5 marzo 1935-13 aprile 2022 / Letizia Battaglia: la colomba e la bellezza

14 Aprile 2022

La mia prima reazione, alla notizia della morte di Letizia Battaglia, è stata il ravvivarsi di un ricordo, l’immagine di una sua fotografia. La scattò a Trapani nella domenica di Pasqua del 1989. Una colomba vola verso due ragazzini, che la guardano mentre si avvicina ai loro volti. Un uomo, di schiena, si allontana ignaro, ma i ragazzini vengono catturati da questa magia. Sono immobili, increduli, uno sembra persino avere la bocca aperta. La colomba è sospesa al centro del fotogramma. È una di quelle foto che si scattano quando quello che si vede è già dentro lo sguardo, quando l’istante perfetto è solo la fine del processo, perché ciò che ha generato l’immagine è nella vita vissuta, nel modo di guardare il mondo, nelle speranze, nei desideri. Quando la intervistai, nel 2016, mi raccontò che la colomba era la bellezza di quello che può accadere. Mi disse: “Come è possibile che il bimbo e la colombina si guardassero? La colombina significa che la vita è veramente bella. Non so se è candore. Non credo. La colombina per me è simbolo di vita, è l’animale che vola. È questo: che la vita è bella ed è anche molto faticosa”.

 

 

La colomba è il suo sguardo. Oggi che non c’è più, è come se questo delicato uccello bianco volasse sulle sue immagini, ne cucisse la trama di sangue, la colorasse di bianco. Ho sempre creduto che la sua fotocamera non fosse un’arma, come spesso la descrive la retorica del fotoreporter: velocità, destrezza, lucidità, un cacciatore che deve catturare la preda. E poi deve ucciderla. No. Letizia Battaglia usava la sua fotocamera come un conforto. Un velo che si opponeva, anche se vano, alla morte, al buio, alla violenza, un antidoto al dolore. Persino quando questo dolore prendeva il sopravvento, quando non si era sentita abbastanza forte da esporre la foto di un bambino riverso in una pozzanghera di sangue, ucciso da due killer che aveva visto in volto. 

La potenza del suo bianco e nero rende distintamene il rosso del sangue e il bianco dello sguardo, colori che mi hanno ricordato sempre quelli della passione, quella via Via Crucis che lei aveva percorso tante volte nella sua città. 

 

In particolare rammento la foto che aveva intitolato “I due Cristi”. Un uomo giaceva a terra, con il corpo supino, il volto contro il suolo e accanto una immensa chiazza di sangue. La schiena era scoperta, qualcuno probabilmente aveva alzato la maglia sino all’altezza del collo. Un enorme tatuaggio occupava tutta parte sinistra della schiena: il volto di Cristo incoronato di spine. Non servono molte parole descrivere ciò che accade in quella foto. Come per la colomba che vola verso i bambini, con il suo alito di speranza, il volto di Cristo diventa quello dell’uomo ucciso e abbandonato a terra che ne riscatta la morte.  Il 5 settembre 1979 il giudice Cesare Terranova viene ucciso nella sua macchina. Letizia Battaglia è vicinissima al suo cadavere. Il fotogramma mostra il buco del finestrino frantumato dai colpi. Il capo del giudice è leggermente reclinato, rivolto verso il basso come stesse dormendo, gli abiti sono sporchi di sangue. Lo sguardo della fotografa si posa su quel corpo come volesse avvolgerlo e sfiorarlo per l’ultima volta. Il corpo di Terranova sembra fragile e indifeso come quello di un bambino. La pietas della fotografa lo ha trasfigurato. Non il pietismo che necessita di un cadavere, di un corpo straziato. 

 

 

La scrivania di Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo, appena illuminata da una luce da tavolo, telefoni muti, il blocco degli appunti, i fiori che la ricoprono in buona parte, come si ricopre una bara: la foto esprime un grido soffocato, un dolore sordo. Mi raccontò di come era stato comprensivo con lei e di come era stato difficile fare la fotografa. Allora era costretta ad urlare perché, sulla scena del crimine, la lasciassero passare come gli altri fotografi. Eppure per lei era diverso: “la mia macchina fotografica era un come un altro cuore, un'altra testa, non era un mezzo per vendere fotografie, per diventare famosa, era il mio cuore che parlava”.

 

Ho conosciuto Letizia Battaglia a Brescia, per una mostra da Massimo Minini. Esponeva le sue foto insieme a quelle di Francesca Woodman. Stavo in piedi nel cortile, un po’ in imbarazzo come spesso mi capita nelle occasioni ufficiali. La vidi arrivare. Credo che quella volta avesse i capelli di colore arancio. La seguii poiché speravo che parlasse ai presenti, ma rimasi in disparte. Lei poco dopo si avvicinò, mi guardò un po’ come faceva con le bambine che fotografava. Mi disse: “Che c’è? Cos’hai? Scommetto che vuoi un autografo!”. Sorrise e impresse sul mio catalogo una firma grande quanto una pagina. 

 

Franco Zecchin, Letizia Battaglia sul luogo di un omicidio, Palermo, 1976.

In quel momento decisi che l’avrei rivista. Nel 2016 andai a Palermo per intervistarla, mi accompagnò mia sorella Edda. Ci trattò con delicatezza, come fanno le donne mature quando devono insegnare a quelle più giovani: “Siete piccoline. Chi è la più piccola di voi due? Quanti anni avete? Io ho cominciato a 40 anni a fare la fotografa. Questa è una cosa interessante, perché a quarant’anni anni le donne hanno già la strada segnata. È importante per tutte le donne che pensano che valgano solo la bellezza e la giovinezza. Non è così”. Le credemmo all’istante. Ci parve una verità innegabile. Lei stessa era emblema di quelle parole. Le sue donne non hanno corpi che emanano una bellezza fine a se stessa. La bellezza non viene dalla forma, ma dalla forza. Il volto di Rosaria Schifani, quello delle madri che piangono i figli morti, quelli delle bambine nei quartieri di Palermo sono belli perché hanno la forza della speranza che si oppone alla morte. Sono ciò che simboleggia quella colombina, sono il suo sguardo. 

 

 

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