Dizionario Manganelli 6. Teologia
Dio è morto, e anche la teologia – almeno quella ufficiale, professionistica – non se la passa molto bene. Nel secolo scorso, l’immaginazione teologica è stata, infatti, sostituita da una modesta forma di sociologia umanistica, preoccupata soprattutto, più che di Dio, delle sorti storico-politiche degli esseri umani. Dio, le gerarchie celesti, i misteri dell’incarnazione e della resurrezione, l’apocalisse: tutto questo ricco, lussureggiante repertorio di immagini è stato progressivamente prosciugato, rimpiazzato da un discorso più povero, incapace di vedere in esse nient’altro che un alienato discorso sull’uomo, o una proiezione pedagogica. I veri eredi di Feuerbach sono stati, insomma, proprio i teologi cristiani, sempre più ridotti all’esercizio di una sobria pedagogia, protestante e demitologizzante.
Ma la teologia, per fortuna, non è solo quella ufficiale, confessionale. C’è un’altra teologia, altrettanto antica, ma clandestina, che ha distillato negli ultimi due o tre secoli i suoi frutti più preziosi. I visionari rappresentati di questa teologia non appartengono a nessuna confessione (oppure sì, non importa), e si trovano anzitutto tra gli scrittori e i poeti. Non che poeti e scrittori siano stati esenti, nel secolo scorso, da questa onda storicosocialumanistica che ha coinvolto la teologia, al contrario; ma la sostanza letteraria aveva comunque più spazio per le menzogne, per i misteri e per gli artifici teologici di quanto ne avessero, ormai, la teologia e le religioni confessionali. Il convivere di mistero e parodia del mistero, inaugurato da Apuleio nelle Metamorfosi, aveva aperto a questa teologia clandestina la possibilità di ospitare tutto il materiale che la teologia andava via via dismettendo, e di riportarlo, dunque, finalmente a casa. Questa materia opaca e lucente, dimessa e grandiosa, aveva ora cittadinanza in un’altra terra, che non era nient’altro, in realtà, che la sua patria originaria. Esattamente in questa regione degli inizi, in questo laboratorio primordiale, si situa la teologia di Giorgio Manganelli. Incipit parodia.
In questa teologia convivono, insieme, Dio e gli dèi; le integre figurine del presepio e Dioniso in frantumi; il canto del muezzin e le mute popolose necropoli etrusche. Non perché sia una teologia, come si dice, sincretistica, accogliente; ma al contrario, perché in essa il divino è fatto di una materia ancora densa e filacciosa, più antica di tutte le forme che gli sono state attribuite storicamente e dei luoghi che l’hanno accolta. Manganelli è un teologo del «prima» e del «dopo» (ma prima e dopo cosa?). La sua immaginazione teologica è, cioè, più originaria e più ricca delle diverse e contrapposte teologie che si sono avvicendate storicamente. Poco gli importa che Dio sia morto; anzi, la morte di Dio avviene ab aeterno (come è scritto in Hilarotragoedia), e il suo sbriciolarsi è l’unica possibile condizione della teologia.
«La letteratura si organizza come una pseudoteologia, in cui si celebra un intero universo, la sua fine e il suo inizio, i suoi riti e le sue gerarchie, i suoi esseri mortali e immortali: tutto è esatto, e tutto è mentito». Così Manganelli scriveva nel primo vangelo della pseudoteologia: La letteratura come menzogna. Che cos’è la pseudoteologia? La pseudoteologia è più antica della teologia, allo stesso modo in cui la menzogna è più antica della verità. La teologia è forse un accidente, un’eresia della pseudoteologia? Come la verità nasce dalla menzogna – con un gesto arbitrario di violenza metafisica – così la teologia nasce dalla pseudoteologia. La pseudoteologia è la teologia nel suo stato embrionale di potenza, o – come direbbe Stephen Dedalus – la teologia senza i suoi presupposti: l’unica a cui credere. È dunque vero il contrario di ciò che sospettava Borges: la letteratura fantastica e la fantascienza sono solo un ramo – quello neorealistico – della letteratura teologica. Poiché la teologia, ossia la pseudoteologia, è anzitutto letteratura: letteratura sganciata da ogni rapporto di verosimiglianza con il mondo.
Per immaginarla meglio, dovremmo pensare a una teologia delle superstizioni, una teologia frammentaria e illegittima, in cui il gatto nero e gli amuleti abbiano una medesima legittimità teoretica delle tre persone trinitarie. Una teologia superstiziosa – dunque, anche superstite? Nel primo racconto incluso in La Notte, intitolato L’effigie, Manganelli racconta di un teologo – o si racconta in quanto teologo – condannato come eretico per la sua dottrina circa la fine del mondo. «Invano cercai di spiegare loro che tutto era “fine del mondo”, e che pertanto non riuscivamo ad averne conoscenza, perché era venuto meno qualsivoglia “fuori” da cui contemplarlo», dice lo pseudoteologo. Ecco dunque un carattere fondamentale della pseudoteologia: il suo essere, insieme, ultima e totale, riassuntiva e ignota perfino a se stessa.
Perché pseudo? Perché in essa si celebra e si consuma la disadequatio rei et intellectus, il divorzio tra l’intelletto e le cose. Ma non perché le cose resistano ostinatamente alla nostra comprensione, in nome del cosiddetto principio di realtà; al contrario: perché le cose esistono anzitutto nel linguaggio, assoluto e sovrano, e lì brillano misteriose, prive di significato. Il nostro rapporto con il mondo nasce dallo scarto, dalla frattura che le parole producono tra l’intelletto e le cose. Questa circolare pseudoteologia è giovannea, o pseudogiovannea: «In principio era il Logos». Ma il Logos non è qui un principio ordinatore della realtà, che tesse insieme e trova l’armonia dei contrasti, come era per i primi filosofi greci; è una chiacchiera, un cicaleccio, rumori e voci.
Il fatto che esista solo il linguaggio – incendio, consumazione e resurrezione del mondo nelle parole – non significa affatto che tutto sia nell’uomo, e non indica dunque un riassorbimento delle res nell’intellectus. Il linguaggio, proprio perché è in origine, non è mai prodotto, tantomeno un prodotto umano, e anzi, ci somiglia ben poco. Questo è uno dei dogmi della teologia manganelliana: il linguaggio non è mai razionale e non è mai umano. «Certo qualcosa di irreparabile era accaduto: non nella mia mente, ma in ciò che i fedeli nominavano “il mondo”», prosegue lo pseudoteologo. È una trasformazione alchemica della materia del mondo in materia verbale, un riassorbimento del cosmo nel suo stadio vocale, chimicamente più originario.
Manganelli è teologo, dunque; ma non solo nel senso che afferma qualcosa di Dio. Al contrario, la sua teologia è quasi sempre negativa, anche quando formula asserzioni, argomenti e controargomentazioni sulla natura divina. Manganelli intende mantenere vuoto quello spazio – poiché Dio è anzitutto un locus retorico; il suo è un esperimento di teologia negativa ottenuto utilizzando tutti i mezzi e gli strumenti della teologia positiva. A forza di definirlo, di circoscriverne la natura paradossale, Dio sparisce, si rivela in quanto nulla. La pseudoteologia è ipotetica e impossibile; Dio è una efficacissima ipotesi retorica, un enorme vuoto (ma può il vuoto essere enorme?). Ecco, Dio è, appunto, il luogo dei contrari, la congiunzione degli opposti, l’affermazione delle contraddizioni.
Nonostante ciò, nonostante tutte le immagini possano venire ospitate da questa teologia, vi è una predilezione per le figurazioni notturne, tenebrose del divino, che hanno in Manganelli certamente un’importanza maggiore delle figure solari e diurne. Dio non è tanto «luce intellettual piena d’amor», ma «nube della non-conoscenza»; la gnosi manganelliana non ha la gelida geometrica necessità della gnosi weiliana o kafkiana, poiché attinge direttamente alle immagini del lussureggiante, superfluo e inesauribile serbatoio gnostico. Il pensiero di Manganelli non è teologicamente meno alto di quello di Simone Weil o di Franz Kafka (due tra i grandi rappresentanti della teologia clandestina del secolo scorso): ma Manganelli, come abbiamo detto, viene da una zona ancora precedente a quella di Weil e Kafka, poiché Manganelli non è interessato alla salvezza.
In Weil e in Kafka c’è la notte del nascondimento divino, ci sono le soglie e le doglie, ci sono gli intermediari, ci sono le distanze abissali, c’è il bene sconsolato; in Manganelli la notte non ha alcun pathos dell’oscurità, è una sostanza-notte. Non è assenza, ma autorivelazione. Se Manganelli non è interessato alla salvezza è perché non è interessato alla verità, ma all’immagine. La sua teologia non guarda alla sofferenza (né, dunque, alla soluzione della sofferenza), poiché non guarda all’uomo, ma al disegno, al riconoscimento del nume (ovvero del nome).
Dio, abbiamo detto, è un’ipotesi retorica. Da due apocrifi manganelliani, uno raccontato da Lietta Manganelli, l’altro da Ginevra Bompiani, sappiamo che Manganelli avrebbe detto, in occasioni diverse e probabilmente lontane tra loro, che «Dio è un bambino deforme», e anche che «Dio è il non linguistico». Forse il bambino deforme è il non linguistico? Significherebbe che la forma è «il linguistico»? La pseudoteologia avrebbe così per oggetto tutto ciò che resiste alla forma, il deforme e l’informe – e, insieme, ciò che, nel linguaggio, resiste al linguistico. Siamo sicuri che la letteratura sia linguaggio? Forse è una formula che precede il linguaggio articolato, una parola magica, o un continuato lapsus. Senz’altro allora Dio è un errore, ma un errore esatto.
In Manganelli c’è anche un’altra teologia, simultanea alla prima, che torna continuamente nella sua opera, benché trovi meno formulazioni. Si potrebbe forse chiamare psicoteopatologia. «Gli dèi sono diventati malattie», ha scritto una volta Jung. Tutto ciò che è divino si trova, in questo mondo, camuffato nella veste più sordida della malattia. Ed è questa psicoteopatologia che interessa Manganelli: gli dèi o il Dio in quanto sintomi; o meglio, i sintomi in quanto dèi. Strappati al gergo psicopatologico e psicoterapeutico, e restituiti al linguaggio teologico, i sintomi acquisiscono una nuova forma, una nuova vita, molto più interessante della prima.
Il buon Dio si nasconde in tutto ciò che è involontario, e in questo nucleo involontario pulsante agisce come una forma che appare: per cui i nostri tic, che detestiamo, diventano improvvisamente gesti rituali ed esatti; le nostre paure e fobie, cerimonie agli dèi ignoti; insomma, quelle che vediamo solo come nostre sofferenze – lungi dall’essere semplicemente la traccia di un’esperienza biografica avvenuta nell’infanzia – esprimono una intera ricchissima cosmogonia, un mondo popolato che si tratta anzitutto di riconoscere e onorare. È il contrario di una giustificazione della malattia, che implicherebbe una qualche forma consolatoria di riduzione. È l’animarsi del cosmo – qualcosa che in Manganelli coincide con lo schiudersi del vocabolario. La pseudoteologia abbandona anche ogni eziologia: siamo non solo oggetti di significato, prodotti da certe cause e ricattati da esse, ma emblemi metamorfici, cifra nel tappeto.
Infine c’è un’ulteriore possibilità della pseudoteologia, che non riguarda l’ipotesi retorica di Dio, né i modi o i sintomi in cui gli dèi si manifestano, ma riguarda la possibilità stessa di parlare. Tutto il linguaggio, infatti, è teologia: è una macchina che serve a far esistere Dio (ovvero, se ascoltiamo l’etimologia della parola divino, il mondo nel suo stato più intenso e brillante). Lo diceva anche un grande grammatico indiano: se improvvisamente il palinsesto linguistico venisse meno, la luce smetterebbe di illuminare. Il linguaggio, in qualche modo, è costretto a far nascere Dio, deve produrlo con i mezzi insufficienti della grammatica e della retorica, affinché il mondo esista e si manifesti. Le parole non hanno solo un senso comunicativo, ma anche teurgico e cosmogonico.
Ma a questa dottrina – che rappresenta l’idea teologico-poetica più antica che abbiamo – Manganelli oppone la sua pseudoteologia. La letteratura è pseudoteologia in quanto è la capacità di far esistere il mondo non nella sua realtà, nella sua efficacia semiotica e semantica, ma nella sua apparenza, nella sua natura puramente emblematica. Dunque la possibilità di far esistere il mondo non solo nella sua consistenza luminosa, ma anche nell’invenzione della notte.
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