Primo Levi magico e darwinista

15 Dicembre 2024

L’unitas multiplex dell’identità “primoleviana” (per dirla con Calvino) emerge con sempre maggiore ricchezza dai recenti studi critici: una figura poliedrica (lo ha spiegato Marco Belpoliti in Primo Levi. Di fronte e di profilo, Guanda, 2015), in cui convivono lati stridenti rispetto al testimone “pacato” dello sterminio. Nel neo-illuminista che esorta alla comprensione razionale, nel “tecnico” che affida alla scrittura la chiarezza dei rapporti di laboratorio, nel sostenitore “tardo positivista” dell’efficacia della scienza, vi è una persistente attrazione per il “pensiero magico”: è quanto mostra Robert Gordon, ordinario d’Italianistica all’Università di Cambridge, in Primo Levi magico. Meraviglia, mistero, cosmo (Carocci, 2024), raccolta di saggi composti fra il 2017 e il 2023, alcuni apparsi sulle pagine di Doppiozero. Non si tratta di un lato oscuro del pensare di Levi, è il “controcanto al fermo realismo empirico”, scrive Gordon; costituisce la componente “romantica” che accompagna lo sguardo del ricercatore, lo stupore di fronte al mistero dell’universo che attende di essere esplorato e, forse, decifrato dalla ragione. La sensazione di meraviglia rimane viva nei “fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile”, ricordati nella premessa a L’altrui mestiere, la raccolta di saggi frutto del suo “vagabondaggio di dilettante curioso” in territori di cui Levi subiva la fascinazione, secondo il modello ottocentesco del gentleman scientist. Il lessico della meraviglia non ricorre spesso in Levi, più abituale è la nozione di “mistero” – in particolare nel Sistema periodico, definito nel 2006 dalla prestigiosa Royal Institution of Great Britain “il miglior libro scientifico di tutti i tempi” – per indicare lo slancio avventuroso con cui affrontare la durezza astuta della materia. Nel capitolo “Idrogeno”, l’entusiasmo del sedicenne che scopre la vocazione per la chimica si esprime nella volontà di dragare “il ventre del mistero”; si può sfuggire così alla “mostruosa congiura” ordita dalla scuola che, in nome di una filosofia acosmista, dimentica del mondo, privilegia nauseanti discorsi sul problema dell’essere e del conoscere, senza poter offrire la chiave per “i sommi veri” (era questo il titolo del testo di Religione adottato al Liceo). “Tutto intorno a noi era mistero che premeva per svelarsi: il legno vetusto dei banchi, la sfera del sole di là dai vetri e dai tetti, il volo vano dei pappi nell’aria di giugno”.

I luoghi del mistero leviano sono soglie di passaggio, come i “misteriosi minareti” dell’Istituto chimico torinese o le sale affumicate dei laboratori piene di “polvere e fantasmi secolari”. In questi spazi d’iniziazione alla rigorosa ricerca, in cui si celebrano i riti dei “trasmutatori di materia”, non si cancellano le tracce magico-sacrali delle origini ignobili della chimica. Nell’“incanto selvaggio” della miniera – il Levi neolaureato vi lavora nel ’41, come racconta il capitolo “Nichel” –, le viscere della terra sono popolate di “gnomi, coboldi (cobalto!), niccoli (nichel!)”. Il sapere tecnico-scientifico risveglia le suggestioni alchemiche dell’estrazione dei metalli, evocate nei racconti “Piombo” e “Mercurio” che Levi abbozza già prima della deportazione. Lo stupore, osserva Gordon, è connesso alla meraviglia poetico-religiosa della scoperta dei legami fra le cose in natura, al ritrovamento di un ordine mirabile nel caos apparente dell’universo: la “gioia sobria” che provarono Mendeleev e Darwin. “Ma si rimane attoniti, e percossi da una meraviglia quasi religiosa, nel leggere che alcuni migratori, che volano solo nelle notti serene, non solo orientano il loro volo sulle stelle, ma dalla configurazione del cielo ricavano con precisione il punto in cui si trovano” (nel saggio “Le più liete creature del mondo”, il cui titolo è un omaggio a Leopardi, presenza ricorrente negli ultimi scritti leviani).

Ad essere gravido di mistero è soprattutto il futuro che si sprigiona inavvertito dalle invenzioni della tecnologia, sempre sospesa tra speranza e turbamento. Di qui le tante narrazioni fantastiche leviane in Storie naturali e Vizio di forma: un vasto catalogo di situazioni mostra il perturbante risvolto che insidia la banalità quotidiana, molteplici personaggi si stagliano sul confine “centauresco” fra umano e animale, fra l’inerte e l’organizzato, come la rete telefonica che acquista auto-coscienza e controllo sugli umani in “A fin di bene”. Le “distorte creazioni” tecnologiche suonano come profetiche anticipazioni dell’oggi: il Versificatore scrive poesie come oggi farebbe l’IA, il Torec è un apparecchio per la realtà virtuale, il Mimete una fotocopiatrice tridimensionale che dalla materia inanimata crea la vita. A farne propaganda, è il signor Simpson, agente di commercio esperto nelle tecniche di vendita; “incapace di meraviglia”, fa balenare i possibili profitti delle invenzioni della sua ditta, ignorandone le potenzialità rischiose. Ad affascinare Levi è che anche il potere stregonesco, sorto dall’esigenza antropologica di darsi un segreto controllo del mondo; il racconto “Gli stregoni” (in Lilìt) pone a confronto l’abilità dello sciamano di una tribù “primitiva” con il sapere inefficace degli etnografi. “La strega” è il titolo di una poesia risalente al marzo del ’46, nello stesso periodo della stesura della parte centrale di Se questo è un uomo. Vi si evoca il rito di costruzione dell’effigie viva dell’uomo amato, uno dei tanti esempi leviani del carattere incantatorio dell’immagine e del doppio; il protagonista del Fabbricante di specchi costruisce uno “specchio metafisico” da applicare sulla fronte di chi incontra per vedere quale immagine restituisce di sé. Lo Psicofante dell’omonimo racconto è un apparecchio su cui basta porre una mano per vederne emergere la propria immagine interiore. Interrogazione “filosofica” sull’ambiguo mistero dell’identità propria e altrui, ma insieme perplessità etica di fronte alla magia della scrittura nel “trasformare” una persona di carne in un personaggio – come Lorenzo, il muratore che, rischiando la vita, diede cibo a Levi in Lager –, nel rinchiudere in un’immagine definitiva come una condanna a morte la fluidità sfumata dell’esistenza.

k

Il pensiero magico ha componenti apotropaiche, serve a proteggersi con scongiuri e superstizioni dagli incerti del mondo, dal gioco arbitrario del caso; e Levi, uno dei massimi esperti nella produzione di vernici, ne immagina una che sostituisce corni e amuleti per opporsi alla sventura (“Tantalio”, in Lilìt). A quanti vorrebbero affidare all’abilità o alla Provvidenza la sua “salvazione” in Lager, Levi ha sempre replicato che è stata la fortuna (il termine che apre Se questo è un uomo) ad essere determinante: là dove “si muore per un sì o per un no”, è “l’ago dello scambio, la piccola causa dagli effetti determinanti” a separare il destino di Levi da quello dell’amico Alberto, il suo doppio, “campione” analogo nell’atroce esperimento del Lager (Gordon lo ha ricordato in “Sfacciata fortuna”. La Shoah e il caso, 2010, nella Collana einaudiana “Lezioni Primo Levi”). Nel gennaio del ’45 una “provvida” scarlattina – che Alberto aveva avuto da bambino – costringe Levi a letto febbricitante; viene lasciato nel campo quando i nazisti spostano i prigionieri “verso Occidente” nella “marcia della morte”. Nell’atroce “scienza dei numeri di Auschwitz”, i sopravvissuti erano spesso i peggiori, i più scaltri e privi di scrupoli, oppure quelli a cui aveva arriso la sorte: la fortuna è una variante del caso nel percorso dell’evoluzione e Darwin è autore rilevante del Levi liceale, lettore attento delle collane di divulgazione scientifica “Cultura d’oggi” (Mondadori) e “Avventure di pensiero” (Bompiani) – regali a Primo del padre ingegnere. Su quei libri della popular science ha condotto uno studio rigoroso e accurato Simone Ghelli, La vita è ingiusta. Il doloroso darwinismo di Primo Levi (Istituto italiano per gli studi filosofici Press, 2024). Sono opere di medici, chimici e biologi in cui si avverte l’eco del dibattito sull’eugenetica del primo Novecento; con tratti romantico-positivisti, rivendicano la necessità della lotta umana contro la morte e la sofferenza, frutti inevitabili dell’avventura precaria della materia vivente. La lettura in inglese del Mondo invisibile (1846) del gentiluomo G.A. Mantell fu una “folgorazione”: suscita in Levi la passione duratura per l’universo in miniatura pullulante di vita che svela i suoi segreti al microscopio, altro dono paterno. Ne offre testimonianza il manoscritto del Doppio legame, l’opera interrotta dalla morte che Levi iniziò a scrivere nel 1986: “Finché avrò vita, continuerò a meravigliarmi non solo delle uova, ma anche delle mosche, dei poliedri, dei granelli di polvere e dei ciottoli dei torrenti … Non esiste oggetto che non desti meraviglia o curiosità, purché sia esaminato con l’occhio a fuoco e con sufficiente ingrandimento”. Siamo nel solco tracciato da Darwin che, nel suo ultimo libro (1881) dedicato ai lombrichi, ricordava che la massima “de minimis lex non curat” non si applica alla scienza. La lente con cui osserva la realtà oscilla in Levi dalla scala sub-atomica, dagli animalculi ricorrenti nel bestiario leviano, all’universo svelato dai viaggi spaziali. Di qui, rileva Gordon, il trascorrere spaesante dalla “risibile” scala umana a quella cosmica, per far scattare la consapevolezza pascaliana della miseria della nostra specie – magari osservando da una stella la Terra, “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Dante) –, insieme alla nobiltà degli sforzi per rendere il mondo permeabile alla ragione.

Molti sono i testi passati in rassegna dall’indagine di Ghelli e molte le sorprese date dalla scoperta di citazioni nelle pagine leviane. Sulle tematiche affrontate agisce il filtro dell’evoluzionismo: si tratti del conflitto interno all’umano fra gli istinti animaleschi e le aspirazioni morali, della “psicologia animale” tracciata nei Mondi invisibili da Jacob von Uexküll, uno dei padri dell’etologia, o ancora dell’evoluzione del cervello nelle scimmie antropomorfe e dell’utilizzo delle mani. Il darwinismo penetra in Levi anche attraverso la letteratura di fantascienza, da Jack London ad Aldous Huxley, e in particolare attraverso Erewhon di Samuel Butler (1872, tradotto in italiano nel 1928), dove emerge il tema, che tornerà in tanti racconti leviani, del sopravvento della volontà della macchina sull’uomo, come pure l’idea che l’evoluzione della tecnologia segua lo stesso andamento di quella del vivente. A incidere sulla formazione naturalistica di Levi è la lettura diretta della Origine delle specie (1859) intorno al ’34, ma soprattutto di The Descent of Man (1871): col ricorso a svariate spie testuali, Ghelli mostra quanto essa abbia influito sia nell’interpretazione della condizione dell’animale-uomo nel Lager, sia nella “genealogia naturalistica del senso morale”. La formula dagli echi danteschi “i sommersi e i salvati”, a cui Levi aveva pensato per il suo primo libro e che terrà per il suo ultimo, rimanda, in senso darwiniano, all’idea di un “setaccio” che separa idonei e non idonei in quella “gigantesca esperienza biologica e sociale” che fu Auschwitz: non una mera regressione allo stato di natura hobbesiano nel quale non esistevano leggi, ma selezione “alla rovescia”. Il Levi degli anni Settanta insiste, sulla scia di quel “darwinista convinto” che era Konrad Lorenz (Il cosiddetto male), sull’idea che il pregiudizio razziale sia di origine animalesca, un fatto zoologico sorto da “un impulso irrazionale, di natura intimamente biologica”. Nella nostra specie di animali sociali si sviluppa una socialità a corto raggio, quella che, da erede di Hume e di Adam Smith, Darwin chiamava “simpatia”. Ma questo istinto sociale tende a includere solo i simili, è un egoismo esteso a chi ci è più vicino – Levi lo chiama “nosismo”; induce a considerare nemico ogni straniero, a sviluppare forme di gregarismo e di fanatica obbedienza che portano allo sterminio intra-specifico, una pratica assente fra gli animali. L’umanità dell’uomo consiste nel contrastare certi istinti che sono parte della nostra eredità animale: se la “legge iniqua” della vita ha per effetto di eliminare i più deboli, l’incivilimento tende a frenare i meccanismi che portano i miseri a soccombere.

È dal punto di vista della vittima sofferente che Levi, “teorico della biochimica morale”, come lo definì Philip Roth, guarda all’ingiustizia che governa la biosfera, a quel dolore che “non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano […] è tutt’uno con la vita, ne è il custode” – l’affermazione è nel racconto Versamina (Storie Naturali), dal nome della sostanza analgesica progettata da scienziati nazisti. Il male, come la morte, è iscritto nella natura, ribadisce Levi con accenti leopardiani; la vita è lotta vana per resistere all’entropia, “disegna un’ansa” (dice il racconto “Carbonio” che chiude Il Sistema periodico) che resiste, più o meno a lungo, al flusso del “brutto potere” della degradazione inevitabile. Darwin pensava alla civiltà come processo di estensione graduale della simpatia a nuclei di solidarietà sempre più ampi per contrastare il meccanismo della selezione, fino ad includere tutti gli esseri capaci di provare quel dolore che governa la “vita ingiusta”. Il fondamento materiale della morale, osserva Ghelli, è per Levi il cum-patire; per evitare che si diffonda la peste di Auschwitz, connessa all’indifferenza “ottusa e cinica” per il dolore altrui, occorre un’etica che affondi le sue radici nella “povera carne sofferente dell’umanità” (per dirla con Germaine Tillion). Ripensando agli ultimi giorni nel Lager, Levi data al momento in cui presta aiuto a malati e moribondi “l’inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Haftlinge siamo lentamente ridiventati uomini”. La coscienza del dolore infrange il “muro cartesiano” che ci separa dagli altri viventi: è un cogito rovesciato – soffro dunque sono – a farsi principio fondativo dell’etica naturalistica di Levi, come ricorda il racconto Un testamento (1981, in Lilìt). Lo ribadisce il saggio “Contro il dolore” (in L’altrui mestiere), concentrato di anti-teismo darwiniano, nota Ghelli: non è vero che Dio trova buone tutte le creature, secondo il dettato della teodicea, in Natura vige una “gigantesca sanguinaria competizione”, come dimostrano i crudeli agguati dei ragni e la raffinata chirurgia con cui certe vespe paralizzano i bruchi. Il rispetto che dobbiamo agli animali, si fonda nel laico Levi sulla convinzione per cui “una norma scritta in noi, e riconosciuta da tutte le religioni e le legislazioni, ci intima di non creare dolore, né in noi né in alcuna creatura capace di percepirlo”. È così che valorizziamo la parte più nobile della nostra natura, quella virtù di “umanità” che il Darwin dell’Origine dell’uomo riteneva uno degli acquisti morali più tardivi, “la simpatia oltre i confini umani”.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
k
TAGGED: Primo Levi

Bollo blu Dona (Mobile)