Parlare nel Paradiso Terrestre
«Da quando i nomi ci cullano nelle cose, / facciamo un segno e ci risponde un segno, / la neve non è solo un bianco carico, / è neve anche la quiete che ci assale». Così Ingeborg Bachmann in una delle poesie di Invocazione all’Orsa Maggiore (la versione italiana di Luigi Reitani è in catalogo da Adelphi). Sono versi che celebrano l’esattezza dei Namen e subito la mettono in discussione evocando il dispositivo degli Zeichen. Perché nella nostra esperienza “nomi” e “segni” non si equivalgono: i primi identificano le cose (die Dinge), i secondi presuppongono un’aura che esige di essere interpretata. Ma c’è stato un momento, all’inizio di tutto, in cui nomi e cose e segni non entravano in conflitto tra loro. Ed è a questo scenario primordiale che rinvia, senza alcun cedimento idealizzante o nostalgico, il recente saggio di Giampiero Comolli su Le prime parole di Adamo ed Eva (Claudiana, pagine 216, euro 24).
Non si tratta, come pure è stato fatto in passato, di accapigliarsi su quale fosse la lingua adoperata dai progenitori. Disputa eruditissima, che offre materia a un altrettanto erudito contributo di Umberto Eco (La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, 1993), dal quale si apprende che la nozione stessa di «lingua adamitica» è stata oggetto di valutazioni discordanti. Da un lato infatti entra in gioco il tema «del Nomoteta, e cioè del primo creatore del linguaggio» (in realtà la definizione più corretta sarebbe quella di Onomaturgo), dall’altro «non è chiaro su quali basi Adamo abbia nominato gli animali», se servendosi del medesimo idioma divino, presumibilmente composto di «fenomeni atmosferici, colpi di tuono e lampi», o di una lingua più o meno storicizzabile: forse lo stesso ebraico, forse un’altra parlata ancestrale, andata dispersa nella catastrofica confusione di Babele.
Fin qui le considerazioni di Eco, alle quali Comolli implicitamente contrappone un obiettivo solo in apparenza più modesto, quello di recuperare il riverbero della «lingua dell’innocenza nel Giardino dell’Eden». L’impresa – evocata in questi termini nel sottotitolo – non ha le pretese di un’impossibile restaurazione archeologica, come ribadisce l’autore. Nondimeno, è programmaticamente destinata a un sostanziale fallimento, che però si propone come fallimento illuminante e costruttivo. La rivelazione di qualcosa che è andato perduto e di cui, per il fatto stesso di essere creature umane, non si può non avvertire la mancanza.
Giornalista e animatore culturale molto apprezzato anche per il suo impegno ecumenico, con Le prime parole di Adamo ed Eva Comolli prosegue nel suo personale attraversamento del testo biblico, all’interno del quale già figurano i libri dedicati all’Apocalisse e alla grammatica del sogno, pubblicati sempre da Claudiana rispettivamente nel 2017 e nel 2023. Parliamo non di indagini isolate, ma di un progetto più ampio e intimamente coerente, il cui baricentro sembra adesso poggiare proprio su questa analisi ravvicinata dei capitoli inaugurali di Genesi. Le pericopi interessate sono quella che contiene la duplice descrizione della creazione (il primo capitolo per intero e i versetti 1-25 del secondo) e quella che Comolli efficacemente descrive come «la crisi del Giardino» (3,1-24): non per attenuare l’importanza dell’errore di Eva, ma per evitare le implicazioni moraleggianti legate alla nozione tradizionale di “peccato originale”.
Tecnicamente, l’impresa di Comolli è un close reading, una lettura ravvicinata che dà concretezza al criterio ermeneutico della sola Scriptura. Ripercorrere con pazienza le vicende che stanno tra la bellezza di ogni principio e il dramma della caduta permette di fissare lo sguardo su ciò che la Bibbia veramente afferma e, più che altro, prendere atto di quello che nella Bibbia non c’è e non c’è mai stato, essendo il prodotto di un fraintendimento millenario, ma non per questo meno mortificante. Le prime parole di Adamo ed Eva è pertanto un omaggio alla potenza generatrice del linguaggio, da intendersi secondo la concezione ebraica del dabar: parola che è azione, voce che chiama all’esistenza, dialogo che conduce alla salvezza. Non stupisce, in questo senso, che sia Dio a prendere l’iniziativa della parola, la cui necessità è direttamente proporzionale allo spazio che ciascun parlante accetta di riservare al silenzio. Come giustamente osserva Comolli, il riposo del settimo giorno non costituisce affatto un “vuoto” rispetto al “pieno” dell’azione. Al contrario, «la creazione ha bisogno del riposo di Dio, e quindi di entrare a propria volta in questa attesa dimensione del riposo e assumerla in sé, così da rispecchiarsi nel riposo di Dio».
Nella compresenza di parola e silenzio si nasconde il segreto del legame tra ‘ish e ‘issah, il “lui” e la “lei” che prendono forma da ha’adam, l’essere umano indifferenziato e solitario al quale Dio ha concesso facoltà di parola. L’ascolto, prima ancora della generazione, è l’orizzonte che si schiude in virtù della differenza sessuale, conseguendo un equilibrio che si infrangerà quando l’altro cesserà di presentarsi come dono e si manifesterà come enigma. Particolarmente raffinate, da questo punto di vista, sono le notazioni che Comolli dedica allo scambio di battute tra la donna e il serpente. A scontrarsi sono due codici linguistici inconciliabili: quello della sincerità a oltranza, al quale si attiene ‘issah, e quello della doppiezza deliberata, di cui è portatore il serpente. Eppure, in qualche misura, la comunicazione tra i due è ancora consentita. Risulterà interdetta solo in un secondo tempo, dopo che Dio avrà scoperto l’inganno e – secondo la suggestiva ipotesi suggerita da Comolli – avrà privato gli animali dell’accesso alla parola.
Non possiamo sapere quale fosse la lingua di Adamo nell’Eden, ma ne conosciamo le caratteristiche, che Comolli elenca a più riprese nel corso della sua riflessione. Oltre che veritiera per statuto, questa lingua è deputata alla cura e disponibile alla contemplazione, accede al dialogo per il tramite del silenzio e si attesta, in definitiva, come «una lingua della fragilità estrema, destinata a sgretolarsi subito, a dissolversi senza resistenze di fronte al primo assalto del male». Dall’esterno sembrerebbe la stessa lingua di cui si serve Dio, non fosse che «la lingua di Dio invece è salda, è stabile, perché conosce il male ancora più di quanto il male conosca sé stesso». Solitamente inavvertita, questa caratura teologica è tipica del linguaggio in quanto tale e ribadisce la speranza che i segni possano tornare a essere nomi per rendere giustizia alla maestà delle cose.
I nomi svolgono un ruolo importante nei primi capitoli di Genesi. La nominazione degli animali è l’attività delegata da Dio all’essere umano, che vede così spalancarsi le porte della parola. Ma il nome proprio – Adamo, il terrestre, ed Eva, che deriva dall’ebraico hawwah, vita generatrice di vita – è anzitutto la paradossale conquista che ‘ish e ‘issah conseguono un attimo prima di doversi allontanare dal Giardino, in strettissima analogia con l’altro viatico concesso da Dio: le «tuniche di pelle» che proteggono e insieme rivelano la nudità di cui soltanto adesso gli esseri umani sono divenuti consapevoli.
L’erranza intrapresa in quell’istante esclude la possibilità del ritorno. Non è dato retrocedere allo stato di natura, posto che questo fosse veramente lo Stato d’innocenza al quale il medievista Gianluca Briguglia ha dedicato tempo fa un illuminante approfondimento (Carocci, 2017). Questione non irrilevante sul piano politico, come conferma il complesso dibattito filosofico che dall’Età di Mezzo si è sviluppato fino a lambire le soglie della modernità. In questa sede, però, a interessare di più è ancora una volta quella «lingua dell’innocenza» che, avverte Comolli, rimane al di fuori della nostra portata se ci intestardiamo a ripescarla da un passato di fantasia, magari persuadendoci di individuarla in qualche anticaglia lessicale. Occorre semmai guardare al futuro, in attesa di interrogare «i nuovi tempi, i tempi a venire della nuova creazione» di cui dà conto l’Apocalisse, che per Comolli è appunto «il libro del mondo rinnovato».
Tra le meraviglie della Gerusalemme Celeste figura, non a caso, l’Albero della Vita al quale Adamo ed Eva, impegnati com’erano a masticare il frutto dell’Albero della Conoscenza, non si sono nemmeno accostati. Da allora la lingua del paradiso è qualcosa di simile a un sogno o a un miraggio, che ci pare di scorgere a volte nelle parole dell’amore e della passione. Ma neanche la musica sublime del Cantico dei Cantici può essere paragonata alle parole con cui l’umanità ha imparato a benedire e a tacere. A meno di non adottare la soluzione escogitata da John Milton, il poeta immaginifico e severo del Paradiso perduto. Per lui, puritano tutto d’un pezzo, il dubbio neppure si poneva: come ogni gentiluomo che si rispetti, Iddio onnipotente non poteva fare a meno di esprimersi in un inglese maiestatico e solenne. A questa convenzione non solo Adamo e non solo Eva sono costretti ad adattarsi, ma lo stesso Satana, che spesso nel gran poema di Milton si rivela loquace fino alla petulanza.
In copertina, Jan Brueghel the Elder, Adam and Eve in paradise.