Medea di Lidi: partitura per attrice

26 Aprile 2024

Di Leonardo Lidi si è parlato molto in questi anni. È l’enfant prodige della regia nostrana, si è detto, che talento! O forse no: è sopravvalutato, fa troppe cose, ha solo trent’anni e pare di un’altra generazione per come tratta il repertorio. Ma il teatro di regia non era morto?

Sul suo percorso artistico le posizioni paiono sempre assertive e polarizzate, come accade di fronte a fenomeni ormai acclarati: che Leonardo Lidi costituisca oggi un elemento non trascurabile del paesaggio teatrale italiano è in effetti assai difficile da negare. Ci si è invece soffermati poco – forse distratti dalla smania di trovare in lui l’incarnazione nostalgica del compianto regista/demiurgo – sul gruppo di attori e attrici che Lidi sta convocando accanto a sé, e sul pensiero che questa rete di collaborazioni sottende. Sei nuovi spettacoli (Signorina Giulia, Il Misantropo, Come nei giorni migliori, Medea, Il Gabbiano, Zio Vanja, a cui va aggiunto Il giardino dei ciliegi prossimo al debutto) hanno visto la luce tra il 2022 e il 2024 in rapporti produttivi con il Teatro Stabile di Torino, il Teatro Stabile dell’Umbria e il Festival dei Due Mondi. Questo vasto materiale artistico costituisce un terreno sufficientemente ampio per avanzare alcune considerazioni. Il primo dato evidente è che Lidi, pur non muovendosi nominalmente nell’alveo di una compagnia teatrale, tende a restare fedele agli attori che ama e che sceglie (Francesca Mazza, Massimiliano Speziani, Angela Malfitano, Christian La Rosa, Alfonso De Vreese, Giuliana Vigogna sono solo alcuni dei nomi che si rincorrono da una locandina all’altra). 

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Accade così – sta accadendo soprattutto con la fortunata trilogia cechoviana – che il pubblico si trovi a riconoscere lo/a stesso/a interprete da una rappresentazione all’altra, e a gustarne i metamorfici cambiamenti: Francesca Mazza, dopo aver incarnato l’egotica e vanesia Arkadina del Gabbiano, appare in Vanja come un’imbronciata balia con bigodini in testa e sigaretta in bocca, conquistando immediatamente le simpatie della platea. Il meccanismo di attese e stupori sulle prove degli interpreti, del resto, è un antico trucco messo in atto da sempre nella storia del teatro, da Goldoni a Stanislavskij fino ai De Filippo: “quale personaggio interpreterà questa volta Maddalena Marliani, Olga Knipper, Titina?” è indotto a domandarsi il pubblico.

La seconda considerazione è che Lidi – a differenza di quanto spesso hanno fatto i Maestri del Novecento – ama attingere a tradizioni attorali e a scuole assai differenti, superando così i vecchi steccati tra prosa e ricerca e mescolando proficuamente le carte (una postura che lo guida anche come coordinatore didattico della scuola del Teatro Stabile di Torino). Mettere in campo sapienze e bagagli d’attore differenti significa anche, inevitabilmente, immaginare la propria creazione artistica in una prospettiva di co-autorialità: qualcosa di molto diverso dall’esaltazione del genio registico e della sua singolarità che, a quanto sembra, non riusciamo a smettere di cercare.

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Un ottimo esempio per comprendere quanto profondamente il teatro di Lidi sia influenzato dalla scelta e poi dalla collaborazione con attori e attrici è Medea, che ha da poco debuttato a Torino in attesa di una più corposa tournée il prossimo anno. La rispettosa attenzione al testo di partenza risulta visibile (come accade per Cechov, presentato sempre nella versione italiana di Fausto Malcovati) fin dalla scelta del traduttore dall’originale greco, il compianto Umberto Albini. Il suo nome, insieme a quello del collega e amico Dario Del Corno, è una pietra miliare per il teatro antico sulla scena di oggi: filologicamente inattaccabile, ma profondo conoscitore delle esigenze del teatro e dei problemi specifici legati a ritmo e oralità. Il dettato – piano e perfettamente comprensibile, lontano da enfasi e accademismi – contribuisce a un attraversamento dolce del capolavoro euripideo, che si ascolta qui con rinnovata attenzione, quasi come le parole fossero pronunciate per la prima volta. Ma è inutile girarci intorno: la sorpresa di questa Medea è l’attrice che la interpreta, Orietta Notari, e le inedite sfumature che sa conferire al suo personaggio. Per le ragioni che ho sopra illustrato, non sarà inutile richiamare alla memoria la sua performance nel Gabbiano: un indimenticabile Sorin costruito attraverso un meccanismo chirurgico di tempi comici, silenzi, leggerezze e malinconie. Con la sua sola presenza fisica, in questo lavoro, Notari passa un colpo di spugna sulle incrostazioni interpretative che intorbidiscono il nostro sguardo sull’eroina euripidea e che ne fanno un’omicida, una fredda mentitrice, una onnipotente maga capace di raggirare con la parola e con l’inganno, una madre degenere. 

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Nella scena disegnata da Nicolas Bovey – un’algida e geometrica stanza delimitata da un vetro, completamente sgombra come la sala d’aspetto di un ospedale – il corpo accasciato dell’attrice pare quello di una belva malata, rifugiata in un angolo per non essere attaccata. Sull’animalità Notari costruisce tutta la sua interpretazione, in una dialettica costante tra ferocia e tenerezza: si alza, gira senza darsi pace nello spazio-gabbia, batte sul vetro, si accascia di nuovo, geme, minaccia Giasone (Nicola Pannelli, meraviglioso nel restituire un personaggio umano e mediocre, lontano da ogni statuto eroico) cerca conforto nel contatto fisico, si accascia di nuovo. Il dolore, che condurrà la donna ad attaccare l’amato e sé stessa – come un’ape che nel pungere perde la vita – esonda palpabile oltre il vetro, fino in platea. Chi ricorda la celebre Medea ronconiana interpretata da Franco Branciaroli (dove la scelta di un attore maschio serviva a rivelare l’essenza non umana dell’eroina, che “performa” la sua natura di donna) scoprirà di trovarsi, con Lidi/Notari, esattamente agli antipodi: non c’è nulla di divino in questa storia di abbandoni e tradimenti, nessun deus ex machina verrà a salvare la protagonista, non è possibile “elevarsi”, come sul carro del sole, dalla sofferenza umana. Al fianco di Medea, la nutrice (una commovente Valentina Picello, in una delle sue più belle prove d’attrice) e il pedagogo (De Vreese, felicemente accordato ai toni misurati del teatro di Lidi) assorbono nei propri interventi ampi brani filosofici del coro, troppo spesso genericamente retorici nelle rappresentazioni classiche, qui amari ed esatti. Sempre al fianco di Medea, come un conturbante specchio dei suoi figli, i due giovani sembrano indicare allo spettatore le vie della compassione umana, unico conforto in un mondo senza dei. La scena dell’infanticidio, così come la sezione finale che riferisce le conseguenze della strage, non sono le più riuscite dello spettacolo; quasi come se l’atto tragico in sé, il concatenarsi non più controllabile degli eventi sul piano inclinato della sorte, interessasse a Lidi ben meno che le premesse che li hanno generati. Notari esce semplicemente di scena, senza enfasi e senza effetti. Ma la sua Medea si è ormai impressa negli occhi del pubblico, scolpendo – come accade ad alcune attrici, in alcuni ruoli – un capitolo importante della memoria collettiva del personaggio.

Le fotografie sono di Luigi De Palma (Medea, da Euripide, regia di Leonardo Lidi).

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