La filosofia della vita di Canguilhem
Nel presentare le Œuvres complètes di Georges Canguilhem (1904-1995) – sei volumi editi da Vrin –, Jacques Bouveresse, noto studioso di Wittgenstein, si dice convinto che “l’opera filosofica ed epistemologica di Canguilhem sia più importante e resisterà meglio al tempo di quella della maggior parte dei discepoli che gli vengono attribuiti, compresi i più illustri”. Uno dei suoi allievi, Michel Foucault, introducendo nel 1978 l’edizione americana di Il normale e il patologico, sosteneva che, se si eliminasse la figura di Canguilhem dalla storia della filosofia francese del Novecento, non si capirebbe granché dei dibattiti che si sono svolti negli anni Sessanta e Settanta nell’ambito del marxismo e della sociologia, fra gli epistemologi e gli psicanalisti (il saggio di Foucault è in appendice all’edizione einaudiana del Normale e il patologico, 1998). Rispetto alla fenomenologia del soggetto e del senso, la via di Sartre e Merleau-Ponty, Canguilhem segue il cammino dell’epistemologia storica di Koyré e di Bachelard di cui sarà, dal 1955, il successore nella direzione dell’Istituto di Storia delle Scienze e delle Tecniche alla Sorbona; e lo fa interrogandosi sulle condizioni di possibilità di quel “razionalismo regionale” che è la biologia. L’occasione per accostarsi a una delle figure più feconde della filosofia del Novecento è offerta dalla recente pubblicazione presso l’editore napoletano Orthotes, e grazie alla cura sapiente di Filippo Domenicali, di due opere risalenti al 1952: Bisogni e tendenze e La Conoscenza della vita (la cui prima traduzione risale al 1976 per il Mulino), la tesi complementare, di cui è relatore Bachelard, per il secondo dottorato ès Lettres.
Un tempo, per iscriversi al concorso per l’insegnamento di filosofia, serviva il diploma di una facoltà scientifica e Canguilhem, allievo di Alain al liceo Henri-IV, opta per la medicina – lo ricorderà un discepolo che compirà analoga scelta, François Dagognet, in Georges Canguilhem. Philosophie de la vie (1997, il primo capitolo del saggio è riprodotto in appendice a Scritti sulla medicina, Einaudi, 2007). “La filosofia è una riflessione per la quale ogni materia estranea è buona, anzi potremmo dire: per la quale ogni buona materia deve essere estranea”, scriveva Canguilhem nell’aprire il Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico, la sua tesi di dottorato in medicina discussa nel ’43. Il pregio della “tecnica” medica è d’introdurre a “problemi umani concreti”, di restituire “la pienezza del reale”, aspetto determinante per una generazione che si riconosce nell’esortazione di Jean Wahl di muovere “verso il concreto”. Ma, sospetta Dagognet, Canguilhem è preda della stessa contraddizione che si ritrova in Alain: vede i rischi inerenti alle organizzazioni (esercito, scuola, fabbrica) e la nocività di quello che Foucault chiamerà il “disciplinare”; al tempo stesso è consapevole che tali insiemi collettivi inquadrano le esigenze degli individui e limitano i misfatti del soggettivismo. In altri termini, Canguilhem avverte che il rapporto fra ordine e progresso auspicato da Auguste Comte – era questo il tema a cui aveva dedicato la “memoria” del diploma di studi superiori nel ’21 – si è fatto conflittuale; l’ordine non garantisce più gli eccessi del progresso, a sua volta incapace di salvare il primo dall’immobilismo. Un altro asse incrocia quello comtiano, il nodo intricato di sapere e potere, quel potere di cui anche i medici sono investiti nei confronti dei pazienti. Nella conferenza dal titolo “Che cos’è la Psicologia?” (1956, poi in Études d’histoire et de philosophie de la science, Vrin, 1989), Canguilhem farà ricorso a un’immagine emblematica: lo psicologo che esce dalla Sorbona dalla rue Saint-Jacques può salire verso il Pantheon o scendere verso la prefettura di polizia.
Il Saggio del ’43 auspicava un mutamento dello “sguardo medico” che ponesse al centro il senso vitale della malattia: il suolo originario su cui s’impianta la medicina è la condizione esistenziale della patologia, il “corpo fremente” del malato. Nella tradizione “positivista” che Claude Bernard aveva reso vincente, la clinica è sottomessa al laboratorio d’analisi e l’ospedale si trasforma in una “fabbrica per cure” dove si promuove la domesticazione dei corpi. La malattia finisce così per ridursi a una differenza misurabile, per eccesso o difetto, rispetto a una “norma” stabilita nell’ambiente artificiale del laboratorio (norma è in latino la squadra, lo strumento di misura). Ma la vitalità dell’umano, obiettava Canguilhem, non si può ingabbiare in una presunta normalità “naturale” e immutabile; la salute non equivale ad obbedienza a criteri prefissati, si esprime invece nella capacità di creare nuove norme, in quella normatività che nella patologia non si cancella, anche se si riduce il gioco che ci rende capaci di esporci a nuovi ambienti.
Canguilhem non si dedica però alla professione medica, rientra a Strasburgo per insegnare e diventa dal ’48 Ispettore generale dell’istruzione pubblica per le classi di filosofia. Per l’editrice Hachette dirige la collana “Textes et documents philosophiques”, il cui primo volume è Bisogni e tendenze; altri ne usciranno fino al ’73, molti curati da allievi: nel ’53 Istinti e istituzioni di Deleuze (tradotto per Mimesis nel 2002) e Sciences de la vie et de la culture di Dagognet. La collana propone antologie di testi su questioni filosofico-scientifiche al fine di promuovere negli studenti l’analisi critica; in polemica con la moda dei manuali che svilisce in miseri riassunti la qualità del pensare, Canguilhem invita a cercare i problemi filosofici nell’esperienza, per consentire di acquisire un “pluralismo coerente di valori”. Bisogni e tendenze si apre con la domanda “Che cosa significa vivere?”, mentre la penultima sezione è dedicata al problema della tecnica, muovendo dalla tesi per cui il vivente, in base alla sua organizzazione interna, si ritaglia un universo adatto ai suoi bisogni. La vita, diceva il Saggio del ’43, è “istituzione inconscia di valore”, implica dunque scelta e giudizio. Il che significa, non solo opporsi a una biologia riduzionista (fisico-chimica), ma soprattutto sviluppare una filosofia dei valori che, evitando derive spiritualiste, si fondi sul senso biologicamente inteso, “apprezzamento di valori in relazione a un bisogno”. Giustamente Domenicali rileva che l’antologia appare come il necessario supporto testuale per illuminare il progetto tematizzato dalla Conoscenza della vita, delineare da una prospettiva inter-disciplinare una “filosofia biologica”. Centrale è il nodo conflittuale tra il vivente e il suo ambiente, un tema ispirato alle tesi di Kurt Goldstein; da lui il Saggio del ’43 accoglieva il principio “Non ci sono malattie, ci sono solo malati”, e non perché le prime non esistano, non per una questione di priorità, ma perché è attraverso i malati che le malattie si rivelano. A Goldstein rimanda anche la teoria olistica dell’organismo, a base gestaltica: la corporeità non è assemblaggio meccanico di parti, è totalità indissociabile, un tutto (olon) in cui sono le relazioni ad essere primarie, il che vale anche per la “teoria cellulare” (titolo di uno dei saggi di CV).
Il vitalismo di Canguilhem è una forma di resistenza all’illusione scientista che vorrebbe, anche in medicina, subordinare il biologico al meccanico, un tema su cui agisce la lezione di Bergson. Nel ’29, sul Journal di Alain era uscito un violento pamphlet di Politzer contro quel “cane morto” che appariva Bergson; nella recensione che gli dedica, Canguilhem condivide il rifiuto dei “miti dello stato di coscienza e della vita interiore”, “dottrina mortale per i ruminanti”. Ma un anno dopo la morte di Bergson, nel 1942, il ventottenne Canguilhem tiene all’università di Strasburgo un corso sul terzo capitolo dell’Evoluzione creatrice (1907), quello dedicato all’origine simultanea della materia e dell’intelligenza. Il Commento di Canguilhem è raccolto in Il significato della vita (Mimesis, 2006, a cura di Giuseppe Bianco,) in cui compare anche il testo del corso che Gilles Deleuze tenne su quel terzo capitolo nel 1960: testimonianza di un’attenzione costante per il pensiero di Bergson che dai saggi degli anni Cinquanta e Sessanta doveva portare a Il bergsonismo (1966) e alla ripresa della “scatola di attrezzi” concettuali negli scritti degli anni Ottanta dedicati alla semiologia cinematografica. Deleuze trae da Bergson la tematica della differenza di natura, e non di grado, tra organico e inerte: la molteplicità continua e vitale è un serbatoio creatore di diversità, in cui la ripetizione implica differenze – annuncio di Differenza e ripetizione (1967). Il Commento di Canguilhem traduce lo slancio bergsoniano nel farsi della vita, la cui comprensione sfugge ai criteri con cui le scienze fisiche affrontano la materia inerte; se conoscere significa analizzare e implica una presa di distanza dalla realtà – lo ricorda l’introduzione alla Conoscenza della vita –, la creatività del vivente realizza con la conoscenza il proprio inserimento nel mondo, ricerca la sicurezza attraverso la riduzione degli ostacoli. In tal senso, l’animale, se non il vegetale, sono già tecnici, il loro corpo è già uno strumento e l’uomo – ricorda il capitolo “Macchina e organismo” – è “in continuità con la vita attraverso la tecnica”. L’invenzione meccanica è un aspetto dell’organizzazione della materia da parte della vita; la tecnica rientra fra i comportamenti del vivente, come suggeriscono le analisi di Leroi-Gourhan sugli utensili primitivi – una tesi che ispira le riflessioni di un altro allievo di Canguilhem, Gilbert Simondon, in Del modo di esistenza degli oggetti tecnici (1958, Orthotes, 2020).
In “Aspetti del vitalismo” – una delle tre conferenze della sezione Filosofia della Conoscenza della vita –, Canguilhem ricorda che il vitalismo ha goduto di cattiva fama, anche perché connesso alla contro-scienza di matrice romantica e tedesca. In realtà, è una dottrina che ha conservato una sua vitalità, in quanto esprime l’esigenza, morale prima ancora che teorica, di rivendicare la fiducia nella spontaneità del vivente, in opposizione ad ogni forma di meccanizzazione della vita. In secondo luogo, il vitalismo va apprezzato per la sua fecondità, per le nozioni che ha promosso in biologia, e per la sua onestà, dato che non è né scientificamente retrogrado né politicamente reazionario. Sulla vita come valore, valore fragile per la sua vulnerabilità costitutiva, Canguilhem ha fondato la sua filosofia: alla vitalità, ha scritto Dagognet, ha affidato la funzione che Cartesio assegnava al cogito. Al Foucault di Nascita della clinica il vitalismo appare però un “concetto troppo gracile” – il libro esce nel 1963 nella collana “Galien” dedicata alla storia e alla filosofia della medicina, e diretta da Canguilhem presso la PUF, dove l’anno successivo compare La Raison et les remèdes di Dagognet, una storia bachelardiana della farmacologia. Nella prospettiva storico-genealogica di Foucault, la grande coupure che si produce tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento corrisponde al momento in cui della malattia si fa esperienza “oggettivata”. È a partire dalla dissezione del cadavere che si organizza la conoscenza della vita: “la notte vivente si dilegua alla chiara luce della morte”, ed è la morte, in quanto “possibilità interna alla vita ma più forte di essa”, a servire da punto di vista sul patologico. Non è dunque il vitalismo, ma il “mortalismo”, secondo Foucault, il fondamento della razionalità biologica, “l’a priori concreto dell’esperienza medica”. Nel ’66, il Foucault di Le parole e le cose ribadisce che prima dell’Ottocento “la vita non esisteva”, esistevano esseri viventi che apparivano nella griglia della “storia naturale”. Il mutamento di episteme che porta all’avvento delle scienze dell’uomo – i saperi della vita, del lavoro e del linguaggio – coincide con la formazione degli a priori storico-sociali che ripartiscono il campo dove s’insedierà la biologia. Ma, obietta Canguilhem, le foucaultiane “soglie di trasformazione” non segnano una coupure radicale; nella storia della biologia si mantiene una continuità di fondo, “un principio di conservazione tematica”, un a priori che è il “dato” della vita e il suo valore (la recensione di Canguilhem, apparsa su “Critique” nel luglio del ’67, si trova in appendice a Le parole e le cose, Rizzoli, 1967).
Nel progetto di promuovere una “filosofia della vita”, Canguilhem tornerà in più occasioni sul saggio del ’43; lo farà nel ’51 in un saggio raccolto nella Conoscenza della vita, poi in un corso del ’63, e ancora nel ‘66, in “La vita e il Concetto” (raccolto in Études d’histoire et de philosophie des sciences). Il rapporto fra normale e patologico viene riletto alla luce degli sviluppi della biologia molecolare, per la quale la trasmissione dell’informazione genetica esprime l’invarianza, l’isola d’ordine grazie alla quale l’organismo si conserva per auto-riprodursi contro la deriva entropica. Il concetto risulta materialmente iscritto, conservato e trasmesso, come “a priori morfogenetico” e “oggettivo”, nei processi dei viventi; il male stesso appartiene alle radici dell’organismo, è un errore di trascrizione, un malinteso, non di per sé anormalità, perché il valore patologico può sorgere soltanto dal rapporto fra organismo e ambiente. La nozione di errore consente a Canguilhem (“filosofo dell’errore”, lo ha definito Foucault) di edificare la conoscenza della vita sull’oggetto che essa rivela; anche la vita procede per essai ed échec (per tentativi ed errori, direbbe Popper, in analogia al procedere del vivente), nel débat che l’organismo intrattiene con il mondo. L’informazione vitale si trasmette sempre al rischio di mutazioni, ma si tratta di errori “di tentativo o di prova”, produttori di novità o di mostri, magari speranzosi (“La mostruosità e il mostruoso” è il titolo dell’ultimo saggio della Conoscenza della vita). Se la vita sconcerta la logica dell’identità e della non contraddizione, il concetto, lungi dal possedere la cristallina solidità che Bergson attribuiva alla fatica dell’intelletto, deve restituire il processo continuato di formazione, deformazione e rettifica su cui ha insistito l’epistemologia storica di Bachelard. La vita stessa si lascia conoscere solo attraverso i suoi errori, in quei valori vitali negativi che la intralciano: lì essa rivela la sua costitutiva incompiutezza e precarietà, e al contempo manifesta l’impulso a perseverare nel proprio essere, a risvegliare la potenza di esistere. La malattia, la mostruosità e la morte sono i limiti interni alla vita, stati di crisi in cui la vita giunge al suo valore più alto, dove si esprime la priorità dell’infrazione sulla regolarità. L’uomo è tale per una serie di errori ereditari: l’evoluzione ha condotto a un vivente capace di errore, all’erranza dell’uomo, in cui la consapevole fallibilità del sapere prosegue la fallibilità della vita. “La storia della conoscenza non è altro che la storia degli errori e delle vittorie sull’errore” ed essere soggetti della conoscenza significa solo essere insoddisfatti del senso trovato: “la soggettività allora è unicamente l’insoddisfazione. Ma forse è proprio questo la vita”.