Che cos’è il Made in Italy?
Ragionare sul made in Italy comporta d’interrogarsi sui significati assunti dall’identità italiana. Negli anni passati, fior di antropologi si sono cimentati in questa impresa, ma la questione rimane comunque aperta. Forse è utile perciò abbandonarla e concentrarsi sui prodotti del made in Italy. Anche da questo punto di vista, siamo di fronte a un tema complesso, ma si tratta comunque di qualcosa su cui, per la sua maggiore specificità e per la sua natura concreta, è più facile ragionare.
Dal punto di vista linguistico, l’espressione “made in Italy” deriva dai tempi passati del verbo inglese “to make” che significa “costruire” ed è perciò relativa a tutto quello che viene realizzato in Italia. Dunque, in senso ristretto, un prodotto può essere considerato “made in Italy” solamente se viene costruito in Italia. Ma in un’epoca come l’attuale, nella quale l’economia è caratterizzata da intensi processi di globalizzazione economica e delocalizzazione produttiva, possono esistere diverse percentuali di realizzazione di un prodotto in un certo Paese. È difficoltoso pertanto riuscire a stabilire quale sia la percentuale corretta per poter considerare un prodotto “made” in un Paese. Di solito si tende a ritenere che un prodotto appartenga alla categoria del made in Italy se viene costruito in prevalenza in Italia. E per estensione possiamo considerare dunque il made in Italy come l’insieme di tutti quei prodotti il cui processo produttivo si svolge in maggioranza nel nostro Paese.
Ma perché è importante che un prodotto venga realizzato in un determinato Paese? Perché si ritiene che il fatto che un prodotto sia non soltanto costruito ma anche concepito e progettato in un Paese influenzi in maniera significativa la natura di tale prodotto. Vale a dire che i territori geografici e culturali sono dotati di una specifica identità fisica e culturale la quale tende a trasferirsi almeno in parte ai prodotti che vengono prodotti al loro interno. Si genera cioè quello che viene chiamato “country effect”. Dall’Italia le persone si aspettano di vedere arrivare dei prodotti che siano in grado di esprimere buon gusto e creatività, dalla Germania affidabilità delle prestazioni, dagli Stati Uniti innovazione tecnologica, ecc. Perciò il “made in” è anche l’effetto sul piano dell’immagine che un prodotto può ricevere dalla sua provenienza da un determinato Paese.
Evidentemente, non tutti i prodotti di un Paese sono in grado di sfruttare appieno i vantaggi derivanti dall’esistenza di tale effetto. Che agisce infatti in maniera più incisiva sui prodotti maggiormente coerenti e sintonici con l’identità del Paese. Ad esempio, sui prodotti alimentari e i capi d’abbigliamento per l’Italia, sui prodotti meccanici (e soprattutto le automobili) per la Germania, sui computer e i prodotti elettronici per gli Stati Uniti, ecc. Ne consegue che soltanto alcuni dei tantissimi prodotti realizzati in un Paese sono considerati “made in” e perciò in grado di stabilire un intenso legame d’immagine con quel Paese. Per quanto riguarda l’Italia, i settori principali da questo punto di vista sono tre: tessile, abbigliamento e accessori; arredamento e design; alimentari e bevande. Cioè quelle che spesso all’estero vengono chiamate le tre “F” del Made in Italy: Fashion, Furniture, Food.
Se, come abbiamo detto, un prodotto può beneficiare dell’immagine positiva di cui un certo territorio è dotato, può ricevere anche degli effetti negativi da un peggioramento dell’immagine di tale territorio. E questo è senz’altro il caso dell’Italia, che da diversi anni è entrata in una condizione di progressivo declino. Si pensi soltanto che oggi, nonostante il suo indiscusso primato per quanto riguarda la quantità di bellezze artistiche e naturali possedute, è al quinto posto tra i Paesi più visitati al mondo, dopo essere stata in passato per lungo tempo al primo. L’immagine dei prodotti italiani può risentire perciò in maniera significativa di una situazione di questo tipo. Un’indagine condotta qualche anno fa dalla società di ricerca Eurisko ha evidenziato come nei principali Paesi europei i prodotti italiani vengano «giudicati innovativi e di bel design ma scarsamente affidabili e tecnologicamente poco avanzati». È evidente che si trasferiscono sui prodotti italiani quelle caratteristiche problematiche che sono solitamente associate a molti nostri connazionali: poco affidabili, scarsamente efficienti sul piano organizzativo, poco rispettosi delle norme e delle regole.
I fattori che incidono sull’immagine del made in Italy e dei suoi prodotti sono dunque numerosi. Il compito si semplifica se, anziché operare sui prodotti di un intero Paese, ci si limita ad intervenire su un territorio di dimensioni contenute. Un territorio come, ad esempio, uno degli oltre 200 distretti produttivi italiani. Non a caso, sul modello delle celebri Silicon Valley e Napa Valley californiane, l’Emilia-Romagna ha creato, ad esempio, la Motor Valley e la Food Valley. In questi casi è possibile sviluppare un’efficace attività di comunicazione in grado di fare percepire quegli elementi che caratterizzano specificamente l’identità del territorio. E di trasferire poi tale identità sui prodotti realizzati in quello stesso territorio.
Rimane comunque il fatto che sfruttare sul piano economico e commerciale l’immagine del made in Italy non è semplice. D’altronde, i prodotti italiani hanno avuto in passato delle alterne fortune. Nel dopoguerra, per circa un trentennio, i prodotti italiani di design hanno potuto godere di un momento particolarmente felice. La diffusione in Europa e negli Stati Uniti della nuova concezione modernista degli oggetti, basata sull’idea di una forma e un’estetica legata alla funzione svolta dagli oggetti, ha consentito all’Italia di ottenere un notevole successo internazionale grazie alla creazione di una rete di piccole imprese guidate da giovani imprenditori sensibili al nuovo e alle proposte provenienti da creativi designer. Ma in seguito il modello del modernismo è andato in crisi e anche il settore del design italiano ha cominciato a indebolirsi.
Va considerato d’altronde che, poiché l’immagine dei prodotti, come abbiamo visto, è fortemente legata a variabili di tipo culturale, tali variabili sono soggette agli effetti esercitati dai processi di cambiamento sociale e culturale. Storici dell’alimentazione come Massimo Montanari e Alberto Grandi, ad esempio, hanno chiaramente dimostrato che la cucina italiana e le sue ricette si sono costantemente modificate nel corso del tempo.
Dunque, come si diceva all’inizio, il made in Italy è un tema complesso. Perlomeno ne sappiamo poco. E se oggi il made in Italy si presenta così ai nostri occhi è anche perché sono stati poco sviluppati degli studi scientifici su di esso. Proprio per questo motivo è difficoltoso mettere in piedi dei percorsi educativi orientati a formare delle persone che possano successivamente operare nell’ambito del made in Italy. La recente proposta della premier Giorgia Meloni di istituire un “Liceo del made in Italy” va sicuramente nella direzione di colmare una lacuna esistente nel sistema educativo italiano, ma deve appunto fare i conti con le difficoltà conoscitive che abbiamo rispetto a tale tema. Non a caso di solito le iniziative educative relative ad esso si limitano a concentrarsi su uno specifico ambito. Si fanno, ad esempio, corsi di formazione sulla moda o sul cibo. Dunque rimane senza risposta una domanda: che made in Italy si può insegnare in un liceo come quello proposto?
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