François Jullien e il gioco dell’esistenza
Fra le religioni del Libro e del deserto, l’idea originale del cristianesimo è il rit(i)rarsi di Dio, come ha ben visto Simone Weil. Dio rinuncia alla statica identità dell’Essenza, alla de-terminazione de-finita perseguita dal Logos greco: è quanto dice fin dall’inizio il Vangelo di Giovanni, dove il Logos / Verbo è “presso Dio” e Dio stesso, cioè non aderisce totalmente al proprio essere. Solo de-coincidendo da sé – ha rilevato François Jullien in Risorse del cristianesimo (Ponte alle Grazie, 2019) –, l’Eterno può partecipare al divenire, offrirsi nel Figlio alla morte in croce per avvenire in quanto Dio vivente: la contraddizione è in Dio stesso, il che non rimanda tanto al paradosso caro alla mistica e alla teosofia, quanto alla “logica” stessa del vivere, come ha compreso Hegel. Alla base dell’hegelismo, suggeriva Jean Hyppolite, vi è l’interpretazione del cristianesimo secondo la quale Dio è tale solo facendosi uomo, cioè perdendosi come reificata Sostanza (nel senso di Spinoza) per farsi Soggetto che accede alla processualità della vita. L’Hegel che costruisce il Sistema finisce poi per tradire questa intuizione: alla dialettica spetta riassorbire la contraddizione superandola in vista della coincidenza finale nello Spirito Assoluto, della Riconciliazione che pone termine all’inquietudine del “lavoro del negativo”.
Se Dio coincidesse con se stesso sarebbe un Dio morto, solo de-coincidendo da sé si fa vita che fa vivere. Anche il Figlio de-coincide dalla propria vita, la depone – suggerisce Giovanni –, nel senso che rinuncia a quanto nella vita si sedimenta per portare la capacità di vita più lontano. Il negativo non è più nel fuori, nella condizione mortale, nel mondo da condannare, è nell’essere in vita (psyché) che aderisce a se stesso e s’impantana; solo de-coincidendo dall’adeguamento al vitale, solo morendo come il chicco di grano caduto, si accede alla vita “viva” (zoè). La logica della de-coincidenza è la logica stessa della vita, argomenta Jullien in Il gioco dell’esistenza. De-coincidenza e libertà (il titolo originale è Dé-coincidence. D’où viennent l’art et l’existence, 2017, Feltrinelli, 2019). De-coincidere equivale a strapparsi dalla vita che si è fossilizzata, a ridispiegare i possibili per aprire un futuro inedito, per accedere a una vita che si espande. Vivere non è un oggetto, ha rilevato l’esistenzialismo, ma la filosofia, volendo rispondere alla domanda “che cos’è” secondo la logica della coincidenza, ne ha inseguito una de-finizione che ne fissi l’identità fondata sull’Essere. Il pensiero della vita come non-coincidenza è rimasto così segnato in Europa dall’alone contraddittorio dell’assurdo (ancora in Camus), come se pensare la vita imponesse di escludere ogni razionalità.
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Per “tenere insieme” il fluire dell’esistenza, occorre rivolgersi, suggerisce Jullien, a un’altra modalità della coerenza, quella suggerita dalla lingua-pensiero della Cina: non per interesse esotico, semmai ex-ottico, cioè per percepire la questione da un altro angolo rispetto alla tradizione dell’onto-teologia. Uno dei testi canonici del Taoismo, il Laozi, gioca appunto sulla non-coincidenza: dire che “il grande quadrato non ha angoli” o che “la virtù superiore è senza virtù” – formule in cui il complemento oggetto “ritira” quanto affermato dal soggetto – non risponde al gusto del paradosso, mira invece a mostrare come ogni determinazione che si chiude su di sé perde slancio e possibilità di sviluppo. Gli enunciati relativi al Tao sono in trasformazione continua, sfuggono a se stessi: ma l’improprietà qui non è un difetto, è il processo stesso della Via (Tao) e della vita a de-coincidere costantemente da se stesso per restare in corso. “La grande opera evita di avvenire” o “la grande immagine non ha forma”: anche nella produzione artistica, l’opera si afferma tanto meglio quanto più resta all’opera, allo stadio di abbozzo e non è portata a “termine”. Come esemplarmente fa il movimento del drago, il Tao si ritira per potersi sviluppare, per lasciar avvenire. Ed è quanto Martin Heidegger (che provò a tradurre in tedesco il Laozi, con l’aiuto di un amico cinese) dice dell’Essere: nell’esporsi dell’ente, l’Essere si rivela solo celandosi, solo a partire dal ritiro (Entzug) la pres-entia dell’ente si svela. Ma, riconducendo ogni de-coincidenza al solo rapporto fra l’Essere e l’ente, Heidegger conferisce all’originario un’aura misterica e ricade nell’antica messa in scena della metafisica: lo conferma quanto dice della “radura” (Lichtung), dove cade la luce che viene a dissipare le tenebre della foresta.
In principio non era il Verbo o l’Azione (come voleva il Goethe caro a Freud): la condizione di possibilità dell’origine è la de-coincidenza, quella scissione prima che si annuncia in un frammento di Eraclito, “l’uno differendo da sé, differendo con sé”. La filosofia seguirà però un’altra strada, la celebrazione della Coincidenza nell’ontologia di Parmenide per il quale pensare ed essere sono la stessa cosa: è la strada speculativa della conoscenza fondata sulla concordanza fra mente e realtà, in cui la verità è adequatio rei et intellectus, secondo il principio della Scolastica. Qui si conserva il senso geometrico della coincidenza, il sovrapporsi di due forme identiche o il combaciare di due pezzi della tessera spezzata del symbolon, completa conformità senza eccedenza o mancanza. Ma perché appaia qualcosa di nuovo, perché si possa sfuggire alla ripetizione mortale dell’identico, rileva Jullien, si rende necessario il prodursi di una de-coincidenza nella regolarità, come prospettava Lucrezio: nella caduta laminare degli atomi, analoga alla caduta di gocce di pioggia parallele, ecco uno scarto infinitesimo dalla linea retta, inclinazione (clinamen o parenclisis, diceva il maestro Epicuro). Il gioco del caso, “incerto tempore incertisque locis”, suscita l’incontro fortuito (l’altro significato di coincidenza) da cui le cose hanno origine: deviazione dalla norma della verticalità, dal flusso regolare, scarto all’equilibrio in cui il Michel Serres lettore di Lucrezio (Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, 1980), ha scorto l’origine, non della scienza moderna, ma di quella contemporanea, quella della termodinamica di non equilibrio di Ilya Prigogine. È la rottura di simmetria a caratterizzare la chimica dei viventi (la dissimmetria cara a Roger Caillois e Primo Levi), e il dispiegarsi della vita sulla terra, grazie alle emergenze fortuite del cammino evolutivo, avviene per de-coincidenze successive. L’uomo ha aperto uno scarto nell’immanenza della processualità naturale, si è arrischiato al di fuori dell’adattamento all’ambiente, della Coincidenza acquisita: l’evoluzione della nostra specie serendipica è un percorso di contingenze, un susseguirsi di ex-attamenti in cui s’incrociano la continuità del passato e l’emergenza di nuove potenzialità.
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Vivere non è invecchiare, come voleva Bergson, è de-coincidere dal già vissuto: aprire una breccia nella normalità acquisita, incrinare l’ordine stabilito che si è sterilizzato in abitudine e conosce solo ripetizione senza differenza. È così che procede la storia del pensiero, per de-coincidenza dalle verità stabilizzate, ed è questa la vocazione dell’arte che introduce uno scarto rispetto al già visto: disfacendo l’adeguamento fattosi sterile (la scuola e l’accademia) l’arte si mette all’opera. Già a livello biologico la vita è orientata, separa ciò che assume valore dal negativo che respinge: “Vivere, anche per un’ameba, significa preferire ed escludere”, scriveva Georges Canguilhem (Il normale e il patologico, 1943, Einaudi, 1998). Vivere non è obbedienza a norme, ma normatività, capacità d’inventarsi e arrischiare una deviazione dissidente rispetto alla normalità che di per sé è portata ad adagiarsi nel torpore esistenziale. La coincidenza è la morte come equilibrio entropico, condizione sterile che Jullien definisce il “positivo”, nel senso in cui, all’epoca dei Lumi, si parlava di religione positiva, dogmatica e istituzionale: la Chiesa – “la grande Coincidenza ideologica” che ha bloccato per secoli l’Europa – ha convertito lo scandalo della Croce, la figura del Cristo (Grande De-coincidente, come Socrate e Simone Weil), in rigida osservanza che si è fatta intollerante. L’adeguamento finisce per saturarsi e immobilizzarsi, e il positivo ha bisogno del neg-attivo per rilanciare il processo. È quanto ha pensato Hegel: il negativo diviene l’ineguaglianza interna, o differenza di sé da sé, quell’estraneità a sé che porta il sé a superarsi. Lungi dall’essere una mancanza o un difetto, il negativo si presenta allora come l’anima o il motore del movimento interiore che fa progredire la coscienza. Ma nella Fenomenologia dello Spirito, la potenza del negativo viene concepita come inadeguatezza del sapere di fronte al suo oggetto, per cui la coscienza è condotta ogni volta ad abbandonare le figure a cui aderiva per poter giungere alla verità finalmente conforme al suo oggetto. La de-coincidenza interna resta in Hegel temporanea, destinata ad essere riassorbita nella conciliazione futura. In Jullien, la de-coincidenza è l’entropia negativa che incrina l’inerzia stabile dell’omeostasi intesa come saturazione priva di futuro, chiusura soddisfatta nella conformità (la convivenza della coppia, l’osservanza ideologica o religiosa, ecc.). La virtù della de-coincidenza sta nel dispiegare nuovi possibili: non agisce come superamento dialettico, fornisce un’apertura sull’aleatorio, delinea percorsi arrischiati in cui il vivere si reinventa e attiva nuove risorse.
Aprendo una crepa nell’ordine stabilizzato, la de-coincidenza fa emergere qualcosa di inedito e così il soggetto promuove la vita in esistenza: il latino teologico ex-sistere indica appunto il “tenersi fuori” dall’adeguamento-adattamento che ostruisce e satura e non lascia più spazio per inventarsi un futuro. In Politiques de la dé-coincidence (L’Herne, 2020), e poi in Riaprire dei possibili. De-coincidenza, un’arte di operare (2023, Orthotes, 2024, traduzione e cura di Rudi Capra), Jullien affida alla de-coincidenza non la sola funzione di rinnovare l’esperienza, ma anche quella di promuovere un’etica e una politica di emancipazione. Il concetto di alienazione non ha perso significato, anche se la potenza alienante non porta più il nome del Capitale, non è assunto da una persona contro cui possiamo schierarci, è ubiqua e pandemica. Passando dall’industriale al finanziario, e poi al digitale, il capitalismo si è fatto “discreto”: più che in forma di sfruttamento ed espropriazione, si presenta nelle vesti di una razionalizzazione che ci appare a tal punto conveniente da ottenere la nostra adesione. È la condizione che viviamo nel mercato globalizzato, nella connessione imposta che ha sostituito il collettivo, nell’apparato di una tecnicizzazione forzata che ci affida alle scelte degli algoritmi e a un’unica lingua, il globish funzionale alla pubblicità.
Jullien esorta a prendere atto che il nostro non è più il tempo in cui si possa coltivare l’illusione del “rovesciamento”: in filosofia, il nietzschiano “rovesciamento di tutti i valori” è approdato a una metafisica capovolta, quella della volontà di potenza, in politica, la suggestione della rivoluzione ha affascinato il nostro immaginario; prima di ritrovare il suo significato astronomico di ciclica ripetizione. “I domani non cantano più”, fatichiamo a credere a un futuro radioso, ad attivare quella potente arma teorica che l’Europa ha appreso dal platonismo, la costruzione di un modello ideale, il progetto di una Città futura (si veda L’Invenzione dell’ideale, Medusa, 2011). Anche il “rovesciamento” prospettato dal “pensiero della Differenza” si è risolto nella grande Coincidenza che ha dominato la filosofia di fine Novecento, senza costituire un’effettiva via d’uscita dall’ontologia. Lo attesta Gilles Deleuze quando gioca ancora con le modalità categoriali della metafisica, ipotizzando una profondità che sta sotto la superficie dei fenomeni – “la differenza è dietro a tutte le cose”. Il pensiero della differenza si esprimeva come denuncia del Potere “disciplinare” e della repressione che ne deriva, pronto a lanciare contro tutto l’accusa di fascismo in nome della liberazione del Desiderio (anche la lingua è fascista, diceva Barthes). Certo, il concetto deleuziano di differenza invita a pensare come primaria una molteplicità potenziale libera dal regno stagnante dell’identico, da cogliere nel suo slancio, come “formicolio dell’Essere”; echeggiando l’operazione di Jacques Derrida, Deleuze mirava a mostrare la differenza “che va differando”, quella différance che si lascia cogliere solo come tendenza o innesco di un processo. Ma l’esaltazione incantatoria dello stato di “rivoluzione permanente”, della disseminazione nella sua indole “caotico-erratica”, proposta da Deleuze, dà voce a una radicalità politica – sospetta Jullien – che non è più all’altezza del nostro tempo. Oggi non ci è più permesso il lusso della denigrazione o del Grande Sospetto (che è diventato l’arma dei neo-liberisti), oggi che gli organi del potere politico sono indeboliti, l’insegnamento delegittimato e la filosofia sepolta dalla pseudo-filosofia.
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Nel cantiere aperto della riflessione fra le lingue-pensiero della Cina e dell’Europa, Jullien ha fin da principio evitato il ricorso alla nozione di differenza che rischia di chiudere le culture in pretese identità, di isolarle in bolle non comunicanti. A differenza della Differenza, ha preferito la nozione di scarto: lo scarto non marca una distinzione, segnala una de-coincidenza, apre una distanza che mantiene in tensione le culture, facendo apparire un “tra” che apre la possibilità d’incrinare e perturbare i pensieri. Lo scarto è esplorativo, consente un confronto riflessivo in cui ciascuno si scopre e si pensa attraverso l’altro: diventa possibile un dia-logo, in cui il dia dello scarto che si svolge progressivamente rende possibile la ricerca di un logos, uno spazio comune d’intelligibilità. Per chi non accetta di smobilitare né di adeguarsi all’osservanza delle coincidenze ideologiche che inducono alla passività di fronte alla normalità pietrificata, per chi non attende il soccorso salvifico che giunga dall’esterno, la strategia proposta da Jullien è incrinare la positività propagando le sue fessure interne. Praticare la de-coincidenza significa intervenire attivamente là dove le linee di minore solidità della situazione mostrano crepe. Quel che soggiace a questa prospettiva è l’idea che il male coincida con la chiusura paludosa: l’importante è non fermarsi, rimettere in moto il processo e consentire a nuovi possibili avventurosi di andare a cercare fortuna nel mondo. Agisce qui l’intelligenza “strategica” della Cina (confuciana e taoista), che Jullien ha indagato in Trattato dell’efficacia (Einaudi, 1998): l’azione è obliqua, non punta allo scontro diretto con nemici che si sono fatti anonimi e diffusi, è discreta, non spettacolare e forzata, non invoca la Rottura, punta ad aprire un varco nell’inerzia del presente. La de-coincidenza si concepisce solo nella situazione, è singolare e localizzata, affida ad ognuno l’opportunità di promuovere iniziative che spezzano, per piccoli scarti successivi, la normalità coincidente, quella del pensare come quella del vivere. Non servono comandamenti né parole d’ordine: anche le migliori cause, in origine animate da un impulso innovativo, diventano coincidenti e ideologiche, si rovesciano in fattori paralizzanti, fatti propri dalle logiche del management: Precauzione e Sicurezza, Resilienza e Sostenibilità, Innovazione e Territorio, sono diventate nozioni falsamente consensuali che si prestano ad un assenso passivo e sfuggono alla riflessione. Jullien ha promosso un sito, association-de-coincidences.fr, che si offre come punto d’incontro, di riflessione e attivazione di stili di vita e pratiche di de-coincidenza – in ambito ecologico o nel con-vivere la città – che incrinano l’oppressione del Mercato e del Consumo, al fine di riaprire un comune condiviso.
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