Fatti
Ci sono i fatti (si dice) e ci sono le parole (di fatto). C'è la realtà e ci sono le voci che corrono. All'amico che garbatamente ti avvisa della voce che corre e di quel che viene detto di te si chiede subito: "Chi l'ha detto?". È appunto la voce che corre: non puoi farci nulla, anche se non dice le cose come stanno, anche se i fatti non sono quelli. La voce del popolo è la voce di Dio, assicura l'antica saggezza, con una profondità quasi disarmante. Prenditela col popolo, prenditela con Dio per quello che di te si dice in giro. Il popolo non è una persona, né lo è Dio. L'impersonalità sfugge a ogni verifica e smentita, a ogni fact checking. Ma allora l'ordigno che reagisce ai nostri prompt è una persona o no?
Il sottotitolo di Prompt. Chi parla? afferma che le diverse puntate sono "Voci raccolte" (da me). "Voci", sì: perché con MagIA abbiamo concordato di dare una forma a lemma a questi interventi; ma anche perché il sapere sull'IA corre come di bocca in bocca, nell'incalzare delle novità tecnologiche che supera ogni commento possibile e sollecita la nostra attrazione e il nostro timore per l'imprevedibile. Come attenersi ai fatti, quando i fatti si ostinano a essere nel loro farsi, non si fermano mai?
Uno degli amici con cui su questi temi mi do una voce mi sollecita: "Si usa dire che tutti concordiamo (o concordavamo) sui fatti e divergevamo legittimamente sulle interpretazioni. Ora sembrerebbe che non concordiamo neanche più sui fatti. Cosa cambia ora che i fatti sono filtrati sempre più dall'IA?".
Intanto guardiamo alla parola. Tra le parole comuni della lingua italiana "fatti" è una delle più frequenti e oltre che una parola è un caleidoscopio verbale. Le maestre di una volta ammonivano a non ripetere sempre "fare" nei temi, ma a usare uno dei moltissimi sinonimi: "compiere", "costruire", "realizzare", "preparare", "rendere", "effettuare"... Quando una parola ha tanti usi si rende disponibile alle più virtuosistiche ambiguità (Altan: "Papà, papà, ma i drogati sono fatti come noi?" "Di più, figliolo, molto di più") e anche alle più estrose variazioni. Pensiamo alla meraviglia della costellazione di sensi raccolta attorno al lemma "fattura": confezionamento (sia come atto sia come risultato), documento fiscale, fattezza e aspetto, incantesimo. "Fatturare" si usa sia per redigere un documento fiscale e realizzare vendite, ma anche per adulterare (per esempio il vino) e per stregare, gettare incantesimi. Su "fattucchiera" (strega, incantatrice) gli etimologisti sono discordi: chi la fa discendere da "fatto" chi da "fato" (e quindi "fata").
Vi prego di credere che non sto divagando. Se ora restringiamo il campo per inquadrare e isolare l'accezione più pertinente, quella di "fatto" come evento singolare e compiuto, vediamo che anche questa nel tempo si è dimostrata assai produttiva. Tradizionalmente si parla di "fatterello" e di "fattaccio", due accezioni diverse per definire ciò che merita di essere raccontato, per esempio nell'ambito del giornalismo (le "cronache minute" dei fatterelli e le "nere" dei fattacci). Più di recente a queste varianti se ne sono aggiunte due. La prima risale al 1973 e alla biografia di Marilyn Monroe scritta da Norman Mailer. "Factoid", in italiano "fattoide", si può impiegare per qualsiasi avvenimento che non ha avuto alcuna forma di esistenza prima di essere raccontato dai media. L'arrivo dei marziani creduto vero in seguito a uno sceneggiato radiofonico di Orson Welles nel 1938 è un fattoide dei più classici. Lo è anche il bacio di Giulio Andreotti a Totò Riina, testimoniato da uno degli astanti, smentito da almeno uno degli interessati e non comprovato dai processi, diffuso in una quantità di articoli, libri, documentari e così collocato in un limbo tra conoscenza e credenza. Due definizioni appena più articolate di "fattoide" si devono al semiologo Paolo Fabbri. Una riguarda l'effetto di verità del fattoide: "fatto simulato, ripetuto e diventato popolare quanto basta per essere considerato vero". L'altro riguarda la base di credibilità del fattoide: "un quasi-fatto generato dai media, che contiene un misto di constatazioni e di supposizioni presentate come fatti accettati alla massa".
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"Fattoide" è già registrato dai vocabolari italiani. Non così "fatticcio", se non nella desueta accezione di "robusto, tarchiato" che qui pertinente non è. È questa la seconda variante di "fatto", la più recente. Il sociologo della scienza Bruno Latour ha cominciato a parlare di "fatticci" alla fine del secolo scorso per federare due popolazioni sino ad allora reciprocamente ostili: quella dei "fatti" e quella dei "feticci". In Occidente i "fatti" sono quelli che si determinano naturalmente e che la scienza "scopre" e comprova. I "feticci" sono invece gli idoli che vengono costruiti da popoli scientificamente arretrati, gente che crede nel potere sovrannaturale di oggetti che magari ha materialmente costruito. Il punto di Latour è che anche i fatti da cui parte o a cui arriva la scienza occidentale sono stati "fatti", si sono prodotti dal fare dello scienziato, e generano convinzioni di oggettività. Cita un testo in cui Louis Pasteur racconta come ha posto le condizioni per la formazione di un fermento dell'acido lattico e dichiara di aver tratto conclusioni non irrefutabili dall'esperimento (ammettendo dunque trattarsi di un suo lavoro di costruzione); subito dopo averlo detto, sostiene che chiunque li valuti imparzialmente non potrebbe che condividere questi esiti. Il suo fare (soggettivo) era diventato un fatto (oggettivo) con la stessa naturalezza con cui una forma verbale progressiva si può trasformare in un participio, forma chiusa, perfetta, pronta a farsi aggettivo e sostantivo. L'operatore della trasformazione, a quanto dice Latour, è appunto il consenso di una comunità scientifica. Difficile da distinguere formalmente da una credenza, ancorché ben qualificata da titoli e (si chiamano così) "credenziali" accademiche.
Tra un fatto e un feticcio ci pare correre un abisso, ma tracciare il discrimine non è altrettanto facile. Non è utile neppure l'etimologia poiché anche "feticcio" deriva, tramite il portoghese, dal latino "fare". Ma il suo è il fare degli "artefatti", mentre i fatti sono quelli che crediamo nessuno abbia "fatto", che si sono fatti da sé. Lo crediamo o è proprio vero? Su cosa poggia la nostra convinzione? Latour non ne esce che concludendo che i feticci sono le credenze degli altri. Ragione per cui avanza la proposta (estrema e scandalosa) di considerarli in un concetto unificato, valido in entrambi i casi: il concetto di "fatticcio".
I feticci hanno per Latour una particolarità interessante: i suoi cultori attribuiscono loro un potere che va oltre la loro fattura. "Benché il feticcio non sia niente di più di ciò che l'uomo ha fatto, aggiunge, nondimeno, un piccolo qualcosa: inverte l'origine dell'azione, dissimula il lavoro umano di manipolazione, trasforma il creatore in creatura" (corsivi suoi). Lo stesso succede anche ai fatti: Pasteur ha prodotto quel tal fermento ma da quel momento lo ha considerato un dato di fatto a cui tutta la comunità scientifica si sarebbe dovuta adeguare (come è infatti accaduto).
Veniamo finalmente a noi: la proprietà del feticcio che abbiamo appena letto come la descrive Latour è singolarmente analoga a una proprietà dell'IA generativa. Anche questa è fatta dagli esseri umani che però la interpretano come generatrice autonoma di verità (anche a proposito degli esseri umani medesimi). L'oggetto che è stato fatto (artefatto) produce qualcosa che viene visto non come artefatto ma come fatto (oggettivo, impersonale, irrefutabile). Questo è tanto più vero perché l'IA "dissimula il lavoro umano di manipolazione" (ciò che Latour dice del feticcio) come niente e nessun altro.
Ma si sarà forse notato come tutti gli esempi che abbiamo proposto qui e il conio dei neologismi "fattoide" e "fatticcio" appartengono al secolo che precede quello dell'IA generativa. Era (di fatto!) tutto già lì. I fattoidi sviluppano credenze e sensi comuni alternativi come si sapeva già negli anni Sessanta; dai Novanta i fatticci testimoniano dell'impossibilità di fondare la certezza della conoscenza fuori dalla condivisione comunitaria di convinzioni. Fuori di IA la battaglia sulle verità – per esempio della medicina, per esempio negli Stati Uniti del secondo mandato trumpiano – non è già più epistemica bensì politica. Rivendicare la fattualità (o anzi la fatticità, con una sola C) dei fatti è insomma diventato, da epistemologicamente fuorviante, sociologicamente vano. Lo spazio che resta è per la fattività: l'efficacia delle pratiche che derivano dalle teorie. Non sarà più possibile verificare ipotesi, affermazioni, teorie risalendo a una loro sorgente incontaminata? Beh, in realtà non lo è mai stato, se non nei proclami.
Con tutto il potenziale di ciarlataneria e gaglioffaggine che mette a disposizione, la IA potrebbe però farci comprendere qualcosa a cui saremmo potuti arrivare anche prima. Che le evidenze ingannano, che la "naturalità" di ciò che è oggetto della ricerca scientifica è l'effetto di un lavoro di costruzione e di convenzione; che ogni cosa va valutata per le pratiche che consente, favorisce, sviluppa e per i protocolli seguiti dalle comunità che ne attestano gli esiti.
Da bambini abbiamo imparato a non accettare caramelle dagli sconosciuti. Da grandi dobbiamo imparare a non farci mai mettere davanti a fatti compiuti. Insegniamolo presto anche ai bambini.
Prompt, Chi parla? Voci raccolte da Stefano Bartezzaghi, speciale in collaborazione con MAgIA, Magazine Intelligenza Artificiale. Leggi la rivista qui.
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