La testa a rovescio di René Daumal
Tra il conoscere e il vivere, si sa, vi è in mezzo l'oceano. In un aforisma celebre, Kafka dice che la nostra colpa non deriva dall'aver mangiato dall'albero della conoscenza, bensì dal non aver mangiato anche da quello della vita. E i ripetuti tentativi di ridurre la distanza tra il conoscere e il vivere si sono trasformati, quasi sempre, in forme di ingabbiamento della vita da parte della conoscenza. È possibile, per noi, risolvere questa aporia? Che significherebbe, poi, risolverla? È ciò che ha provato a fare un ristretto gruppo di ventenni, in Francia, quasi un secolo fa, riducendo tale distanza a partire dal fuoco su un solo atto, capace di consumare in sé tutto il resto: il pensiero, l'atto di pensare. Il primo numero della rivista Le Grand Jeu, nel 1928, si apriva con alcune dichiarazioni definitive: «Il Grand Jeu è irrimediabile; si gioca una volta sola. Noi vogliamo giocarlo in ogni attimo della nostra vita. E per di più a "chi perde vince". Perché si tratta di perdersi. Noi vogliamo vincere». Nei tre numeri della rivista – un quarto era in preparazione – questi giovanissimi poeti, attraversando con la medesima velocità Rimbaud, il Vedanta e Spinoza, hanno liquidato senza troppe esitazioni tutto l'apparato burocratico del surrealismo ufficiale. «Disgraziatamente la scrittura automatica, l'onirismo, ecc., diventano troppo presto per i surrealisti mezzi per pensare, meccanismi pensanti, in altre parole procedimenti per dormire, per non aver da pensare. Il vizio originario del surrealismo, che è il vizio umano universale, è questa ricerca della Macchina per Pensare. Non c'è mezzo per pensare: penso, immediatamente, o dormo». Non si trattava certo, per loro, di superare il surrealismo – era chiaro che fosse già superato, il suo apparente delirio non era che una variante camuffata del vecchio esprit de géométrie. Si trattava, nientedimeno, di arrischiarsi più oltre, contro «il vizio umano universale». Per contro, nell'abolizione totale dei mezzi, in questa immediatezza (o in questo non-mezzo, anupaya, come si dice in sanscrito), risiede ancora oggi l'urgenza, per noi, degli scritti di René Daumal, la cui esistenza si è consumata nel breve arco di 36 anni lasciando alcune poesie e prose preziose per chiunque voglia pensare. C'è bisogno di dire che la tentazione della Macchina per Pensare sia per noi, un secolo dopo, ancora più potente e velenosa?

Esce ora per Adelphi una raccolta di brevi testi di Daumal, Il rovescio della testa, a cura di Claudio Rugafiori (Adelphi, 12 euro), a cui si deve, non solo in Italia, ogni lettura di Daumal. In questa edizione, felicemente spoglia di ogni riferimento critico-filologico (suggerendo, forse, che l'essenziale non è certo nelle informazioni bibliografiche), vengono raccolti alcuni scritti molto eterogenei per stile e per contenuti, al cui centro è proprio il pensiero. Che cosa significa pensare? Il pensiero, leggendo queste pagine, appare subito come la cosa più eterogenea al nostro comune modo di vivere. Il pensiero, infatti, non è la conoscenza, non è il linguaggio, non è l'intelligenza – è qualcos'altro, incommensurabile a queste grandezze. Dove infatti l'intelligenza, a cui siamo tanto devoti – poco importa che sia animale, umana o artificiale – può essere misurata secondo grandezze continue, il pensiero è definito da una certa discontinuità, procede per buchi, strappi, afasie. Soprattutto, il pensiero è, per Daumal, un'esperienza a cui il linguaggio deve ogni volta tornare se vuole essere vero. Ogni parola che non nasca vibrando dalla corda tesa del pensiero è una parola morta. «La parola», è detto in uno di questi scritti, «è la corona dell'esperienza» (p. 45). E poi: «Bisogna parlare di ciò che si è vissuto, o bisogna parlare per dispensarsi dal vivere? Ecco una domanda che mette in discussione la natura e il destino del pensiero speculativo dell'Occidente» (Fra due sedie, p. 43). Si noti anche la differenza della preposizione usata: parlare di ciò che si è vissuto, o parlare per dispensarsi dal vivere. Quest'ultima opzione è la Macchina per Pensare, l'utilizzo del linguaggio come dispositivo autonomo di alienazione (intendendo qui il termine in senso soprattutto psichiatrico). Alienazione da che cosa? Anzitutto da sé, dalla propria stessa esperienza, attraverso posture anche fisiche, abitudini mentali. La costruzione della Macchina per Pensare è il grande sogno umano, perseguito nei secoli in mille modi diversi, per dimenticarsi di sé (in modo tuttavia ben lontano da quel benefico oblio di sé dell'Elogio degli uccelli leopardiano). La vita di René Daumal è stata segnata invece dall'urgenza contraria, non avendo posto altro obiettivo se non quello di pensare e di vivere, nel tentativo di avvicinare al massimo queste due possibilità. Dai testi e dai materiali del Grand Jeu fino al romanzo incompiuto Le mont Analogue, uscito postumo nel 1953 (Il monte analogo, a cura di Claudio Rugafiori, Adelphi, 1968, nuova ed. 2020, 18 euro), dalle traduzioni di Suzuki o di Aurobindo fino alle ultime preziose lettere agli amici (raccolte in italiano sempre a cura di Rugafiori con il titolo Il lavoro su di sé, Adelphi, 13 euro), al centro della rivolta metafisico-estetico-politica – tre aggettivi del tutto insufficienti, anche sommati – di Daumal è proprio il sabotaggio delle Macchine per Pensare. «E accolgo con gioia la rovina delle nostre Macchine per Pensare» (p. 28). Nel dialogo con un'altra figura dimenticata e notevole, Lanza del Vasto, Daumal dice: «Si può essere solo nella misura in cui si rinuncia a ciò che si crede di essere» (p. 88). Macchina per Pensare è ogni nutrimento di «ciò che si crede di essere», con cui sempre continuamente ci distraiamo da ciò che siamo. In altre parole: dimenticarsi di sé significa identificarsi con un soggetto fittizio, con una maschera, con una smorfia meccanica protratta.

Al centro della vicenda di Daumal vi sono alcuni incontri fondamentali: anzitutto l'incontro, ancora giovanissimo, con Roger Gilbert-Lecomte, eccentrica figura di scrittore e poeta, di straordinario interesse e ancora da scoprire, con cui, insieme ad altri due amici, Daumal diede origine al gruppo dei Phrères simplistes, primo nucleo originario del futuro Le Grand Jeu. Con questo incontro, si diede inizio al progetto – ancora vigente per noi – di metafisica sperimentale. Di questo esperimento facevano parte indirettamente Rimbaud e René Guénon, Alfred Jarry e Georges Gurdjieff (conosciuto indirettamente attraverso un'altra figura decisamente eccentrica, che ebbe un'influenza decisiva su Daumal: Alexandre de Saltzmann). E in ciò risiede, anche, l'interesse di Daumal: nell'aver mescolato Gurdjieff e Rimbaud, Guénon e Jarry, il sanscrito e Spinoza, Marx e Lautréamont, avendo capito come per pensare sia necessario tutto ciò – e ancora molto, ma non moltissimo, altro. Possiamo forse dire che di rado, successivamente, sia stata raggiunta una tale libertà dagli automatismi culturali vigenti. È qualcosa che ha sedotto molti, ma che ha reso Daumal, in definitiva, inappropriabile ai diversi esoterismi, universitari o iniziatici (spesso due forme della stessa nostalgia dell'esperienza), incapaci di inquadrarlo. Troppo poeta per i ricercatori spirituali, troppo spirituale per gli amanti della poesia pura. Troppo mistico – o troppo patafisico?
Ma l'operazione estrema di Daumal è consistita in qualcosa di ancora diverso, di là da tali contrapposizioni fasulle: nel se rendre Voyant – come Rimbaud scrisse una volta, quasi brutalmente. Come fare per rendersi veggenti? Anzitutto occorre abbandonare la pratica della poesia in quanto tale. Qui avviene l'altro incontro decisivo per Daumal, che cambierà la sua vita, oltre a quelli già menzionati: l'incontro con l'India, e in particolare, con l'India vedica. I poeti vedici erano, appunto, ṛṣi, ovvero, secondo una paretimologia arcaica rivelatoria: veggenti. È qui, in India, che Daumal trova una lingua, il sanscrito, e soprattutto una filosofia della lingua, all'altezza delle sue aspettative. Farsi veggente non vuol dire soltanto esercitarsi nel déréglement de tous les sens, come aveva detto Rimbaud, ma anche sottoporsi a una disciplina dura, a quella che un grande filosofo e linguista indiano medievale, Bhartrhari, aveva chiamato «il tapas [l'ardore ascetico] supremo» (VP, I, 11), ovvero la grammatica. Daumal, negli ultimi anni, compose pazientemente sul proprio quaderno a quadretti una grammatica sanscrita, per il proprio stesso uso di questa lingua, tra sé e sé. Le scienze della lingua sono in India avanzatissime, molto più che in Occidente (che, d'altronde, le ha scoperte molto più tardi). Esse rappresentano non soltanto una scienza a tutti gli effetti, e addirittura quasi il paradigma di ogni conoscenza, ma anche una vera e propria tecnica di liberazione. Si arriverà a pensare uno śabdayoga, uno Yoga della parola. Ciò significa che lo studio e l'esercizio appropriato del sanscrito sono anche soprattutto un lavoro su di sé. Le parole non servono soltanto a comunicare qualcosa a qualcuno o a enunciare una serie di affermazioni corrette sul mondo, secondo la duratura scissione che governa la nostra concezione del linguaggio (in modo che, per funzionare, può fare benissimo a meno del pensiero). No, il linguaggio può essere molto di più, e anzitutto può provarsi in quell'esercizio più impegnativo e totale che è la verità – qualcosa di cui solo una metà risiede nelle parole. La parola, cioè, viene considerata in India non in se stessa, come prodotto autonomo, ma rispetto a qualcos'altro da cui proviene – e che decide ogni volta della sua verità. Per attingere a ciò, occorre davvero «reimparare a parlare» (p. 45). La stessa parola che ci lega a pensieri meccanici e ad abitudini fantasmatiche (prima fra tutte l'abitudine ai pronomi personali), è in grado anche di liberarci dalla nostra costrizione al linguaggio e alle rappresentazioni, al pensiero discorsivo. Le speculazioni vediche su Vāc, la Parola, non hanno nulla da temere al confronto con le più ardue speculazioni patristiche sul Logos. Ma in India, Vāc, è una dea, ben più viva e capricciosa del Logos. Vāc, al contrario del Logos, non crea e non risiede con Dio dall'eternità; bensì viene corteggiata, si nega, si concede, fugge, seduce, irride chi la vuole possedere. Non è una parola che salva, definitivamente, ma che libera, nell'istante.

Sarebbe dunque molto riduttivo parlare di Daumal solo in termini letterari e poetici. In Daumal c'è qualcosa di più, che questi scritti testimoniano nella maniera più perfetta. La sua impazienza lo conduce molto più in là dell'estetica e della poesia, più in là di ogni itinerario spirituale noto. «Ma diffidate della letteratura, diffidate della filosofia, diffidate dei viaggi immaginari, diffidate dell'esperienza altrui, diffidate di ciò che non impegna a nulla, a nulla di essenziale» (p. 46). Abbiamo parlato di veggenza, e tale veggenza non può essere ridotta ad attributi poetici né a qualità spirituali. C'è qualcosa in più, qualcosa che potremmo pensare come la prima esplorazione di un nuovo spazio, di un nuovo corpo. Il veggente ha un occhio rivolto verso l'interno. Ha un doppio sguardo, in cui è possibile vedere simultaneamente l'esterno e l'interno. Che cos'è l'envers de la tête? Anche Gilbert-Lecomte ne parla in un verso di una sua poesia: «la tête à l'envers sombre sous l'horizon», «la testa a rovescio affonda all'orizzonte». È parte di un processo importante, di continua dislocazione, in cui alto e basso, dentro e fuori si rovesciano per mostrarsi, infine, identici. È questo uno dei principî che reggono l'intera struttura analogica védisant del Monte Analogo, il libro più noto di Daumal: «il parco interno e il cervello esterno». In questa zona ancora inesplorata, molte parole comuni – ad esempio mistica, metafisica, come Daumal dice (p. 51; p. 53), ma senz'altro anche psicologia – risulteranno semplicemente inutilizzabili. Non solo l'oggetto della mistica, della metafisica o della psicologia (più semplicemente: l'oggetto della conoscenza) infatti, sarà concepito diversamente, ma anche il soggetto stesso di tali esperienze sarà completamente mutato. È quanto si dice già in maniera compiuta, se pure con parole ancora acerbe rispetto alle formulazioni più mature, nell'ultimo densissimo scritto per il quarto numero postumo di Le Grand Jeu (1932), là dove Daumal riconosce due tipi di filosofi: quelli «dello status quo», preoccupati di ingabbiare il mondo e l'essere umano in una serie di metodologie e modelli epistemologici, sempre più esatti e in continuo sviluppo (ovvero: le Macchine per Pensare); e quelli, invece, per cui «conoscere un oggetto è creare quest'oggetto; poiché il solo atto creatore che io possa pensare è quello con cui io creo me stesso in ogni istante». Sono due forme irriducibili del pensiero, la seconda delle quali – poco importa come la si chiami – resta del tutto impenetrabile alla prima, al pensiero dello status quo. Ma è capace, dice Daumal, di inglobarla in sé. La possibilità di inglobare la Macchina per Pensare, di gettarla infine nel fuoco dell'unico pensiero efficace e vivo, in cui siamo rigenerati ogni istante, questo è l'esperimento più urgente che ci resta da tentare. A chi vorrà farlo, Daumal sarà essenziale.
