Moretti/Ginzburg: squarci di vita quotidiana
Quanti elementi ci condizionano nella visione e poi nel giudizio di uno spettacolo? Quante aspettative, preconcetti, idiosincrasie, agiscono in noi prima ancora che il sipario si apra?
Gli studiosi di semiotica spiegano che le pre-condizioni della ricezione costituiscono una dimensione altrettanto importante dell’atto ricettivo in sé. La riflessione, che può forse apparire astratta e teorica, si manifesta in tutta la sua concretezza di fronte a Diari d’amore di Nanni Moretti (da due commedie di Natalia Ginzburg, recentemente edite in unico volume da Einaudi) che sta girando l’Italia con una fortunatissima e ricca tournée, di quelle che ormai il sistema teatro concede di rado. Ho visto lo spettacolo in una domenicale al Teatro Carignano, dove ha debuttato lo scorso ottobre: nei commenti in foyer, tra pubblico e addetti ai lavori, risuonava la frase “c’è poco Nanni Moretti”, come se nannimoretti fosse un ingrediente del quale si può riscontrare l’esatta quantità in una ricetta, o come se gli osservatori sapessero riconoscere l’identità dell’artista più chiaramente dell’artista stesso. Ho cercato di guardare Diari d’amore tenendomi il più lontana possibile da questo bias critico, giocando a dimenticare quello che so (o credo di sapere) del Moretti regista di cinema.
Quando si apre il sipario rosso, sul quale viene proiettato – come su uno schermo – il titolo dello spettacolo, si offre allo sguardo una stanza da letto. Cuscini, trapunta, una finestra con le tapparelle chiuse, una porta dalla quale filtrano voci e informazioni, due abat-jour accesi, portacenere sul comodino, sigarette. La scenografia di Sergio Tramonti ci trasporta esattamente dove ci aspettiamo di essere, cioè nell’ambiente descritto da Natalia Ginzburg nella commedia Dialogo. E in effetti dove potrebbero essere, se non sotto le lenzuola, due coniugi che parlano al risveglio, tra una giornata che inizia come le altre e alcune rivelazioni che la trasformeranno in un incubo? Poco cambia con il secondo dei due atti unici scelti da Moretti, Fragola e panna, che si svolge nel salotto di casa di un ricco avvocato e di sua moglie. Anche qui: due divani, un tavolinetto, una valigia, un bicchiere. I personaggi (vestiti da Silvia Segoloni) indossano soprabiti, grembiuli, orecchini da signora portati dalle signore, jeans da ragazza povera portati dalle ragazze povere. Una convenzionale ambientazione da teatro borghese, insomma, che apre piccoli – e ahinoi, troppo brevi – squarci: l’ossessionante cura con cui vengono trattati gli oggetti (un cuscino sistemato infinite volte, il modo di accendere una sigaretta o di sistemarsi un vestito), i gesti quotidiani che si sfarinano lasciando intravvedere la disperazione, il fallimento, l’angoscia.
Non è difficile dire quale sia il punto di forza di questi Diari: una straordinaria squadra di attori e attrici, che si tengono in perfetto equilibrio tra una recitazione diretta e contemporanea (che può piacere agli spettatori di cinema e serie tv) e un’antica sapienza teatrale, che sa giocare con la presenza del pubblico senza perdere in esattezza. Bravissime Arianna Pozzoli, che disegna un personaggio femminile sempre sul crinale del tracollo, Giorgia Senesi, qui un’insensibile aristocratica che sarebbe piaciuta a Buñuel, Alessia Giuliani, che dà corpo a due personaggi femminili di opposta natura. E poi Valerio Binasco, divertito e sornione, che a tratti assomiglia a Eduardo e a tratti a Carlo Cecchi; e un’irresistibile Daria Deflorian, che fa sentire nei suoi due personaggi tutta l’esperienza di autrice, scolpendo con esattezza il linguaggio dall’interno.
Per il resto, c’è poco da aggiungere su uno spettacolo che, in definitiva, avrebbe potuto essere prodotto con poche variazioni nel 1997, nel 2012 o nel 2023 ottenendo identici effetti. Si potrà certo discutere se le commedie di Ginzburg – sulla cui trama non dirò niente per non rovinare una delle poche sorprese dello spettacolo, quella di ascoltare le vicende e le parole del testo di partenza – risentano del tempo o meno; se la sua possa essere considerata una reale sapienza teatrale, o piuttosto un talento letterario; se il suo sguardo sulla donna risulti datato o profetico. Si potrà discuterne come si fa nei salotti letterari à la page, sfoderando la propria opinione, dissentendo, senza essere davvero toccati o feriti da quello di cui si parla.
I teatranti romani riferiscono che Nanni Moretti, negli ultimi anni, ha cominciato a frequentare con passione e assiduità le sale teatrali, e non solo quelle più istituzionali; non mi risulta difficile immaginare perché, guardando alle sue onorevoli battaglie in difesa della sala cinematografica come spazio politico condiviso, difendendo l’importanza della fruizione collettiva. Credo tuttavia – e cado così proprio nel bias critico da cui tentavo di allontanarmi – che su quelle vitali platee raccolte Moretti non avrebbe voluto, da regista, ottenere l’effetto che ha in realtà ottenuto: quello di uno spettacolo piacevole, godibile, ben fatto ma, in definitiva, inoffensivo.
C’è una scena dei Il sol dell’avvenire che mi è tornata in mente, mentre mi allontanavo dal Teatro Carignano. Giovanni (alias Moretti) ha riunito la famiglia sul divano per vedere un film di Max Ophüls, ma sua moglie è distratta e anche la figlia Emma scalpita per uscire, perché un nuovo fidanzato la attende. E così anche noi, convocati per assistere a una morettiana dichiarazione d’amore al teatro che in parte ci lusinga, ci rigiriamo sulla sedia impazienti di andare verso il nuovo.
Le fotografie sono di Guido De Palma.