Che attore, Don Chisciotte 

21 Luglio 2023

Di recente mi è capitato di invitare a un incontro pubblico sul teatro un’amica che si occupa di tutt’altro. Pensavo si sarebbe annoiata, invece mi ha detto di essere rimasta molto colpita da due cose: dall’ossessiva ricorrenza lessicale della parola “sistema” nei discorsi di tutti; dalla veemenza e dalla passionalità con cui questo nemico invisibile e non meglio precisato veniva apostrofato, sfidato, combattuto. Ascoltandola, mi è apparsa davanti agli occhi l’immagine di un Don Chisciotte infiammato che si slancia contro i mulini a vento del Mostro-Sistema; e in effetti i teatranti di oggi possono sembrare – forse più ancora che in altri momenti storici – cavalieri arrabbiati, sognanti, intrepidi, inadatti al mondo per come è diventato.

Ed ecco forse perché Ermanna Montanari e Marco Martinelli sono partiti proprio da qui per il loro Don Chisciotte ad ardere: da una scalcinata compagnia teatrale come tante, in bilico tra professionismo e amatorialità. Roberto Magnani, Alessandro Argnani, Laura Redaelli (tutti e tre storici attori del Teatro delle Albe) interpretano Don Chisciotte, Sancho Panza e Dulcinea per come li ha raccontati Cervantes, ma sono nello stesso tempo tre attori un po’ affamati e un po’ grandiosi che si offrono allo sguardo del pubblico. La drammaturgia gioca su continue interferenze e sovrapposizioni tra maschera e volto, tra attore e personaggio; ma del resto di fame, di capacità di sognare, di grandi ideali e di dolorosi schiaffi della realtà si parla in ambo i casi. Magnani/Don Chisciotte – pupille sempre mobili, come a cercare qualcosa più lontano, di lato, oltre – prova a rinominare la realtà, a farla esistere con le parole e i gesti e a persuadere il proprio uditorio, come un regista-demiurgo; Sancho/Argnani dubita, arranca, riporta al centro la dimensione del corpo, nella sua miseria e nella sua grandezza, come un vecchio attor comico.

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Ancora una riflessione del teatro sul teatro, dunque, degli artisti sugli artisti, degli artisti contro il Sistema? Impossibile limitarsi a questo, se si lavora a stretto contatto con un territorio e una città. Come già accaduto nel felice triennio dedicato a Dante, Martinelli e Montanari hanno aperto un cantiere coinvolgendo nel processo creativo cittadine e cittadini di tutte le età per mezzo di una chiamata pubblica; e lo spettacolo si nutre così della dialettica tra un piccolo nucleo di attori nel ruolo dei corifei e un coro numeroso e vitale. La moltitudine incarna volta per volta il popolo, un gruppo di locandiere arrabbiate che pretendono di essere pagate, una fila di delinquenti in catene che Don Chisciotte proverà a liberare, un gruppo di fanatici che, come in Fahrenheit, bruceranno tutti i libri: cioè le diverse forme della realtà che insiste a non piegarsi alla fervida fantasia del cavaliere della Mancia, ma gli rimanda quanto spietato e crudamente pragmatico possa essere il mondo. 

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Marco Martinelli ed Ermanna Montanari si assumono invece il ruolo di un duplice Virgilio, maestri di cerimonie, ambigue creature ferine che accompagnano il piccolo gruppo di spettatori (solo cinquanta per sera, tutto sempre esaurito con lista d’attesa) nel regno fantasmatico del Chisciotte. 

È lei, Ermanna, ad aprire le danze e ad accogliere i visitatori, comparendo da un balcone in panni che assomigliano a quelli dell’amata maga Alcina: in un inventivo pastiche linguistico quasi testoriano, che attinge al romagnolo per mescolarlo a un esperanto di lingue internazionali, ci invita ad entrare. Dove? Nel regno del sogno, ovvero a Palazzo Malagola, dove da qualche anno la stessa Montanari conduce con Enrico Pitozzi una prestigiosa scuola di vocalità. Qui, in un percorso itinerante che (apparentemente) con Don Chisciotte sembra aver poco a che fare, siamo portati a smarrirci come da bambini in un castello incantato. Nella prima sala – annuncia Marco Martinelli – “si cuciono, si disegnano, si cantano sogni”: l’illustratore Stefano Ricci (al fianco di Ermanna anche nel precedente Madre) si muove febbrile sulla lavagna con il suo gessetto, la voce di Serena Abrami ci attira a sé come una sirena con la ciurma di Odisseo, il ticchettio di vecchi telai scandisce il tempo dello spettacolo, fermo e costante, lontano dalle frenesie del quotidiano. 

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Da lì, a piccoli gruppi, si viene condotti per corridoi e stanze, anfratti e scale. La regia costruisce, con la sequenza silenziosa delle apparizioni, le atmosfere imprevedibili del sogno, la sua assenza di legami logici, l’inquietudine che scaturisce imprevedibilmente da una scena famigliare: il tonfo della mannaia sul banco del macellaio, il rumore di un cucchiaio su un tavolo, una ragazza nuda sbirciata di spalle da una porta socchiusa.

Con un limpido disegno luci e un’attenzione rigorosa al dettaglio di costume e di scenografia, Martinelli e Montanari duettano con atmosfere noir e horror, costruendo una partitura di folgoranti quadri che a tratti paiono richiamare la calligrafia della “vicina” Societas Raffaello Sanzio. Cosa rende un’immagine perturbante? Perché uno scenario solare e diurno può d’improvviso farci gelare il sangue? Al termine del percorso, si approda nel cortile interno del Malagola: è una locanda, una band suona per gli avventori, un piccolo palco accoglierà i personaggi di Cervantes e le loro avventure. 

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A chi si chiede cosa abbiano a che fare le epifanie oniriche della prima parte con le avventure tragicomiche del Cavaliere della Mancia, basterà ricordare come Lewis Carroll ha costruito la drammaturgia delle avventure di Alice. Sarebbe stato possibile, per la protagonista, incontrare il Paese delle Meraviglie senza cadere nella buca seguendo il Bianconiglio? E allo stesso modo: ci è possibile oggi credere alle storie del Teatro-Don Chisciotte, farci persuadere dal suo linguaggio immaginifico e fantasioso, senza compiere un percorso di depurazione dalla concretissima realtà di numeri, orari e notifiche in cui siamo immersi? 

Con la prima parte di Don Chisciotte ad ardere, che ha debuttato nell'ambito di Ravenna Festival (il percorso prosegue per altre due annualità) Montanari e Martinelli mostrano, ancora una volta, che intraprendere percorsi partecipativi con la cittadinanza non significa derogare alle questioni artistiche ed estetiche. Al contrario: significa metterle al centro, e prenderle estremamente sul serio, con la follia lucida di un matto. 

Le fotografie sono di Marco Caselli Nirmal

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