Che guascone Leonardo Manzan!

11 Novembre 2022

Leonardo Manzan si annoia quando legge le recensioni. O almeno così fa dire al suo alter-ego Cirano che, al suo ingresso in scena, si toglie subito qualche sassolino dallo stivale. Non lo irritano solo i critici, per altro. Lo urtano anche i colleghi (“i drammaturghi che fanno autobiografia /ogni volta penso ‘per fortuna che non è la mia’”), le colleghe (“la regista che si lamenta della società patriarcale”) e tutto il gran “centro commerciale del teatro italiano”.

Forse proprio questa innata verve polemica ha spinto Manzan, classe 1992, a scegliere la tagliente opera di Rostand quando si è trattato di presentare un progetto per la Biennale College nel 2018. Antonio Latella, allora direttore, lo ha decretato vincitore garantendogli così una ottima produzione e un debutto nel 2019. Poi, complici il biennio di pandemia e le ben note difficoltà distributive, lo spettacolo è rimasto congelato. Oggi, finalmente, Cirano deve morire riprende la sua vita al Piccolo Teatro di Milano (poi al Vascello di Roma e al Teatro Rifredi di Firenze), proprio mentre sta girando in tournée anche il Cyrano di Arturo Cirillo: una bella occasione per vedere quali esiti rigorosi ma radicalmente diversi possano dare due riletture dello stesso classico. Nel frattempo, Manzan ha prodotto alla Biennale un altro lavoro (Glory wall, 2020), dedicato al tema della censura a teatro e si è fatto conoscere e apprezzare in Italia e all’estero. Polemico e livoroso anche in questo caso contro la scena italiana? Certamente. Ma torniamo a Cirano.

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L’intuizione folgorante alla base dello spettacolo è presto detta: la capacità di versificare improvvisando di Bergerac e la sua aggressività verso gli avversari lo rendono a tutti gli effetti l’antenato di un rapper. Ma è tutta la struttura dell’opera di Rostand, costruita come un agone e continuamente in apertura mobile verso l’attualità, a richiamare un contest rap. Così Manzan e il suo collega Rocco Placidi hanno riscritto il Cyrano come una sequenza di ritmatissimi brani poetico-musicali da sciorinare in un’arena, a favor di pubblico. Immaginate quindi il più noto spadaccino della letteratura teatrale di tutti i tempi farsi avanti sul palco con il volto nascosto nel cappuccio della felpa come il rapper Liberato. Rossana, invece, si introduce agli spettatori con una personale versione di Thoiry, obliterando le finali di sillaba come Achille Lauro. A supportarli è la musica (composta da Franco Visioli e Alessandro Levrero) eseguita live da Filippo Lilli, che rimane visibile per tutto lo spettacolo in cima a un’alta struttura in acciaio, come un ambiguo demiurgo.

Un concerto dunque? Non proprio. Per prima cosa, varrà la pena notare che i tre interpreti (Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi e Giusto Cucchiarini) non sono rapper ma valenti attori, come ben mostrano nei rari ma intensi momenti in cui lo spettacolo indulge nella prosa. Chi voglia passare al vaglio Cirano deve morire come pura performance rap, dunque, non può che rimanere deluso. Chi invece abbia voglia di leggere la fine operazione drammaturgica proposta e la fitta trama interpretativa del testo di partenza, dovrà ammettere di trovarsi davanti a un lavoro originale, di grande sapienza teatrale, che non si limita alla ‘trovata’.

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I tre personaggi coinvolti nel triangolo di amore e amicizia – il protagonista Cirano, la bella Rossana e l’antagonista Cristiano (“io sono stupido / stupido ma bello”) – vivono nella continua dialettica tra la storia ben nota e il “qui ed ora” della performance che sembra crudelmente costringerli a compiere ancora una volta gli stessi errori. La drammaturgia, che spazia con agio da De André a Tiziano Ferro, è in questo senso compiaciutamente post-moderna: si prende il gusto di alludere al testo sorgente e alle sue infinite (anche indirette) declinazioni, facendo l’occhiolino al pubblico che già sa.

Ma c’è altro. Per comprendere l’autentica tragedia della ripetizione occorre guardare la vicenda nella soggettiva di Rossana, l’unico personaggio che Rostand lascia in vita, come un Orazio costretto a raccontare. E bisognerà osservare allora la stanchezza con cui, fin dai primi istanti, la bravissima Giannini indossa i panni scomodi e logori della ragazza ingannata, prendendo coscienza ancora una volta di quante forme di violenza e prevaricazione possa contenere al suo interno l’amore, o la forma di idealizzazione dell’altro con cui può manifestarsi. La struttura a climax, un vero e proprio crescendo di insofferenza al proprio ruolo, raggiunge il suo punto più alto nella celebre scena del balcone: qui Rossana, issata su una lunga scala sospesa nel nulla, ripercorre la dinamica del raggiro, dando voce da sola alle parole d’amore goffamente pronunciate da Cristiano sotto suggerimento di Cirano. Non le è più possibile, ormai, riabbandonarsi dolcemente a quel copione; esattamente come accade quando la rivelazione del vero volto di una persona contamina irreversibilmente anche i bei ricordi precedenti a quella scoperta.

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Ancora due osservazioni (ci rincresce se, arrivati a questo punto, Manzan si è ormai annoiato). Il Piccolo Teatro non ha insistito, sul piano della comunicazione, sulla giovane età del regista: lo spettacolo è stato inserito nella normale programmazione e non – come troppo spesso accade – in specifiche rassegne-ghetto dedicate alle nuove voci della scena contemporanea. Questo ha dato l’opportunità al Cirano di confrontarsi con il pubblico alla pari, senza barriere protettive. Il risultato è stato che, sera dopo sera, è scesa l’età degli spettatori (molti i giovanissimi in sala) ed è cresciuto invece a dismisura il tasso di interazione (quando Cirano sfida gli ascoltatori alla risposta, in tanti hanno chiesto il microfono). A conferma di quanto il migliore audience development sia, dopotutto, la qualità degli spettacoli e la loro capacità di intercettare le frequenze del presente.

Infine, a qualche anno dalla fine dell’esperienza della Biennale College di Antonio Latella, bisognerà ammettere che il progetto è stato – alla prova dei fatti – un fenomenale incubatore di nuove voci autoriali. Leonardo Lidi, Fabio Condemi, Giovanni Ortoleva e Leonardo Manzan sono, nelle loro spiccate differenze e individualità, un gruppo di registi giovani ma già pienamente maturi, pronti a misurarsi con grandi produzioni e pubblico non di settore. Non è un brutto segno, ma non ditelo a Cirano.

Le foto dello spettacolo sono di Andrea Avezzù.

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