Perdonare l’imperdonabile? Una scintilla di giustizia
Il 7 ottobre 2023 il mondo è stato messo di fronte a un massacro di matrice terroristica di inaudita ferocia nei confronti di Israele. Alcuni l’hanno chiamato pogrom, definizione non calzante giacché i progrom erano propriamente saccheggi e massacri perpetrati contro comunità ebraiche minoritarie. Altri parlano di una seconda Shoah, un nuovo olocausto, che però non corrisponde ai numeri e nemmeno alle intenzioni dello sterminio del popolo ebraico durante il secondo conflitto mondiale. Sicuramente è stato un gesto atroce di antisemitismo, un’espressione di odio nei confronti degli ebrei e del governo israeliano per la sua politica di segregazione, isolamento, violenza e privazione dei diritti della popolazione palestinese.
È stato un gesto perdonabile, prescrittibile? Se applichiamo le categorie filosofiche di Jankélévitch, Levinas, Arendt, Nancy in relazione alla Shoah, no. Non perdonabile, imperdonabile, come recita il titolo del volume del 2021, tradotto in italiano da Giuseppe Pintus per le edizioni Inshibollet di Roma (L’imperdonabile. «Siete ebrei?»), della filosofa e musicologa Danielle Cohen-Levinas, specialista di studi ebraico-germanici, cui dobbiamo anche i dialoghi con Jean-Luc Nancy raccolti nel volumetto L’odio contro gli ebrei, (Roma, Castelvecchi, 2023).
Il peso del cristianesimo, Paolo e Lutero
Prima di giungere a mettere a fuoco la tematica del perdono accennata nelle prime pagine del volume, Cohen-Levinas compie un lungo percorso intorno alla questione ebraica e soprattutto all’antisemitismo. È una storia antica che vede all’origine dell’odio nei confronti degli ebrei – a parte alcuni sussulti precristiani nati dalla preoccupazione del diffondersi di sette orientali – il cristianesimo. Per illustrarla Cohen-Levinas prende a prestito le parole di una filosofa ebrea francese, Sarah Kofman (1934-1994): Paolo, il codificatore del cristianesimo, era un ebreo, un «uomo tormentato, pietoso, spiacevole per gli altri e per se stesso, ambizioso, superstizioso e astuto... Un uomo avido di potere che avrebbe voluto anch’egli risorgere come Cristo», pronto a staccarsi dall’ebraismo per assimilarlo al cristianesimo accettando Cristo come il Messia. L’antisemitismo si accentuerà con le crociate, poi con Lutero, al quale Danielle Cohen-Levinas dedica il primo, potente, fulminante capitolo. Fino a quando Lutero immaginò che ci fossero ponti praticabili tra l’ebraismo e la sua dottrina sostenne una forma di filosemitismo. Si aspettava infatti che gli ebrei si sarebbero convertiti in massa al nuovo vero sistema che soddisfaceva la teoria della giustificazione per fede da lui propugnata e riconosceva a Cristo l’aver esentato l’uomo dalla legge divina avendola compiuta egli stesso. Di fronte alla delusione per la mancata conversione degli ebrei alla sua riforma, Luterò lanciò accuse terribili contro di loro «e le loro menzogne». Queste ebbero un’influenza nefasta sull’ideologia nazista e su Hitler e ancora pesa l’eredità antiebraica di Lutero sull’antisemitismo moderno.
Viene qui criticata e abbandonata la famosa tesi enunciata nel ‘46 da Sartre, che è l’antisemita che fa l’ebreo, che siamo noi che lo costringiamo a essere ebreo, anche perché ciò contesterebbe all’ebreo un’esistenza propria. Rimossa, o dimenticata, anche la tesi del 1949 di Jean-Jacques Chevallier (Les grandes oeuvres politiques. De Machiavel à nos jours, Paris, Armand Colin). Essa sostiene che l’odio contro gli ebrei di Hitler derivasse dal fatto che all’origine e a capo dell’odiata Socialdemocrazia ci fossero gli ebrei, l’«ebreo» Marx. Tutto il male veniva per Hitler dal marxismo, dottrina di un ebreo, forgiata per stabilire il dominio degli ebrei su tutti i popoli (p.359). Marxismo ed ebraismo erano per Hitler le due facce del genio diabolico che insieme al sistema parlamentare minacciava l’affermazione e l’esistenza del popolo tedesco.
Eppure la riforma di Lutero fece anche emergere, paradossalmente, uno spazio di libertà, un grumo di pluralità delle singolarità, un universalismo etico che teneva insieme particolarismi religiosi.
Tempo e perdono
Il lungo percorso compiuto da Cohen-Levinas affronta, in molteplici variazioni, il tema dell’identità ebraica e dell’antisemitismo, tra i nodi più significativi della civiltà occidentale e della cultura contemporanea, benché impensabile in un mondo erede del cristianesimo, dell’umanesimo, dell’illuminismo; affronta il pensiero di Levinas e Rosenzweig, Husserl, Heidegger, Kofman… Soltanto al termine della riflessione l’autrice ritorna alle domande iniziali. Dov’è la verità del perdono, dov’è quella dell’imperdonabile? E come si collegano allo scorrere del tempo?
Può lo scorrere del tempo essere collegato al perdono? Sì certo: il tempo, il passato, il ricordo, la memoria degli eventi occorsi nel tempo, oppure il loro contrario, la cancellazione e l’oblio sono centrali nel concetto di perdono e clemenza, nel momento in cui vengono a far parte dei suoi istituti l’amnistia e la prescrizione, oltre alla grazia.
Amnistia e prescrizione permettono infatti di seppellire la memoria dei fatti grazie allo scorrere del tempo, anzi la prescrizione in particolare nasce proprio, tardivamente, dall’associazione del perdono con il tempo. La prescrizione è un perdono in anticipo, scritto prima. L’idea è quella di una limitazione temporale nella perseguibilità dei crimini. La prescrizione, lo scrivere prima, è il perdono prestabilito che l’autore del crimine conosce in anticipo. Ma se ciò vale per i crimini di diritto comune, ivi compreso l’omicidio, può anche valere per crimini contro l’essenza umana, contro l’umanità e l’ominità, contro l’uomo in quanto uomo? No, il tempo non ha presa su di essi.
A negare e a maledire ogni forma grazia, perdono, amnistia o prescrizione nei confronti di tale tipo di delitti è Vladimir Jankélévitch, filosofo e musicologo francese di famiglia ebrea russa che ne tratta esplicitamente in due testi rispettivamente del 1948 (Dans l’honneur et la dignité) e del 1971 (Perdonare?). Jankélévitch si riferisce all’Olocausto, alla Shoah, alla persecuzione e al massacro di milioni di ebrei da parte del regime nazionalsocialista tedesco nei campi della morte durante la Seconda guerra mondiale. Nei campi della morte, afferma Jankélévitch, il perdono è morto; l’immensità del crimine lo ha reso inespiabile, imperdonabile, imprescrittibile.
E Derrida, anch’egli ebreo? Derrida introduce una differenza tra imprescrittibile e imperdonabile che l’altro autore ignora. L’imprescrittibile è inespiabile, non conosce perdono. Eppure il gesto e il concetto di perdono hanno invece senso, per Derrida, anche dopo Auschwitz: non il perdonare superficiale che riguarda il veniale, lo scusabile, perché perdonare quel che si può sempre perdonare non è perdonare. Il vero perdonare, il vero perdono mettono in gioco il tempo e anche la singolarità delle persone: singolare è il crimine, il peccato, il torto, l’autore, che può domandare e ricevere perdono per quello che ha fatto se chiede perdono... E la posizione di Hannah Arendt, anch’essa ebrea? Arendt ritiene che se la pena per quei delitti venisse prescritta verrebbe annullato non tanto il dolore dei sopravvissuti, quanto, quel che più conta, la dignità e l’onore delle vittime.
Sul perdono (e la rabbia) vorrei aggiungere le parole di Martha Nussbaum, una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea. Nussbaum si è occupata alcuni anni fa del tema in Rabbia e perdono. La generosità come giustizia (Il Mulino, 2017). Sia nell’ambito delle relazioni intime e personali, sia in quella dei rapporti con estranei, colleghi ecc., sia nella sfera dei rapporti politici, Nussbaum invoca il rifiuto categorico della rabbia e dei pensieri di ritorsione che essa suscita, dal momento che non restituiscono nulla di ciò che è stato ingiustamente sottratto. Al loro posto essa invoca un passaggio espresso con nomi e immagini delle divinità che gli antichi greci assegnavano a tali sentimenti; il passaggio dalla furia delle Erinni, che manifestano sfrenatamente la loro rabbia, alla benevolenza delle Eumenidi, strumenti di giustizia, benessere e generosità e, non ultimo, di perdono. Non però il perdono sotto condizione di pentimento, contrizione e penitenza, o simili; piuttosto, una sorta di perdono incondizionato quale lo si ritrova in qualche sparuto passo evangelico o in tradizioni di pensiero alternative. Nussbaum si pone dunque in questo lavoro sulla scia di tutti coloro che promuovono la liberazione da sentimenti di ira e persino da sensi di colpa perché essi fanno stare soltanto male, sia i perpetratori sia le vittime. Il pensiero di infliggere sofferenza ai perpetratori è inutile perché non restituisce alla vittima ciò che è stato tolto, ed è persino, nel caso la umilii, indegno. Se invece si smette di pensare al passato e si comincia a riflettere a come aprirsi in modo utile e magari generoso agli altri, avverrà un comportamento strategicamente superiore, nel quale la generosità del perdono si apre alla giustizia.
Uno stato federale
Il testo di Cohen-Levinas è precedente al massacro del 7 ottobre. Ora, l’identità politica di Israele poggia sul ricordo dell’Olocausto e non sull’idea di una normale cittadinanza. Per questo non bisogna certo dimenticare l’Olocausto – passo la parola al filosofo tedesco-israeliano Omri Boehm, autore nel 2019 di A Future for Israel. Beyond the Two State Solution –. Occorre però anche allargare il ricordo facendone un dovere patriottico di tutti i cittadini, anche dei palestinesi. È necessario immaginare, se non un perdono, una riconciliazione, una vita comune, non due stati ma uno stato federale, con forti autonomie e molti compromessi. E senza cerimonie di perdono come quelle degli anni ‘90, Sudafrica, Argentina, forme di espiazione collettiva o individuale che Derrida – ricorda Cohen-Levinas – non amava, ma attingendo ai valori del sionismo liberale – ancora Boehm – autonomia degli ebrei, diritti dei palestinesi, riconoscimento dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, protezione della vita civile a Gaza.
Il discorso di Boehm è duro, realistico: premono la riconciliazione e la vita comune anche se è impensabile immaginare una vita con persone che uccidono e sventrano donne incinte. Una vita comune che presuppone non il perdono quanto il giudizio di questi gesti di violenza. È in vista della giustizia, perché fa brillare una scintilla di giustizia, che il perdono assume senso e significato e diventa figura di remissione e riparazione.