Una gita a Parigi

22 Giugno 2024

Il mondo come story

Alla lotteria degli opzionali del mio ateneo avendo io vinto l'insegnamento di "Storytelling dei luoghi d'arte", ed essendo convinto – giacché lo sono – che le chiamate provenienti dall'esterno non sono necessariamente meno nobili delle vocazioni interiori, in questo periodo quando mi aggiro nel mondo reale lo faccio cercando di percepire quale storia stia cercando di raccontarmi. (Il mondo per convenzione chiamato reale non è forse per estensione il secondo, se non il primo, dei luoghi d'arte?). Vivo così alla caccia dei segni della Narrazione: quella che si rivolge a me e quella che io stesso potrei costruire dai segni che ne colgo. 

Le Grandi Narrazioni dissolte col Moderno erano infatti miti fondativi, visioni del mondo totali (e complete di indicazioni assiologiche: questo: sì, bene; quello: male, no). Se la Narrazione mi pare essere tornata a meritare l'iniziale maiuscola è perché la massa dei racconti minori liberata dall'evaporazione dei maggiori ha oggi superato la soglia critica e mi pare conglomerarsi in un'unica, poliedrica affabulazione che pervade la semiosfera e vuole convincere ognuno di noi di essere, ora e per sempre, un'appagata incarnazione del Re sul Sofà. Quel Re in Ascolto della storia, che è poi la storia di sé stesso ascoltante, narratagli in eterno da una serva-sirena. 

Parigi come luogo d'arte

All'aula devo quindi riportare tracce di questa Narrazione globale, in quella sua fetta che riguarda l'arte, e in particolare i suoi luoghi. In una recente gita a Parigi ho così, praticamente per dovere deontologico, deviato al penultimo momento i passi che stavo indirizzando verso il beneamato Musée Picasso e li ho indotti a condurmi, qualche isolato più in là, al pur meno fascinoso Musée Carnavalet, dedicato all'Histoire de Paris, dove non tornavo da vent'anni e più. Il primo mi avrebbe sì proposto Picasso, che è sempre un bel narrare e ascoltare. Il secondo però aveva qualcosa di più pertinente per me: è infatti un luogo d'arte che mi racconta come Parigi è un luogo d'arte che contiene moltissimi altri luoghi d'arte, tra cui il Musée Carnavalet medesimo. Senza essere stata congegnata né da Jorge Luis Borges, né da Michel Foucault, né da Maurits Cornelis Escher quell'affabile istituzione si fonda su una logica ricorsiva, paradossale, soprattutto metanarrativa. E il bello è che lo sa : infatti al visitatore offre quasi subito delle storie a proposito di sé stesso. Sul palazzo che lo ospita, sui potenti che lo hanno istituito, sui conservatori che l'hanno allestito e arricchito, storytelling sullo storytelling dei molteplici storytelling parigini. Come se a mo' di preambolo della biografia romanzata di un romanziere il biografo cominciasse romanzando un po' la propria. La Narrazione è infatti sbruffona, e sbrodolona – padanamente "sboróna", nel senso etimologico dell'acqua corrente che esce dal fosso (il "borro"): tracima, non si tiene, allaga tutti i campi.

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Non mi sbagliavo: al rabdomante dello Storytelling il Musée Carnavalet dà effettive soddisfazioni. Maquette, reperti archeologici, schemini, storie, storielle, feticismi, vedutismi, ambienti ricostruiti. Avete sentito parlare certo di boudoir: ma sapete di preciso cosa sia boudoir, ne avete mai visto uno? Il Carnavelet ve lo spiega e ve lo mostra: Tell & Show. E la Bastiglia? Nella piazza omonima non c'è più, hélas, l'hanno buttata giù. Al Carnavalet la vedete non in una ma in ben due diverse maquette. 

In quanto luogo d'arte (e luogo d'arte di luoghi d'arte) Parigi è un luogo comune, più tecnicamente un tòpos o anche un locus memoriae della cultura occidentale. Il visitatore raramente è un erudito e quindi compiendo il suo itinerario trova sì una serie di segni rimemorativi tuttavia non sa a che cosa rimandino. Il fazzoletto ha un nodo: ma perché? Cosa c'era da ricordare? Ecco che il Carnavalet si offre come fazzoletto, come nodo e anche come realtà storica evocata dal nodo. E, come meritiamo, ci tratta da infanti, quindi ogni sua bacheca, ogni pannello informativo, ogni allestimento è come cominciasse con un "C'era una volta". 

I pannelli informativi sono di serie diverse, secondo diversi modelli tipologici. C'è la didascalia, con i dati dell'oggetto esposto; c'è la spiegazione che racconta la storia narrata o racchiusa nell'oggetto (cos'era la Bastiglia, chi era Sainte Genèvieve, perché Marcel Proust aveva fatto foderare la sua camera con quel sughero) e la storia dell'oggetto stesso (chi ha commissionato il quadro, chi e quando ha donato la scrivania di Gertrude Stein al museo); c'è una serie di pannelli che racconta in modo molto semplificato e include anche disegni di bambini. Ancora più profondamente puerile è una tipologia innovativa, che a me ricorda un po' la Pimpa di Altan. Il testo consiste in un discorso in prima persona e a tenerlo è la persona o la cosa che è oggetto stesso dell'esposizione, che parla di sé, e al tempo presente, si tratti di Juliette Gréco o del Pont-Neuf: "Come il mio nome non lascerebbe sospettare io sono il ponte più antico di Parigi. È Enrico III che nel 1577 dispone la mia costruzione, ma le guerre di religione interrompono i miei lavori ...". 

Non è detto che entri loro in testa, ma intanto li ha intrattenuti: questo il principio che gli storyteller museali condividono con i maestri d'asilo.

Fabula rasa

Purtroppo aspiriamo a dirci inventori di intelligenze artificiali e chiamiamo "conversazioni" le nostre interazioni con le macchine, affinché anche esse ci facciano presto sentire di essere Re sul Sofà. Bisogna però ammettere che in certi compiti sono infallibili o quasi. Basta per innamorarsene? Dobbiamo davvero o sposarle o ammazzarle, come Shahrazād?

Bravissime sono a dare una misura alle nostre passeggiate, per esempio. È infatti servendosi in modo anche disincantato di Google Maps che si viene a sapere che un'ora e cinquantaquattro minuti bastano a coprire la distanza, se la percorriamo a piedi, che separa la sede del Musée Carnavalet dalla sede della Fondation Louis Vuitton. Sono calcoli meravigliosamente precisi. 

Alla Vuitton, per la mostra dedicata a Mark Rothko si è dovuto attendere non pochissimo in coda pure avendo acquistato il biglietto in anticipo. Rothko è infatti un artista di grande attrazione, lo si è sempre riscontrato, in ogni occasione in cui è capitato di visitare una sua personale (ancora a Parigi, nel 1999; a Basilea, nel 2001; a Roma, nel 2007).

Io, qui e ora, non sono però un visitatore neutro, foglio bianco pronto a farsi iscrivere nella memoria qualsiasi cosa incontrerà. No. Vengo avendo come guide Google Maps sotto ai miei occhi ma il cielo dello Storytelling dei luoghi d'arte sopra di me. 

Cosa trova il cacciatore di narrazioni, in una visita del genere? Inizialmente è tutto in regola. Gli spazi predisposti da Frank Gehry non propiziano un discorso continuativo ma sovrappongono la loro propria storia alla storia che stanno raccontando, il che magari è un tantino scomodo ma naturalmente va benissimo. Scendi, sali, non di qui, di là, entra, esci: il filo architettonico è intrecciato con quello espositivo, quando si perde questo è perché sta prevalendo quello. 

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Le sale sono precedute da pannelli assai facondi. Molto cospicuo quello cronologico, che scandisce la vicenda umana di Marcus Rotkovitch, poi Mark Rothko, e induce la gran parte dei visitatori a soffermarsi a lungo per leggerlo tutto. Avranno altre occasioni di assumere storytelling, visivo e verbale, e persino di produrne di proprio, in quelle prime sale, dove Rothko "non è ancora lui", come si potrebbe dire parafrasando il titolo del relativo testo nel catalogo "Rothko avant Rothko". Le opere esposte hanno afferenze tematiche come "Scènes urbaines, métro et portraits" o "Subway paintings". E dopo la Modernità arrivano mitologie e surrealismi: uccellacci del malaugurio, arpe eolie, Tiresia. Qui, chiaramente, da raccontare ce n'è. Si arriva poi a "Les années 1960", a quei "tableaux individuels" che, dice il pannello in tono il più possibile neutro, "attraverso uno stato di intimità" propongono "un'esperienza immersiva". Ohi ohi. Stato di intimità qui in mezzo, davanti a tutti? Cosa si intende? Alla nostra epoca, poi, l'"esperienza immersiva" è quella che si prova introducendosi in quei padiglioni ove non ci si propone né di andare Dietro al quadro, seguendo Federico Zeri (Longanesi, 1987), né di rimanere Davanti al quadro, seguendo Vittorio Sgarbi (Rizzoli, 1989), ma di entrarci persino dentro, al quadro, per esempio nel virtuale addiaccio di una notte vangoghiana, grazie a qualche ingegnere che ha desunto dal dipinto l'ambiente che ne viene raffigurato e ne ha prodotto una sorta di maquette abitabile. Ma è forse in questo senso che ci si può "immergere" in un Rothko? Proprio no.

Salendo i piani della Fondation Vuitton e, nel contempo, i gradi di allontanamento dell'opera di Rothko dalle figure del mondo naturale le sale si fanno via via meno affollate, forse c'è dispersione e intanto i tempi di sosta nelle sale stesse si sveltiscono un po'. I visitatori si soffermano quasi più che sulle opere medesime sui pannelli esplicativi, che in effetti sembrano volere trarre ogni più piccolo filamento di storytelling dalle pur scarne occasioni offerte dall'artista. Vicende come quella della sala da pranzo per il Seagram Building di Manhattan o quella della Cappella di Houston sono spiegate con dovizia di particolari e anche l'incarico Unesco, poi sfumato, in abbinamento con Alberto Giacometti viene enfatizzato, con il sollievo del genitore che accoglie ai giardinetti sinora deserti l'arrivo di un altro bambino con cui il proprio, seppure un po' asociale, magari giocherà. 

Tutto sommato quando lo storytelling interno ed esterno alle opere si dirada non si sa più tanto bene cosa dire e allora si capisce la signora italiana che giungendo di fronte all'effettivamente tenebroso "N° 8" del 1964 ha mormorato, con cadenza lombarda: "Ah, questo è proprio nero-nero". Eppure quello è il Rothko vero, tipico. Forse visto così, tutto assieme, fa un effetto poco immersivo? 

Il mistico attira ma, all'esatto contrario della narrazione, quando ci si è poi davanti non è che si sappia molto bene cosa farsene. L'ironia della storia, e dello storytelling, vuole che (se storytelling significa appunto nient'altro che narrazione e se la narrazione è il genere discorsivo che manifesta esplicitamente i principi narrativi che fondano la nostra percezione del mondo) dalle grandi tele di Rothko la narrazione è tutt'altro che assente. Soltanto che ciò che avviene non avviene alla superficie del testo, tra figure come quelle che nelle sale iniziali scendono in metropolitana o affollano le strade. Le vicende che i Rothko raccontano sono emersioni e metamorfosi di luce e colore, che si possono seguire e ricostruire stando davanti a ognuno di essi e puntando gli occhi dove sembra non esserci nulla da vedere. Non al livello delle figure-molecola, ma al livello degli atomi che le costituiscono, quasi come in un libro in cui a raccontare non siano parole integre e well-formed ma lettere sparse, disiecta membra di un discorso esploso. 

Si immagina che persino i visitatori più esperti non riescano a dedicare l'attenzione necessaria proprio a ognuna delle moltissime opere del "Rothko che è già Rothko". L'attenzione "immersiva" – che tanto ha gioco nel marketing attuale dell'arte – in realtà sarebbe però proprio questa. E a differenza dello storytelling non si può riprodurre, tradurre, "esportare" come un pdf in Word. Sorge allora il dubbio: se l'arte fosse esattamente quel che nello storytelling non entra?

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