gli altri, con la città”). 

La formazione cui si è fatto riferimento consiste, in definitiva, nell’imparare a fingere, un fingere nettamente distinto dal simulare e dal ‘recitare’, perché fingere, cioè fare (di sé) figure è ciò che fa ogni cittadino del mondo. Naturalmente si può fingere in diversi modi: in modo passivo quando gli stimoli sono incorporati e ci guidano senza che ce ne rendiamo conto, e in modo attivo, da autori, quando la formazione dipende da sapori provati consapevolmente e, dopo avere espulso il residuo inerte, diventati nostra carne e sangue. È questo il processo formativo che consente all’adulto di diventare al tempo stesso carro, cavallo e guidatore. L’incarnazione (il corpo-mente ‘preparato’) consente a ciascuno di fare ad arte ciò che è in grado di fare. Ecco perché la “formazione teatrale”, poetico-musicale, dovrebbe precedere e accompagnare tutti gli imprescindibili specialismi, anche il teatro.

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La vicenda di Otello, Desdemona e compagni attraversa un oceano di musica. © Vasco Dell’Oro.

Resta da chiedersi se la proposta ricavata da una interpretazione attualizzante delle nostre matrici culturali trovi qualche significativo riscontro nell’attuale contesto culturale. Ovvero: senza nulla togliere alle straordinarie novità ideologiche e tecnologiche continuamente sopravvenienti, sempre suscettibili di impiego nell’arte drammatica, sarebbe giusto dedicarsi al restauro dell’antica declinazione del teatro e alla sua attualizzazione. La questione non può essere affrontata in modo sentimentale o consistere, come spesso accade, nell’opporre anacronisticamente il vivente alla riproduzione, il vero al finto e via dicendo.

Ancora una volta è la filosofia a consentire il riposizionamento della questione nel contemporaneo. Con il concetto di “corpo teatro” proposto da Jean-Luc Nancy – “Non bisognerebbe dire pertanto che il culto precede il teatro e lo genera, bensì che il corpo teatro precede tutti i culti e tutte le scene. La teatralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione” – e fondamentale in tutto il pensiero di Carlo Sini disponiamo di un nuovo possibile punto di partenza. Però a noi spetta di tracciare la nuova strada del pensiero e della pratica, ovvero considerare che il corpo teatro di cui tutti siamo dotati dalla nascita diventa tale nella misura in cui viene attivato, educato e diventa infine creativo nel quadro di un determinato sistema di regole. Insomma è un potenziale che si può esprimere in una gamma vastissima di forme e specialità, come ci dimostrano le culture del mondo. 

Il primo Homo actor praticava tutte insieme le varie arti dinamiche, parlava danzava e cantava; così produceva conoscenza, ossia era in cammino nella differenza tra ciò che sapeva e ciò che non sapeva, cammino che è al tempo stesso individuale e collettivo.

È evidente a tutti come una educazione al complesso delle arti dinamiche sia scomparsa dal nostro orizzonte culturale e il riproporla suoni per molti versi come una provocazione, sia nei confronti delle istituzioni educative esistenti, sia a fronte dell’evoluzione dei linguaggi specialistici e artistici, apparendo come un anacronistico appello di ritorno all’ordine antico, appesantito oltretutto dall’equivoco che questo ‘antico’ sia il teatro di prosa borghese. Dall’equivoco si esce soltanto con una definizione aggiornata di arte drammatica e con l’impegno, per cominciare, a distinguerla dalle altre modalità artistiche, vale a dire intraprendendo un impegnativo percorso di studio, sperimentazione e confronto.

L’altro luogo comune secondo il quale il teatro è il suo doppio, cioè la vita, si presta a legittimare molti equivoci, ad esempio a validare l’equazione semplice in base alla quale lo si riduce a un catalogo delle smorfie visive e vocali che costituiscono la ‘popolarità’ della comunicazione e dello spettacolo. Jerzy Grotowski definiva “istrionismo” tale entropia della recitazione che in effetti è l’asse portante di quella demagogia ideocratica e dell’aridità ideografica il cui specchio, in tutto il mondo, sono i più vieti programmi d’intrattenimento televisivo. Tra i due estremi del degrado espressivo a fini ‘commerciali’ e quello delle avanguardie che prescindono dall’arte drammatica, la pratica del teatro sembra ridursi a consistere oggi in una mediana secondo la quale l’arte scenica diventa il luogo in cui si illustrano idee, con la più o meno innocente intenzione di inculcare nei propri spettatori quelle giuste.

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Desdemona prigioniera dell’amore altrui... © Vasco Dell’Oro.

Carlo Sini suggerisce sempre che non si può pretendere di concludere i discorsi e si deve invece sempre ricominciare a declinare l’universo nelle circostanze date. Giustissimo, però quali sono le nostre circostanze date? L’anagrafe, certo, ma anche l’oggi della storia, e pensare al “corpo teatro” o all’arte drammatica oggi significa tenere presente tutto il Novecento e il lascito di figure capitali come la progenie che va da Stanislavskij e Mejerchol’d a Grotowski, Brook, Kantor, Bene e oltre: un Novecento che costituisce un solido riferimento per distinguere l’arte drammatica dal resto del teatro e della performance, una eredità di esempi, non di modelli, una storia durante la quale i cambiamenti linguistici e tecnologici hanno nutrito l’arte drammatica anziché soffocarla, una storia che consente di immaginare come sia possibile definire nuove peculiarità di questa arte scenica la cui decadenza dipende soltanto dall’ignoranza e dal pigro adattamento alle modalità conoscitive e linguistiche sviluppate dalle società affluenti per altri scopi.

Dunque è sbagliato pensare che l’arte drammatica appartenga al passato o non esista più. La questione è soltanto non percepita come si dovrebbe, tanto dal pubblico quanto dagli addetti ai lavori. La mancata consapevolezza circa la qualità, il senso e la funzione delle varie specie spettacolari tende ad annullare la percezione delle differenze e a disattivare tanto il piacere quanto il portato di conoscenza propri di un’arte drammatica ‘musicale’, vale a dire fatta di parola, canto e danza, di azioni in contra punctum, di poesia dei corpi-mente in azione e in relazione tra loro, frequentazione divertita del vuoto che è il cuore e l’intorno delle cose.

Per fare un esempio molto significativo possiamo pensare a Otello Circus del Teatro La Ribalta, una creazione teatrale che fa un giudizioso passo indietro per ritrovare i fondamenti dell’arte drammatica e diversi passi avanti, per arrivare, dopo un attraversamento autobiografico delle opere di Shakespeare e di Verdi e dopo il trascendimento dell’arte circense, a una musica per tutti i sensi degli spettatori, a una scena che conduce su montagne russe di paura e gioia, di risate e pianto, un evento scenico accessibile a tutti e capace di mettere in moto un pensiero vertiginoso (leggi anche la recensione di doppiozero, qui). Come un sogno di Mejerchol’d, dove gli straordinari interpreti non sono i fattorini delle idee di qualcun altro ma le onde di un pensiero in movimento sulle passioni che travolgono i corpi degli umani, che assumono e distruggono forme e comprensione, che ci riportano al gioco della vita, alla scia di dolore che sempre si crea nella ricerca della propria felicità, interpreti che non cadono nell’equivoco di spiare la vita degli altri e giudicarla (personaggi) ma sperimentano forme di vita, non si immedesimano ma identificano, entronauti che evocano anche la dimensione squisitamente politica e irrisolta della cittadinanza.

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e infine vittima di fantasmi innocenti. © Vasco Dell’Oro.

Non vale obiettare che questo è un esito artistico straordinario, come se ne vedono pochi in una vita, perché la sua eccezionalità nasce da una applicazione attualizzata di antiche regole. Potrebbe essere anche un risultato ottenuto per così dire occasionalmente o inconsapevolmente, ma di certo scaturisce da un lungo e rigoroso lavoro del quale il teatro ‘normale’ ha perso la nozione: un lavoro ricco di tempo, di pensiero e di laboratorio, povero soltanto in confronto alle fortune sperperate dalle grandi istituzioni per i pensierini dei registi. E gli interpreti sono molto più bravi di molti valenti attori a tutti noti, per lo più schiavi del realismo nozionistico. I nostri sono attrici e attori che manovrano sorprendenti corpi-maschera, inventori di astrazioni gestuali e vocali che sono geroglifici musicali, che aprono porte su abissi della percezione, corpi che sono orchestre di suoni e rumori, ‘recitatori’ di poche parole libere dalla ideografia e per questo risonanti, attori capaci di stranianti ripetizioni, di melodie afasiche e di scegliere poche parole che destrutturano la poesia degli originali (shakespeariano e verdiano, in questo caso) e la rilanciano, interpreti oltreumani classificati nel nostro vile linguaggio burocratico come portatori di ‘diversità’ e ‘marginalità’, capaci di trasformare la loro unicità, senz’altro anche amara, in esperienza conoscitiva, vale a dire in quella ‘felicità’ (termine su cui varrebbe la pena soffermarsi) che già Aristotele considerava l’obiettivo del teatro.

I miracoli creativi qui sono più di mille (oltre agli interpreti, la scenografia, i costumi, i dispositivi e le soluzioni sceniche...), raccolti in una composizione talmente organica da sembrare semplicemente giusta, per questo emozionante e insieme propulsiva del pensiero di tutti i convenuti. È una trasformazione delle persone e delle cose che scaturisce da un lungo lavoro di allenamento e prove. Il tutto è realizzato con risorse irrisorie rispetto a quelle dei grandi teatri, irrisorie ma comunque consistenti (per via della particolare legislazione della provincia autonoma di Bolzano) e poi amministrate con sapienza dalla compagnia.

Una recensione, un’esegesi di uno spettacolo con questa genesi è impossibile, ci vorrebbe un libro scritto da cento poeti, non lo schematismo ‘culturale’ dei critici specializzati. Qui siamo al di là di ogni teleologia culturalista, anzi in una prospettiva deculturalizzante, una delegittimazione dell’ordine logico esistente e una ripartenza da una dimensione esistenziale individuale che diventa universale. La libertà dalla cultura che cercava Jerzy Grotowski è qui riconquistata dall’ensemble sapientemente guidato da Antonio Viganò e Paola Guerra, un uomo e una donna, e da una compagnia di tanti “diversi” che realizzano un unicum travolgente. Niente a che vedere con gli schematismi ideologici e la legnosità fisica del professionismo teatrale. In questo lavoro è incarnata, tra l’altro, l’istanza universale del femminismo, l’evento politico più significativo del Novecento. Era questa intuizione sull’arte e il teatro a far volare il pensiero di Carla Lonzi (in un omaggio a quell’Hegel sul quale aveva innanzi giustamente sputato): “L’affinità che troviamo con gli artisti sta nella coincidenza immediata tra il fare e il senso del fare, senza l’angoscia che tutti gli altri hanno di appellarsi a una garanzia della cultura”, laddove l’appello anticulturale va inteso nel senso di un superamento della bellezza come edulcorazione, da una parte, e dell’inesorabile smarrimento nichilista dall’altra, per trarre in salvo dall’osceno, con umorismo e divertimento, la potenza della vita e la vacuità nella quale consiste. Da notare che l’ultimo incompiuto progetto di lavoro di Carla Lonzi riguardava alcuni testi di Molière, in particolare Les précieuses riducules.

Otello Circus ha ricevuto il Premio Ubu 2018, il più bramato dai naufraghi (italiani) dell’arte drammatica. Ecco – si potrebbe pensare – almeno gli addetti ai lavori più navigati hanno compreso cosa qui c’è in gioco! E invece no, il premio è stato conferito per “la qualità della ricerca artistica, creativa e politica in ambiti spesso marginali e con attenzione capillare alla diversità”. Una pacca sulla spalla ai bravi ragazzi che si danno da fare restando lontani dal cuore della professione teatrale. Tutto ciò deriva da un malinteso di fondo, ovvero dal considerare questo Otello il frutto di un teatro anomalo in quanto votato alla missione della ‘inclusione’ culturale dei ‘disabili’. Insomma è stato premiato come eccezione, non perché nel rispetto del dettato aristotelico e con un’accorta innovazione è uno degli spettacoli più sfolgoranti degli ultimi decenni, senza riconoscere che il sapiente lavoro condotto da Viganò e Guerra non si limita alla inclusione culturale di questi artisti anomali nel nostro mondo bensì, come sempre fa l’arte drammatica, include noi nel loro mondo, mettendoci in contatto, in questo caso, con il genio del loro disagiato vivere, con l’illuminante e nuovo significato che questa piccola comunità in cammino conferisce ai corpi e alle parole.

Dunque l’arte drammatica è viva. La differenza decisiva è tra saperlo e non saperlo. E nell’agire di conseguenza.

Titoli citati

Jerzy Grotowski, Il Performer, in Opere e sentieri, II. Jerzy Grotowski. Testi 1968-1998, a cura di A. Attisani, M. Biagini, Bulzoni, 2007, pp. 84-86.
Pierluigi Donini in Aristotele, Poetica, a cura di P. Donini, Einaudi, 2008, p. CX.
Gregory L. Scott, Lo Ione di Platone, Tinnico, Halliwell e poiēsis da intendersi come “musica” e versi secondo Diotima, «Culture Teatrali», 31 (2022), in corso di stampa.
Carlo Sini, La tenda – Teatro e conoscenza, Jaca Book, 2021, p. 87.
Jean-Luc Nancy, Corpo teatro, Cronopio, 2010, p. 36.
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, post. di M. L. Boccia, et al., 2010, p. 41.

Nell’ultima fotografia si vede come nell’ex refettorio dell’Ospedale psichiatrico Paolo Pini i morti si risvegliano e salutano un pubblico commosso e grato. © Vasco Dell’Oro.

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