C’era una volta la verità
Non c’è favola che non si apra con l’icastico incipit: “c’era una volta”. Lo sanno tutti, soprattutto i bambini. Quale sia il ruolo di questo incipit e quale temporalità conferisca alla narrazione che ne dipende è un tema che – almeno dopo Vladimir Ja. Propp e il suo Morfologia della fiaba (1928) – non ha smesso di animare le discussioni di critici, filologi e teorici della letteratura. Tuttavia i bambini lo sanno, e basta. E i filosofi? Alfredo Gatto ha di recente pubblicato un libro dal titolo sibillino e provocatorio: C’era una volta la verità. Da Socrate a Judith Butler (Ombre Corte, 2024). Si potrebbe dire, correndo certo il rischio di fare torto alla ricchezza degli autori e dei riferimenti che vengono presentati nel libro – che l’intera proposta di Gatto sia tutta contenuta in questo breve adagio: c’era una volta. Il punto è capire come intenderlo. Di certo, non come il richiamo nostalgico a una qualche fantomatica età dell’oro della verità; e nemmeno come l’ennesimo annuncio (entusiastico o meno che sia) del suo tramonto. L’analisi di Gatto è ben più accorta per accontentarsi di essere una semplice presa di posizione all’interno di un quadro concettuale già configurato. E forse, proprio per questo, è anche estremamente più ambiziosa, poiché intende ridefinire prima di tutto la configurazione di quel quadro.
Riconsiderare, cioè, il terreno della contesa in cui si consuma ogni dibattito a proposito della verità e del vero (si badi che le due cose non sono lo stesso, come viene ben spiegato nel libro) significa, prima di ogni altra considerazione, fare i conti con la questione della post-verità; tendenza filosofica e culturale che, piaccia o meno, costituisce uno dei tratti salienti del nostro presente. E difatti Gatto comincia proprio da qui: dal prendere in carico l’esito – chiaramente problematico – della messa in questione di ogni possibile tenuta della nozione di verità. Ma nel compiere questa operazione apparentemente preliminare, sposta allo stesso tempo anche il focus del problema, ampliandone significativamente l’orizzonte: «il post-modernismo» – scrive nelle prime pagine del libro – «non ha posto le basi per indebolire e ingentilire quella volontà di domino nascosta dietro la maschera della verità» (p. 10). Come dire: all’annuncio più volte reiterato del carattere posticcio e artificioso della verità non avrebbe fatto seguito, secondo Gatto, una reale destituzione dell’istanza rispetto alla quale la verità era stata concepita, per «erigere cattedrali e armare eserciti» è vero, ma anche per «alleggerire la pressione della realtà, per imparare a conviverci senza doverla sempre trasfigurare» (p. 160).
Non è bastato, insomma, il grido nietzschiano che non esistono fatti ma solo interpretazioni (con le sue relative declinazioni novecentesche), non è bastata la denuncia foucaultiana del carattere assoggettante di ogni dispositivo (anzitutto, quindi, di quello ermeneutico) per sottrarre il conflitto delle interpretazioni alla sua pretesa veritativa che è, in quanto tale, nuova volontà di dominio, nuova pretesa di imposizione delle une sulle altre, nuova “soggettivazione” (e, quindi, per dirla ancora con Foucault, nuove forme di assoggettamento). Anzi, continua Gatto, «anziché incrinare l’assolutezza del vero, [il post-modernismo] ha creato uno spazio potenzialmente vergine, un vuoto ideale che ha finito per essere occupato dalla ragione del più forte, e da una ragione che si scopre ora più forte perché liberata anche dalla necessità di trovare nella realtà – nella sua univoca oggettività, negli stati di cose che la definiscono – la giustificazione del proprio dominio» (p. 10). Dove tramonta la presa della verità, fosse pure in forza dello smascheramento della propria infondatezza, si riaffacciano i demoni che proprio la sua “istituzione” (nelle forme certo più differenti) aveva tentato di addomesticare. E si ripresenta quello che è, per antonomasia, lo spettro del pensiero filosofico: l’istanza sofistica, ora libera da ogni debito o vincolo nei confronti di una realtà ormai priva di qualsiasi consistenza. Che fare allora? Come ripensare lo spazio di questo dissidio? Nel riproporre il problema della verità, spiega Gatto, c’è da chiedersi «non tanto, o non solo, per quale ragione esista qualcosa come l’epoca della post-verità, ma perché siamo, almeno a partire dal moderno, ossessionati dalla verità» (p. 11). È qui che si gioca la partita. E di questo titanico incontro – tuttora in corso – Gatto intende raccontare la storia e indicare gli esiti; o, per impiegare un’espressione che meglio si addice al registro lessicale del libro: gli effetti.

Del resto, come ci viene fatto intravedere più volte nel corso del libro, se «gli effetti di verità sono l’unico modo in cui si dà la verità» (p. 160), allora “vero” è solo ciò che ha la forza di produrre effetti (tesi, il cui carattere provocatorio non lascerà indifferenti i lettori e le lettrici del libro). Ma vengo al punto. Ho parlato di storia, di narrazione, poiché quello presentato da Gatto è anzitutto un “racconto”, che mette in scena una possibile storia della verità (non l’unica, come si precipita a precisare), con i suoi protagonisti, le sue conquiste, le sue discontinuità e le sue battute d’arresto. Non mi addentrerò nell’ampia e puntuale disamina degli autori che vengono presentati: da Socrate passando per Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Hegel, Nietzsche e molti altri, fino a Judith Butler, come chiosa il sottotitolo. Con delle assenze esemplari come quella di Kant (chi avrà la curiosità di addentrarsi nel testo, scoprirà le ragioni di una simile esclusione che Gatto dichiara senza infingimenti). Richiamerò solo due snodi che mi paiono essenziali nell’andamento del libro, in quanto caratterizzano due tendenze fondamentali rispetto al problema della verità, almeno nel passaggio dal Medioevo alla prima Modernità (ma Gatto ci mostra come si innervino, in fondo, molto più in avanti).
Due tendenze frapposte che, con forza uguale (?) e contraria, attraversano i secoli in una linea ideale che avvicina, da un lato, Tommaso, Spinoza e Leibniz, dall’altro, Gioacchino da Fiore e Descartes. I primi che – in forme profondamente differenti – cercano di dare saldezza, secondo Gatto, alla nozione di verità; gli altri che, conferendole l’immane potenza della novitas, inoculano in essa il germe della propria implosione. È questo il caso del messianismo apocalittico dell’abate calabrese – al quale è stato da poco dedicato anche un film: Il monaco che vinse l’Apocalisse (2024) – o della temeraria teoria cartesiana sulla libera creazione delle verità eterne nella quale cortocircuita l'intera fondazione cartesiana della conoscenza. Così – ci spiega Gatto – proprio Spinoza e Leibniz non sono altro che il tentativo, probabilmente disperato, di contenere la frattura cartesiana (ed è uno snodo del libro davvero pregevole, da leggere tutto d’un fiato).
Mi allontano però dall’intreccio narrativo, e torno da dove ero partito: al c’era una volta. Perché se, come già notavo, esso non indica un esito o una presa di posizione, segna però l’inizio di una storia. Un racconto che storicizza la nozione di verità, certo, senza per questo farle perdere il proprio statuto veritativo. Come? Qui Gatto gioca una mossa precisa – quasi una torsione – che presenta come un problema apparentemente metodologico, ma che in realtà ha a che fare direttamente con il cuore della propria proposta filosofica: ha «senso raccontare una storia della verità solo perché è la verità ad avere una storia» (p. 7). Ed eccola condensata tutta qui la provocazione: «anziché dichiarare che “la verità è che la verità cambia”, sostengo che la verità è che la verità ha una storia, e perciò cambia» (p. 12). Come dire: cambia l’immagine di verità degli effetti, ma non il loro essere tali, ossia: il loro essere effetti di verità. In tal senso, appartiene loro una storia di cui sono “narratori” in quanto ne sono anche gli unici protagonisti. Quella storia che essi stessi incarnano nel momento in cui viene narrata; quella storia che, a ben vedere, non poggia più sulla domanda che cosa o chi sia la verità (essendo quella “solo” un capitolo di una narrazione più estesa), bensì su «che effetto fa allora la verità?» (p. 162).
Certo, nel momento in cui la narrazione e i suoi “prodotti” coincidono, viene da chiedersi che senso abbia – di fatto – parlare ancora di “effetti”. Del resto, in una simile prospettiva, una narrazione sarebbe “vera” per il solo fatto di essere tale, in quanto storia o effetto – che è lo stesso – della propria verità. Il che significa che a cambiare di significato è, prima di tutto, la nozione stessa di narrazione (e non la sua verità). Mi pare infatti che il discorso di Gatto conduca, tra le varie, a una conseguenza simile: se una storia è tale solo se ha (avuto) degli effetti, allora una narrazione è sempre vera in quanto tale (se cioè essere vero significa produrre degli effetti, produrre degli effetti significa potersi definire come narrazione; una narrazione senza effetti, “semplicemente” non è tale). Resta una perplessità: per equiparare la narrazione con i propri effetti, non si dovrebbe anche spiegare in che modo essa funzioni come effetto narrativo (che è sì anch’esso un effetto, ma è pure quell’effetto del tutto specifico che rende possibile alla stessa narrazione di dissimulare la propria natura, venendo percepita unicamente come effetto)?
Va da sé che questi interrogativi, come molte altre delle questioni sollevate da Gatto, costituiscano un motivo in più per cimentarsi nella lettura di questa avvincente e spericolata storia della verità e, come cantava il grande Jannacci, «vedere di nascosto l’effetto che fa».
