Sposarsi non conviene

23 Novembre 2015

Non è un problema d’ordine, tanto meno di ordine pubblico. Il percorso che per oltre un anno, attraverso lo strumento del Sinodo, ha impegnato la Chiesa cattolica nella riflessione su matrimonio e famiglia non può essere ridotto a una questione di norme ed eccezioni. Sarebbe fare torto allo spirito con cui il Sinodo è stato convocato, ma sarebbe più che altro un modo per travisare grossolanamente il significato che l’esperienza dell’amore sponsale assume nella vita quotidiana dei credenti. Che poi questa consapevolezza sia spesso appannata perfino in coloro che per primi dovrebbero testimoniarla; che la dimensione della corporeità – in tutta la sua grandezza, con tutti i suoi limiti – sia poco avvertita e tematizzata nell’ambito di quella che si è soliti definire “pastorale ordinaria”; che fra la teologia del matrimonio e l’immagine corrente del matrimonio cristiano la continuità, quando c’è, risulti non di rado accidentata e contraddittoria: bene, questi non sono affatto elementi marginali. Quando papa Francesco invita a concepire la Chiesa come «un ospedale da campo», la premessa è che ci sia un campo di battaglia su cui intervenire d’urgenza. A soccombere in questo scontro sono proprio gli affetti, è la qualità della relazione, è l’aspettativa che l’amore possa essere desiderato e vissuto in una dimensione di fedeltà e di durata nel tempo. La crisi del matrimonio, insomma, non è d’ostacolo al Sinodo, ma è la ragione per cui il Sinodo è stato celebrato. Non ne smentisce la portata, semmai la esalta.

 

Fallimenti e tradimenti, divorzi e seconde nozze non sono un prodotto esclusivo della tarda modernità. Già nel 1889, nell’apologo pessimista della Sonata a Kreutzer, Lev Tolstoj si richiamava a uno dei più clamorosi episodi di incomprensione tra Cristo e gli apostoli. Gesù, rispondendo all’interrogazione dei farisei riportata anche in Mc 10,2-9, ha appena finito di dire che «per la durezza del vostro cuore» la legge di Mosè ha concesso la possibilità del ripudio, ma nella prospettiva del Regno non è così, «quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi», ed ecco che i discepoli se ne escono con uno sconfortante «se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10).

 

Il punto è esattamente questo: l’avventura dell’amore, e nella fattispecie dell’amore coniugale, non si pone mai sotto il segno della convenienza. L’amore, anzi, è esattamente ciò che si oppone al principio del profitto e della perdita, del dare e dell’avere. Tant’è vero che a questa assolutezza esigente e antieconomica della sponsalità Gesù contrappone l’alternativa del farsi «eunuchi per il regno dei cieli» (Mt 19,12), di conformarsi cioè a una condizione a sua volta scomoda, minoritaria, del tutto “non conveniente” (ed è infatti questa parte della citazione che Tolstoj, nella sua intransigenza morale, sceglie come epigrafe della Sonata a Kreutzer insieme con un altro versetto evangelico, Mt 5,28, relativo all’adulterio che si consuma nel cuore dell’uomo anche con un solo sguardo di desiderio).

 

«L’indissolubilità del matrimonio – spiega la Relazione finale del Sinodo riferendosi al già ricordato brano di Marco – non è innanzitutto da intendere come giogo imposto agli uomini bensì come un dono fatto alle persone unite in matrimonio» (n. 40). Un dono, andrà aggiunto, che non riguarda di per sé i soli credenti, ma che si pone piuttosto come dimostrazione di una possibilità incarnata. Qualsiasi amore, nel momento in cui si annuncia, si desidera duraturo e fedele. Quando questa promessa non viene mantenuta (e sempre più spesso non viene mantenuta), la ferita che si produce è umana prima che religiosa. O, meglio, profondamente umana e quindi radicalmente religiosa.

 

Si noti come, già nel racconto evangelico, la legge non sia smentita, ma sottoposta a un processo di falsificazione che ne rivela l’intento originario. Come ricorda con insistenza san Paolo, di per sé la legge non è un rifugio del tutto sicuro per il cristiano. Questo non induce a vivere contro la legge o addirittura in assenza di legge (l’anomia è, al contrario, una delle prerogative dell’Anticristo). L’atto di discernimento richiesto al credente consiste nel penetrare con piena intelligenza le ragioni della legge, evitando che la norma si sclerotizzi in se stessa.

 

Perché è indissolubile il matrimonio sacramentale? Perché così sancisce il diritto canonico, si potrebbe rispondere, e si tratterebbe di un’affermazione formalmente corretta. Ma alla base di questa disposizione c’è qualcosa di precedente e fondativo, che coincide appunto con la “non convenienza” della condizione sponsale. Com’è noto, quella del matrimonio è la similitudine alla quale la Bibbia fa ricorso con più frequenza quando si tratta di descrivere la natura del rapporto che intercorre tra Dio e Israele, e tra Cristo e la Chiesa. L’impressione, anzi, è che non sia affatto una similitudine, ma la rappresentazione più dinamica e convincente che di quella relazione sia dato esprimere. Non è un come, ma il questo della rivelazione. Da qui l’indisponibilità dell’amore perfino da parte dei coniugi, perché l’amore – nella visione cristiana – non è una sorta di bene comune al quale garantire l’accesso più ampio possibile. E non è, di conseguenza, neppure un diritto di cui chiedere il riconoscimento e l’applicazione, non è qualcosa di separato rispetto ai soggetti che ne fanno esperienza. L’amore è il risultato di un’alleanza in sé generativa, all’interno della quale non è più dato di distinguere tra ciò che spetta a un coniuge e ciò che invece è di pertinenza dell’altro. L’indissolubilità che si stabilisce è quella di un organismo, non di un contratto.

 

In tutto questo, la differenza sessuale gioca un ruolo che non deriva affatto da una presunta superstizione naturalistica. Il «maschio e femmina li creò» di Gn 1,27 non ha il valore di un interdetto, ma si colloca in una prospettiva che è insieme realistica e profetica, e che la Relazione finale del Sinodo formula nei termini di un’accresciuta attenzione verso le persone omosessuali (n. 76). È uno dei passaggi più delicati e contestati del documento, dato che in questa occasione viene respinta l’equiparazione del matrimonio all’unione fra persone dello stesso sesso. L’aspetto su cui preme qui insistere è che, come ogni altro sacramento, il matrimonio non è uno strumento di cui la Chiesa possa disporre a sua discrezione, né che possa modificare a piacimento. In questione non è la qualità dell’affetto, ma l’eccezionalità del vincolo coniugale, che si pone quindi come vero “pensiero della differenza” rispetto a ogni altro legame erotico o sentimentale. Ed è ancora l’indisponibilità del matrimonio da parte della Chiesa stessa a stabilire l’articolazione complessa, nuovamente ispirata al criterio di discernimento, con cui la Relazione finale affronta il tema dei cosiddetti “divorziati risposati” (nn. 84-86).

 

L’invito a considerare ogni caso nella sua individualità ed eccezionalità non costituisce, come temuto da una parte del mondo cattolico, una negazione del principio di indissolubilità – che non potrebbe essere negato se non negando l’essenza stessa del matrimonio cristiano – ma l’applicazione estesa di indicazioni già presenti nell’esortazione Familiaris consortio, dettata nel 1981 da Giovanni Paolo II, un papa neppure lontanamente sospettabile di lassismo nei confronti dell’istituto matrimoniale. Il fatto che negli oltre trent’anni che ci separano da quel documento la frequenza dei casi di seconde unioni si sia fatta sempre più alta anche tra i credenti è, una volta di più, la conferma di come il Sinodo abbia cercato soluzioni a problematiche tanto attuali quanto diffuse. Sostenere che la Chiesa dovrebbe astenersi dal prendere posizione su questi e simili argomenti significa favorire l’equivoco di un cristianesimo risospinto nel dominio dell’invisibile o, per essere più espliciti, dell’invisibile gestione dell’invisibile. Una fede innocua, irrilevante e disincarnata, che nulla ha a che vedere con il realismo creaturale del Vangelo.

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