Il risveglio, il mostro e il caos
O anche: la vita, l’amore e il rischio. Oppure: vivere o l’arte della fragilità. Penso a tanti possibili titoli alternativi per quello che vi propongo come uno screziato ‘trittico teatrale’, un tutto che si tiene e che ha a che vedere con la paura e la vulnerabilità, l’essere del e nel mondo, il fidarsi, lo sfidarsi, l’affidarsi.
Il lavoro che – cronologicamente – è andato a sistemarsi per primo nel mio trittico a venire è Foutoir céleste della compagnia Cirque Exalté, visto a Bruxelles il 19 ottobre scorso, sotto il tendone da circo allestito nel quartiere di Molenbeek dal Théatre National, Wallonie. Foutoir come disastro, disordine, caos, ma céleste, celestiale, paradisiaco.
Il secondo è Il mostro di Belinda, rivisitazione della fiaba La bella e la bestia, per mano, occhi e cuore di Chiara Guidi, maestra di riletture per niente infantili di testi chissà perché destinati all’infanzia. Visto l’8 novembre scorso, alle 10.30 del mattino, al Teatro Melato di Milano, circondata da bambine e bambini tra gli otto e gli undici anni, attoniti, attenti, in attesa.
Il terzo è Il risveglio di Pippo Delbono e della sua orbata compagnia, visto al Teatro Strehler di Milano il 20 novembre scorso. Nel titolo di questo scritto appare per primo, perché è dalla fine che è andato componendosi il mio trittico, a ritroso, come un rompicapo che mancava di un tassello per arrivare a compimento. Non è per associazioni, contiguità, somiglianze e soprattutto per interrogativi, i tuoi personali e quelli del tempo in cui insieme viviamo, che prende forma il pensiero? Le opere migliori aiutano a individuarli e dissodarli. È per indizi che – frammentati, dispersi, nebbiosi – essi giungono talora a trovare la loro misteriosa collocazione.
Tre parole cangianti, dunque: risveglio, mostro, caos.
Risveglio, secondo i nostri vocabolari, è passaggio dal sonno alla veglia, riscuotersi da uno stato di letargo o torpore, presa di coscienza, riavvio, rinascita, ripresa, risurrezione, ritorno. Eppure la prima reazione spettatoriale al ‘risveglio’ proposto da Delbono è di lutto, di pianto e di intensa commozione, come di fronte alla fine di qualcuno o di qualcosa che ci era caro e che non c’è più. Perché chiamare ripresa la celebrazione di una perdita, la spoliazione e il silenzio che la morte o un abbandono, una malattia, la vecchiaia stessa portano con sé? Può quel distacco, con il vortice di sofferenza e di disequilibrio che lo accompagna, essere soglia e portale, crocevia sulla mappa del vivere?
Popolata di amici andati altrove – Bobò, mancato nel febbraio del 2019, Gianluca… – di fantasmi che non si lasciano cancellare, la scena del Risveglio di Pippo Delbono è scarnificata all’osso: via i fiori, le luci, i colori, via le maschere attoriali, via il movimento libero nello spazio, via quasi in toto la danza, via il trionfo dei corpi, via la tessitura delle altrui parole prediletta da questo autore che ama i frammenti, le folgorazioni, gli impermanenti bagliori che appaiono nell’oscurità. Qui tutto è nudo e a nudo. Siamo di fronte al diario di una caduta e, chaplinianamente, di un assiduo risollevarsi. Il monologo di Pippo tuttavia non è una confessione, una semplice esposizione delle proprie ferite, bensì un racconto. E i racconti, si sa, sono stati inventati per dare alla tragedia incombente il tempo di sciogliersi in commedia, di dipanarsi in risata. Seduto pressoché dall’inizio alla fine su una sedia posta sul lato sinistro del proscenio, Pippo ci propone con humour la sua fragilità, la paura di precipitare, di essere e restare solo, ma anche la solidità di chi non si è dato per vinto perché sa che la vita è proprio questo, un continuo giocare con la morte, finché la morte non arriva davvero e allora si vedrà.
Nel raccontare di sé, dello smarrimento creato dalla scomparsa di Bobò, del mal d’amore che gli ha incrinato la vita, di quel suo corpo che è andato in tilt, ma che ha imparato a tenere il tempo e a governare il ritmo con le mani, le braccia, gli occhi, le espressioni del viso e il respiro, soprattutto il respiro, Pippo ride, sorride, vorrebbe che ci sentissimo più liberi di farlo anche noi, che ci togliessimo di dosso l’abito lugubre della seriosità. Le barzellette più belle non sono quelle che parlano di Madame la Morte e di Madame la Merde? Le scene che più ci fanno ridere non sono quelle in cui qualcuno inciampa, cade, scivola, slitta, rotola per poi rialzarsi?
Già, perché a poco a poco ci si accorge che la nudità del Risveglio narrato da Delbono e minimalmente agito dalla sua compagnia, l’apparente assenza di azione, quella sembianza di vuoto sono una tessitura di fragilità che si intrecciano fino a disfarsi in un abbraccio finale che è un amorevole inno alla gioia. Intanto, alle spalle di Pippo, dove all’inizio – su grande schermo – Ornella Vanoni da giovane cantava “È uno di quei giorni che ti prende la malinconia / Che fino a sera non ti lascia più”, adesso c’è Bobò. E Bobò, come dice Pippo bloccando sul nascere ogni patetismo, “balla tutto nello stesso modo”. Ed è questa la magia: la musica cambia, ma è questo omino a imporle la sua cadenza, non il contrario. Il risveglio ha a che vedere con questa ilare, non narcisistica, centratura.
Il Caos celeste della compagnia Cirque Exalté è, a prima vista, uno spettacolo di segno diametralmente opposto.
Siamo sotto il tendone di un circo: al centro c’è una pista circolare, la ‘scena’, ma tutto ha inizio alle spalle del pubblico, lungo una stretta passerella che cinge spettatori e spettatrici serrandoli in uno spazio minaccioso e ansiogeno. A entrare in scena per primo è una specie di trickster un po’ uomo e un po’ coyote, saettante figura dell’inganno e dell’elusione. È in sella a una bicicletta che scarta, fa rapidissimi testa-coda, si impenna, disarciona come un cavallo delle pianure selvagge. Lui la manovra con una maestria spericolata e beffarda e al contempo con leggiadria, guizzando accosto al pubblico, sfiorando il terreno, saltando, volando, zigzagando tra l’alto e il basso. E sarà in quella zona intermedia, fluida e sfuggente, che incontrerà schivandoli ogni volta per il rotto della cuffia gli altri sei membri della compagnia. Loro – tre donne e tre uomini, trapezisti, giocolieri, funamboli, acrobati, contorsionisti – fanno e disfanno il gioco ad alto rischio del fidarsi di sé affidandosi ai propri compagni. È una sfida spaziale e temporale insieme: lanciarsi nel vuoto senza starci a pensare, contando sul tempismo degli altri, sulla loro presenza lì in quel momento ad accogliere il tuo corpo che vola, fragile e confidente, aperto ed esposto, indifeso come in amore.
C’è, nella tenerezza furiosa di quei corpi che si cercano, si allacciano, si lasciano per poi ricomporsi e di nuovo staccarsi, una presa d’atto dell’incredibile forza che si accompagna alla vulnerabilità che rifiuta di pensarsi come dimensione individuale e privata. Anche qui, a un certo punto dello spettacolo, come nel Risveglio di Delbono, i performer sembrano sentire il bisogno di abbracciarsi, come dopo uno scampato pericolo o per affrontare meglio il pericolo che si annuncia. Tanti io che si fondono in un temporaneo, ponderato noi. Non contro il mondo, ma per fare mondo ipotizzando tracciati diversi da quelli previsti dalla legge di gravità e dai suoi aggrovigliati lacci.
E infine il dolcissimo Mostro di Chiara Guidi, figura della verità o della bellezza che si cela dietro il sembiante. Figura della duplicità e del perdono, che solo il corpo sa e può concedere. Figura ‘promettente’, come direbbe la filosofa statunitense Donna Haraway, schiusa, metamorfica, vulnerata. Non è certo un caso che qui la ‘Bestia’ si sia convertita in ‘Mostro’ e la ‘Bella’ in ‘Belinda’. E neppure che, tra i due termini, la congiunzione ‘e’ che unisce distinguendo, abbia ceduto il passo a un ‘di’ che specifica un’appartenenza, forse una fusione o uno sconfinamento. Il monstrum – dal latino monere – è un avvertimento, un segnale e un monito. Può venire da fuori, ma anche da dentro. Attrae e fa paura. In ogni caso si impone allo sguardo, lo polarizza. E tuttavia esige altri sensi e tutta la profondità della pelle.
Per ‘mostrare’ la vertiginosa complessità di questa fiaba sottoposta a una metamorfosi che l’ha trasformata in racconto d’amore, Guidi – complice il magnifico scenografo, costumista e disegnatore di luci Vito Manera – ha voluto lo spazio di una foresta incantata, così vicina da lambire il pubblico e così lontana che pare di vederla attraverso la lente di un telescopio. La guardi e sei dentro, la riguardi e sei fuori: ti ci perdi e si perde.
La foresta, si sa, è il luogo in cui ci si smarrisce per trovare sé stessi. È lì, fuori dalle mura ‘protette’ della casa paterna e della famiglia, che mito e fiaba hanno postulato chwe avvenga l’iniziazione alla vita che infaustamente riporta a quella stessa casa o a un suo simulacro. Per salvaguardare la vita del padre e, in sequenza, quella del mirabile ‘mostro’, Belinda, la ‘dolcemente luminosa’, si immola. Nel farlo – lascia intuire Guidi – si libera anche, mettendo al lavoro ogni parte di sé, tutti i sensi, il soggiogato represso non più arreso alla regola della paura. Il ‘mostro’, si potrebbe dire, la contagia, rivelandole la promessa del mostruoso, del difforme, disgiusto, dissonante che c’è in lei.
Sentite la mia voce? Sì? / Sì, ti sentiamo! / Ah, allora mi vedete! / No! / Se sentite non riuscite a vedermi? / No! Fatti vedere? / …no…no…per vedermi dovete sentire! Qui sta il gioco!
[…] Mi nascondo, non mi faccio vedere.
I bambini sanno bene che dentro ognuna/o di noi abitano odio e amore, dolcezza e rabbia, furia e quiete. Tutto nasce dall’insopprimibile dipendenza di ciò che è vivo, che è in vita perché dipende da altri e altro in un’amorosa concatenazione di nodi, un vero e proprio groviglio. Non si cresce bene sacrificando la parte nera di sé, quella capace di dire ostinati ‘no’, di rifiutare tanto l’obbedienza cieca quanto la disobbedienza gratuita. E così il ‘mostro’ di Guidi mi porta in altre direzioni. Ne imbocco una, per mettere ancora più a fuoco la lotta in corso tra il nostro lato chiaro e quello d’ombra, un apprendistato che non finisce con l’infanzia. Nel 2008 bell hooks, teorica femminista africana americana che molto ha ragionato sull’amore e le sue aporie, congeda insieme all’illustratore Chris Raschka un piccolo libro, Grump Groan Growl (broncio ringhio ruggito). Sulle pagine, come sulla scena di Guidi, il duello tra dipendenza e liberazione, un duello che strema e cattura.
L’amore, come la rosa di Belinda, punge.
L’ultima fotografia, di Eva Castellucci, raffigura ancora un momento di Il mostro di Belinda.