Il Saggiatore di Galileo Galilei
“Isti mirant stella”: la scritta con cui l’arazzo di Bayeux illustra il passaggio di una cometa suona come presagio della sconfitta del sovrano anglo-sassone nella battaglia di Hastings del 1066, quando si compie la conquista normanna dell’Inghilterra. L’apparizione di una cometa poteva essere interpretata anche come epifania del divino: Giotto, impressionato da quella del 1301, la raffigura nell’adorazione dei Magi della Cappella degli Scrovegni, anche se la stella di cui parlano i Vangeli era probabilmente un caso di congiunzione planetaria. In entrambi i casi si trattava del passaggio della cometa che porta il nome di Edmond Halley, lo scienziato che, osservandola nel 1682, ne predisse il ritorno nel 1758. Nell’epoca dei Lumi, la periodica visita (circa ogni 77 anni) di quel “mostro” celeste agli abitanti della Terra diede conferma del sistema del mondo newtoniano; da segno di sconvolgimento dell’ordine cosmico, la cometa finiva per ritrovarsi schiava obbediente dei vincoli imposti dalla gravitazione. Non finirà per questo il terrore meravigliato suscitato dalla sua comparsa; nel 1910 saranno alcuni scienziati a predire la possibile fine del mondo, per l’errata supposizione che la Terra avrebbe attraversato la coda della cometa, ricca di gas venefici – lo ricordava il romanzo dedicato alla vita di Dino Campana, La notte della cometa di Sebastiano Vassalli (1984).
L’apparizione di comete e stellae novae negli anni Settanta e Ottanta del Cinquecento infligge un duro colpo all’universo aristotelico-tolemaico, dato che il loro percorso smantellava gli orbi solidi in cui si credevano incastonati i pianeti. Era questa la conclusione a cui era giunto l’astronomo alla corte praghese di Rodolfo II, Tycho Brahe, che aveva proposto un nuovo sistema in cui attorno alla Terra, immobile al centro dell’universo, si muovevano la Luna e il Sole, attorno al quale ruotavano i pianeti. Dall’agosto 1618 tre comete fanno la loro comparsa nei cieli d’Europa, proprio in coincidenza con lo scoppio della Guerra dei Trent’anni. Ma ora esiste la possibilità di osservarle con il cannocchiale che Galileo Galilei ha rivolto al cielo pochi anni prima – Massimo Bucciantini, Michele Camerota e Franco Giudice ne hanno ricostruito con rigore la storia in Il telescopio di Galileo (Einaudi, 2012). Lo strumento ottico, già noto ad artigiani olandesi, nel 1609 viene perfezionato da Galileo nel suo laboratorio-officina di Padova, dove insegnava dal 1592 alle dipendenze della Repubblica di Venezia. “Uomo dotto ma di mani sagaci”, recita il verso centrale di “Sidereus nuncius”, una poesia che Primo Levi nel 1984 dedica allo scienziato pisano: Galileo è filosofo naturale, intellettuale con una solida formazione umanistica, e insieme “vile meccanico”, artigiano abile a progettare e costruire strumenti, compassi geometrici, calamite “armate”, trapani e termoscopi, bussole e orologi, utili a mercanti e navigatori, messi a disposizione della Serenissima perché ne tragga “benefizio” anche a scopi militari. La mattina del 21 agosto 1609 Galileo offre dimostrazione del suo cannocchiale a un gruppo di notabili del patriziato veneziano, raccolti in cima al campanile di san Marco – lo ricorda Bucciantini nel volume edito dal Saggiatore nel 2023, In un altro mondo, che mette in parallelo l’opera di Galileo, di van Gogh e di Primo Levi.
“L’occhiale lungo” di Galileo, composto da una lente concava e una convessa, ai lati opposti di un lungo tubo di legno, aveva la capacità d’ingrandire fino a 30-40 volte rispetto alle 3-4 degli altri telescopi in commercio. Galileo non è il primo a volgerlo verso il cielo per ascoltare “l’annuncio delle stelle”, il Nuncius sidereus in cui darà notizia nel 1610 delle sue visioni notturne. Altri, come l’inglese Thomas Harriot, avevano guardato il cielo senza vedere quel che Galileo vide; per sconvolgere l’immagine dell’universo allora accreditata bisognava avere “occhi nella fronte e nel cervello”. La superficie della Luna risulta ricca di anfratti e montagne, simile quindi a quella imperfetta della Terra; Venere possiede delle fasi come quelle lunari, Saturno mostra “rigonfiamenti”, Giove è accompagnato da altre stelle, quei satelliti a cui Galileo darà il nome di pianeti medicei per ingraziarsi i principi della Firenze in cui sta per tornare. Quel “nuovo cielo” che si apre allo sguardo dell’esploratore, come lo era stato più di un secolo prima il “nuovo mondo” delle Americhe, suona conferma della dottrina copernicana: il moto della Terra in orbita attorno al Sole poneva fine alla rigida separazione cara alla tradizione cristiana fra la “corruzione” del divenire terreno e la perfezione cristallina dei cieli. Già dal 1597 Galileo si è schierato a favore di “un copernicanesimo silenzioso”; lo attesta una lettera a Keplero in cui ringrazia per l’invio di una copia del Mysterium cosmographicum, l’opera che delineava l’ordine geometrico eliocentrico imposto da Dio al cosmo. A Keplero, erede di Brahe a Praga e massimo esperto nel campo dell’ottica, Galileo si rivolge anche per meglio comprendere i principi del funzionamento del suo “temerario vetro”; Keplero pubblica la Diottrica nel 1611, ma ritiene le scoperte galileiane il frutto di un abile lavoro artigianale, privo dei fondamenti filosofici e cosmologici che ispirano il suo misticismo geometrico – ricorda Bucciantini in Galileo e Keplero (Einaudi, 2003).
Il successo internazionale del Sidereus nuncius, unito al riconoscimento della validità delle scoperte da parte di studiosi eminenti del mondo cattolico, induce Galileo a promuovere la campagna a favore del sistema eliocentrico per difenderlo dalle accuse di inconciliabilità con le Sacre Scritture; lo farà nelle Lettere copernicane del 1613-15, subendo però una denuncia al Sant’Uffizio da parte di due domenicani. Nel 1616, su espresso ordine di papa Paolo V, Galileo viene convocato dal cardinale Bellarmino, che aveva condotto il processo contro il copernicano “infinitista” Giordano Bruno, “arrostito”, diceva Gadda, a Campo dei Fiori nel 1600. Il cardinale, dopo aver notificato che i consultori del Sant’Uffizio hanno decretato la teoria eliocentrica “formalmente eretica”, “ammonisce” Galileo il quale s’impegna a non divulgare la tesi del moto della Terra. Sembra spegnersi la speranza di promuovere una nuova cultura cattolica, non più ancorata alla tradizione aristotelica, ma sintonica al nuovo pensiero scientifico: una strategia “politica” in cui Galileo è la punta prestigiosa di un “partito” che ruota attorno all’Accademia dei Lincei, fondata dal principe Federico Cesi nel 1603 e a cui aderiscono figure eminenti della Curia romana. Alla comparsa delle comete nei cieli d’Europa nel 1618, Galileo viene subissato di richieste per averne un parere, ma l’artrite gli impedisce sia di dedicarsi alle osservazioni al telescopio che di scrivere. Intanto il padre gesuita Orazio Grassi, astronomo, studioso di ottica e architetto – a lui si deve il progetto della chiesa romana di Sant’Ignazio di Loyola –, tiene conferenze, poi date alle stampe, in cui sostiene che le comete sono veri corpi celesti, il cui moto regolare si svolge in una posizione intermedia tra la Luna e il Sole. Aristotele, la cui dottrina era pur sempre alla base del sistema educativo dei Gesuiti, si era dunque sbagliato nel giudicare le comete fenomeni meteorologici, sottostanti il cielo della Luna, causati dalla combustione di esalazioni terrestri. Senza affermarlo in modo esplicito, l’argomentazione di Grassi finiva per accogliere il sistema del mondo di Tycho Brahe, il “minimo” rispetto ai due “massimi”, tolemaico e copernicano, su cui Galileo tornerà nel Dialogo del ’32; se il cosmo di Aristotele cominciava a incrinarsi, per il mondo cattolico più avvertito la dottrina tychonica era l’unica “guida per orientarsi tra gli ignoti sentieri degli astri”.
La proposta di Grassi non mancava d’insinuazioni malevole verso Galileo senza citarlo – “a questi occhi di lince rimanevano da osservare soltanto le comete” –, ma soprattutto rischiava di chiudere ogni speranza di rilanciare la dottrina copernicana. Lo scienziato pisano affida la replica allo schermo del suo discepolo Mario Guiducci, autore nel ’19 di un Discorso delle comete, a cui nel giro di pochi mesi padre Grassi rispose con la Libra astronomica ac philosophica in cui si nascondeva dietro l’anagramma imperfetto di Lotario Sarsi. Andrea Battistini (1947-2020) – per decenni docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna – aveva buone ragioni, nel suo Galileo Galilei (Laterza, 1989), di definire la polemica “Un altro ballo in maschera”. Stanco del gioco a nascondino e del silenzio impostogli dal ‘16, Galileo prepara la sua risposta, concordata con lo stato maggiore dei Lincei: ed ecco il Saggiatore, cioè la “bilancia esquisita e giusta” con cui si accertava la purezza dell’oro, in contrasto con la “libra”, la grossolana stadera, dell’avversario. Il libro, di cui per celebrare i quattrocento anni dalla comparsa è stata proposta una meritoria edizione, commentata e introdotta da Camerota e Giudice (Hoepli), attese la “mirabil congiuntura” del ’23 per vedere la luce. Da poco era salito al soglio pontificio, con il nome di Urbano VIII, Maffeo Barberini, mecenate che aveva espresso pubblico apprezzamento per le ricerche di Galileo (anche se sarà lui a farlo condannare nel 1633 per la difesa del copernicanesimo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo).
Non è casuale la scelta galileiana di servirsi della lingua italiana, sotto forma di lettera inviata a Virginio Cesarini, intellettuale convertito alla nuova filosofia naturale e leader riconosciuto dell’Accademia. È il segno di una ragione aperta, che ha bisogno di confrontarsi quasi in forma di dialogo, in un puntuale commento del libro di Grassi-Sarsi, scritto in un latino infarcito di sillogismi, tipico dell’auctoritas della tradizione. E poco conta che Galileo sostenesse la tesi errata che le comete erano esalazioni emesse dalla superficie terrestre che, giunte in linea retta alla regione celeste al di sopra della Luna e illuminate dai raggi solari, apparivano come corpi reali. La tesi, che poteva sembrare paradossalmente un ritorno alla dottrina aristotelica, era la conseguenza delle torsioni teoriche a cui Galileo era costretto nel tentativo, notano i curatori, di far valere le ragioni del copernicanesimo. Grassi non aveva mancato di scagliare minacce non troppo velate nei confronti di Galileo, “persona pia e devota” che non può certo accogliere un’ipotesi condannata; Il Saggiatore non poteva che giudicare “falsissimo e nullo” il moto della Terra, ma ricordava che l’apparente traiettoria rettilinea delle comete si poteva spiegare con il moto annuo di rivoluzione della Terra attorno al Sole – come Keplero aveva fatto nel 1604 e ribadito nel ’18.
Galileo propone la sua dottrina cometaria come ipotesi probabile, in grado di spiegare quanto rilevato nelle osservazioni; il suo è un invito alla cautela epistemologica, a non affermare per certo se non quanto “sappiamo indubitamente”. È quel che suggerisce la “favola dei suoni”: un curioso viaggiatore pensa di aver compreso come si producono tutti i suoni, prima di ascoltare il verso di una cicala che gli era sconosciuto: “e la difficoltà dell’intendere come si formi il canto della cicala, mentr’ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta lontananza si generi la cometa”. Interrogare la natura è un’avventura picaresca – nella biblioteca di Galileo non mancavano il Don Chisciotte e il Lazarillo da Tormes –, significa uscire di casa per recarsi fra i pastori e all’osteria; altri studiosi si ricoverano in un “asilo”, si limitano a rivoltar poche carte trincerandosi dietro i testi dei filosofi del passato, costretti però a cedere al primo assalto di fronte alla “severità di geometriche dimostrazioni”. Al principio di autorità della tradizione, che rende il nostro intelletto schiavo, “mancipio”, della cultura libresca delle università, al “mondo di carta” di cui parlerà il Dialogo, Galileo contrappone la rivendicazione della piena autonomia nell’indagine sulla natura, svincolata da imposizioni dottrinali. Di qui, nel Saggiatore – vero “manifesto intellettuale” della nuova scienza – l’immagine famosa dell’universo come “grandissimo libro” i cui caratteri sono triangoli e cerchi, scritto nel “dialetto di Dio”, nella lingua matematica senza la quale continueremmo ad “aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. La metafora era già stata utilizzata nelle Lettere copernicane, per contrapporre all’inesorabile oggettività dell’alfabeto geometrico della Natura il linguaggio dei sensi utilizzato nella Bibbia per rendersi comprensibile “all’incapacità del vulgo”. Andrea Battistini ha osservato che la natura viene così assimilata al libro stampato che la rivoluzione di Gutenberg ha trasformato in costruzione regolare, in un insieme discreto di “caratteruzzi” che si combinano per comporre la grammatica del mondo. La decifrazione della Bibbia era consentita solo a profeti e visionari, trattandosi di un volumen che si srotola per una visione mistica, com’era in Dante: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna” (Paradiso, XXXIII). Il libro galileiano non è involutus, avvolto su se stesso, sigillato per chi non riceve la grazia di Dio, ma “perpetuamente ci sta aperto innanzi agli occhi”, cioè la conoscenza della natura è un sapere accessibile a tutti, notava Hans Blumenberg in La leggibilità del mondo (Il Mulino, 1984).
Il Saggiatore non venne mai proibito dalle autorità ecclesiastiche, anzi venne accolto “con gran culto” da Urbano VIII che se lo faceva leggere a tavola, ridendo delle punture dell’ironia galileiana. E certo avrebbe gradito i “delicati complimenti” che Galileo affida alle glosse ai margini del libro di Sarsi: “Tu sei un solennissimo bue”; “Dallo stomaco si sollevano vapori torbidi, e saliti al cervello, congiungendosi con fantasmi alterati, partoriscono mostri e chimere”. Eppure il Saggiatore era un libro scomodo, per la nuova visione di una natura matematizzata, ridotta a moti di particelle materiali, e da cui era assente ogni prospettiva finalistica. Galileo vi espone anche una dottrina delle qualità sensibili che, in radicale contrasto con la tradizione scolastica e il De anima di Aristotele, indicava come proprietà oggettive il moto, la figura e la grandezza, cioè quelle geometrico-meccaniche, misurabili e quantificabili (Boyle e Locke le diranno qualità primarie). Colori, suoni, odori non sono più qualità inerenti ai corpi, senza la percezione di un soggetto non hanno realtà, sono puri nomi. Una distinzione che aveva le sue origini nel materialismo degli atomisti antichi e infatti Pietro Redondi, nel suo Galileo eretico (Einaudi, 1983), ipotizzava che la condanna del 1633 non fosse dovuta alla difesa del copernicanesimo, ma alle implicazioni della dottrina delle qualità, incompatibile con il dogma eucaristico della transustanziazione, fortemente riaffermato dalla teologia cattolica dopo la Riforma luterana. Redondi fondava la sua ipotesi sul ritrovamento, nell’archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, di una denuncia anonima della primavera del ’24, da lui attribuita al Grassi che, nella replica al Saggiatore, la Ratio ponderum librae et simbellae del ’26, alludeva alle implicazioni eretiche della dottrina delle qualità sensibili. Ma sono accuse che cadono con ogni probabilità nel vuoto, affermano in modo persuasivo Camerota e Giudice.
Nella biblioteca del don Ferrante manzoniano c’era un posto per Il Principe ma non per il Saggiatore, ricordava Carlo Emilio Gadda che allo stile di pensiero e di scrittura dell’“acre e penetrante empirista Mediceo-Lorenese” non mancava d’ispirarsi. Anche per la scaltra abilità di levare “l’edificio del giudizio sopra una sola frase o parola accattata sagacemente e poi diabolicamente inserita nel testo, a dileggio ed a confusione de’ frodatori” (I viaggi e la morte). Il linguaggio di Galileo, cultore di lettere a cui non sono estranee le tecniche retoriche e argomentative della logica, è un linguaggio figurato; nel Saggiatore spesso ci si rivolge all’interlocutore con la formula “Si immagini …”, si fa ricorso ad esperimenti mentali, a metafore in cui spicca la virtus imaginativa, anche per sfuggire ai “tenebrosi e confusi laberinti” in cui si smarrisce la sofistica degli aristotelici. La nuova scienza ha bisogno delle invenzioni della fantasia per abbattere le rigidità dogmatiche della tradizione. Galileo è anche un politico della scienza, il primo grande divulgatore, abile a comunicare attraverso una strategia linguistica adatta al pubblico, ricorda Massimo Bucciantini in Siamo tutti galileiani (Einaudi, 2023). Lo sapeva bene Italo Calvino, un altro difensore di una visione unitaria, scientifico-umanistica, della cultura, in contrasto con chi riduce la scienza ad abilità ed efficienza, a produzione tecnologica. Galileo “meriterebbe d’essere famoso come felice inventore di metafore fantasiose quanto lo è come rigoroso ragionatore scientifico” (Una pietra sopra).