La guerra e i simulacri
Siamo circondati dai simulacri. Rimanendo solamente all’interno dell’ambito dell’industria musicale, è chiaro che Madonna, di nuovo in tour, può essere considerata un simulacro di una rockstar, mentre Lady Gaga è un simulacro della stessa Madonna. E chissà quanti simulacri potremmo trovare di Lady Gaga. Perché un simulacro si caratterizza proprio per essere “una copia di una copia”. E non possono forse essere considerati dei perfetti simulacri anche i nostrani Måneskin? Non a caso il critico musicale Spencer Kornhaber ha scritto sulla rivista statunitense The Atlantic, a proposito del loro recente album Rush!, che «il fascino della band non risiede nella musica. Le canzoni dei Måneskin sono così chiaramente riciclate…».
E il Festival di Sanremo non è forse anch’esso una specie di “megasimulacro”? Un evento televisivo in grado di ottenere un notevole successo di massa, ma totalmente scollegato da quello che succede nel Paese reale. Un evento che contiene dei rimandi ai principali problemi sociali vissuti dalle persone, che però vengono trattati attraverso i codici del mondo dello spettacolo. Anche i problemi sociali dunque sono trasformati in simulacri. Depurati dal loro carico di dolore e sofferenza, come nell’ultima edizione, diventano il testo di una canzone da “rappare” (Fedez) o un monologo da recitare (Ferragni).
Per chiuderla con la musica, può essere considerata un simulacro anche la cantante Rihanna, che al Super Bowl 2023 si è esibita in tuta rossa firmata da uno stilista su una pedana a cinquanta metri d’altezza, con il pancione della sua seconda gravidanza in bella vista e tutt’attorno cento ballerini vestiti di bianco che si agitavano su altre pedane sospese. E ogni tanto dallo stadio partivano dei fragorosi fuochi d’artificio. Un grande show indubbiamente, ma la musica dov’è? In secondo piano e forse è meglio così, dato che in questo caso dev’essere considerata un simulacro anch’essa. Cioè “copia, di copia, di copia”.
Forse ha avuto ragione l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che in un suo post “a caldo” ha criticato ferocemente la performance di Rihanna al Super Bowl. D’altronde Trump se ne intende, dato che è un simulacro anch’esso, come tanti altri personaggi della politica contemporanea. La quale non è evidentemente immune dalla “simulacrizzazione”. Basti pensare che in Italia, nelle recenti elezioni regionali del Lazio e della Lombardia, ha votato soltanto il 40% degli aventi diritto.
Dunque, chi è stato eletto è decisamente poco rappresentativo della popolazione residente, più ampia ovviamente degli aventi diritto al voto. Il Parlamento nazionale viene di solito eletto da una percentuale maggiore di votanti rispetto alla popolazione, ma il suo ruolo è diventato negli ultimi anni meno significativo. Il suo potere legislativo cioè è stato sempre più “schiacciato” da quello del potere esecutivo, ovvero dal governo di volta in volta in carica. E i partiti, strutture che sono state storicamente in grado di accogliere e incanalare la voglia di partecipazione delle persone, oggi sono praticamente scomparsi dalla scena politica. La quale è dominata dai leader, figure simulacrali scelte e costruite sulla base della loro capacità di funzionare all’interno dei media e di produrre consenso, anziché per le abilità decisionali e le competenze politiche.
Il concetto di simulacro ha una lunga storia. Risale probabilmente al filosofo greco Platone, che lo considerava qualcosa di cui era necessario diffidare perché capace d’ingannare gli esseri umani. Nella storia del pensiero se ne sono occupati molti autori, ma negli ultimi decenni il suo ruolo sociale è diventato ancora più significativo. Ed è stato soprattutto il sociologo Jean Baudrillard a lavorare intensamente su tale concetto per metterlo meglio a fuoco e sperimentare le sue possibilità applicative. Infatti, per questo autore le società occidentali avanzate sono caratterizzate da un processo di moltiplicazione dei simulacri.
Persino la guerra per Baudrillard era un simulacro. Era chiaro che egli era consapevole che la guerra possa frequentemente generare degli effetti devastanti sulle città e sulle vite umane e l’ha anche dichiarato diverse volte. Ma quando ha scritto degli articoli come La guerra del Golfo non ha avuto luogo, uscito sul quotidiano francese Libération, intendeva affermare che in un’epoca dominata dai simulacri la guerra ha profondamente modificato la sua natura. Siamo di fronte infatti, come viene dimostrato anche dalla guerra tra Russia e Ucraina attualmente in corso, soprattutto a una guerra “tra macchine”, cioè a missili contro missili e a carri armati contro carri armati. E a una guerra combattuta da droni comandati a distanza da un soldato con uno schermo davanti e un joystick in mano, come se fosse un qualsiasi giocatore di videogiochi.
Soprattutto, però, siamo di fronte a una guerra combattuta dai contendenti sul piano dell’immagine prodotta nello spazio mediatico. La guerra, insomma, si configura oggi anche come una lotta di propaganda. Una lotta attentamente gestita rispetto a quelli che possono esserne gli effetti sull’opinione pubblica occidentale.
Va considerato inoltre che, per Baudrillard, spesso l’intensa mediatizzazione della guerra rende non più necessario che la guerra stessa si presenti, poiché è stata già consumata all’interno degli schermi elettronici. Vale a dire che, come ha scritto nel volume Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, la guerra è «talmente prevista, programmata, anticipata, prescritta e modellizzata, da aver esaurito tutte le proprie possibilità ancora prima di aver luogo. Essa sarà stata talmente possibile da non aver più bisogno di aver luogo» (p. 111).
Se dunque la guerra ha messo sempre più in evidenza la centralità della sua natura mediatica, è chiaro che essa dovrebbe essere analizzata adottando una prospettiva “mediologica”. Vale a dire una prospettiva che, come è stato indicato dal teorico francese Régis Debray, considera i mezzi di comunicazione degli strumenti che non si limitano a produrre e diffondere dei messaggi, ma svolgono un ruolo attivo e concreto all’interno della società. Pertanto, devono essere considerati soprattutto per quanto riguarda le loro condizioni materiali di funzionamento. Compito che si è assunto ora un gruppo di una trentina di studiosi italiani dei media che si richiama in gran parte all’approccio “mediologico” di Debray. Tali studiosi hanno prodotto il Dizionario mediologico della guerra in Ucraina, curato da Giovanni Fiorentino, Manolo Farci e Davide Bennato e pubblicato dall’editore Guerini Scientifica.
La forma dizionariale non è certamente quella più idonea per tentare un’analisi approfondita di un fenomeno complesso come la guerra. Va però considerato che la guerra in Ucraina, purtroppo, è ancora in pieno svolgimento e non consente delle interpretazioni definitive. Soltanto degli spunti di riflessione, come quelli appunto resi possibili da un “dizionario mediologico”.