La democrazia dispotica
Il 23 febbraio del 2024 i ragazzi del Liceo Russoli di Pisa, minorenni, manifestavano pacificamente per la pace in Palestina e per la fine delle ostilità a Gaza. Non erano più di una cinquantina. Volevano passare per Piazza dei Cavalieri, cosa piuttosto ovvia, perché è là che più facilmente potevano fare sentire la loro voce. Non c’erano pericoli e minacce di nessun genere. Il messaggio che con le botte ne è venuto fuori è di uno stato che si accanisce contro i suoi cittadini più giovani, i quali devono obbedire minacciati dalla forza e dalla violenza. L’esatto contrario della democrazia, l’esatto contrario dell’apprendimento e dell’educazione in un sistema libero e democratico, l’esatto contrario di quel senso di autonomia, di libertà e di critica che dovrebbero e devono sostenere la formazione dei cittadini. Di più, l’accanimento è stato su ragazze e ragazzi minorenni che esercitavano il loro sacrosanto diritto a manifestare liberamente e pacificamente il loro pensiero. Per fortuna Pisa ha risposto alla grande. E non solo Pisa. La Pisa democratica si è riversata nelle piazze e per ben due volte ha fatto sentire la propria voce.
Ma non basta. Dobbiamo ora tornare a chiederci: che cos’è l’educazione se non esercizio della critica e pratica dell’autonomia individuale e collettiva? Cosa distingue un sistema democratico da uno dispotico se non in primo luogo la libertà di manifestare criticamente il proprio pensiero?
Chi può fidarsi di uno stato che mostra immotivatamente il suo lato violento e aggressivo invece di proteggere i suoi cittadini? Quanto distacco crea tra istituzioni e cittadini un fatto come quello di Pisa? Noi viviamo già in una democrazia in crisi determinata fondamentalmente da tre fattori: scarsa partecipazione; ignoranza pubblica; apatia politica. Tre fattori che non sono frutto del caso o di una, come si dice, degenerazione della democrazia. Questi tre fattori sono invece espressione di un tipo di democrazia che è quella oggi dominante in Occidente e che, probabilmente, meglio corrisponde al neoliberismo con i suoi mantra sulla fine delle ideologie, sulla fine della storia e sulla famosa frase della signora Thatcher: “non c’è alternativa”. Ai tre fattori infatti bisogna aggiungere l’assenza di futuro immaginato come un altro mondo possibile. I tre fattori, lo ripeto, scarsa partecipazione, ignoranza pubblica, apatia politica, a cui si aggiunge la perdita di storia e di futuro, sono i sintomi di un malessere psichico diffuso che si traduce ormai a livello di massa in depressione, panico, ciclotimia, ansia, angoscia. Come sfuggire a questo malessere? Con la fuga da sé stessi, con la dipendenza, con la full immersion del digitale che si mescola con l’alcool e la droga nel vano, silentemente disperato tentativo di non stare nel vuoto della noia dove vi è il rischio di ritrovare sé stessi ma senza il piacere di immaginare un futuro né la forza di ritrovare un passato. La noia, il taedium vitae di Lucrezio, Leopardi, Baudelaire, il vuoto in cui dolorosamente cerchiamo di ritrovare noi stessi, ma che in questa società che considera l’infelicità una patologia, cerchiamo di allontanare con gli anestetici, farmacologici e non. Guai oggi a pensare che la storia non è affatto finita e che è bene partecipare ritrovando senso critico e passione politica. Quando questo accade, e questo accade sempre più raramente, quando i giovani decidono di non sfuggire più a sé stessi, allora arrivano le manganellate, perché il ritrovare sé stessi manifestando liberamente il proprio pensiero è tornato ad essere una minaccia all’ordine pubblico
Alla fine della seconda guerra mondiale alcuni intellettuali si chiesero come far funzionare in una società di massa organizzata democraticamente la circolazione delle élites. E immaginarono appunto una democrazia a scarsa partecipazione. Cosa che si è verificata negli anni e che è sotto gli occhi di tutti.
Lipset e Schumpeter, per esempio, avevano pensato che una democrazia in una società di massa dovesse essere poco partecipativa. Ciò avrebbe favorito le élites nel governo delle cose e anche la loro circolazione e alternanza attraverso meccanismi più o meno referendari. Lo aveva segnalato il grande storico antico Moses Finley nel suo gran bel libro La democrazia degli antichi e dei moderni (Laterza, Roma-Bari 2005. Ma Finley l’aveva pubblicato nel 1972 ed era stato già tradotto nel 1973). Ignoranza e apatia, ben lungi dal costituire una patologia del sistema democratico, esprimono una possibile condizione della democrazia, quella che è oggi dominante e che viene fatta passare, a destra e a sinistra, come l’unica. Scrive Finley: “Il punto è stabilire se nella situazione odierna questo stato di cose è necessario e auspicabile o se forme nuove di partecipazione popolare, ateniesi nello spirito se non nella sostanza… devono invece essere inventate” (p. 36). Finley scriveva negli anni ’70. Oggi la situazione non solo non è cambiata ma con il neoliberismo si è addirittura aggravata.
Che dire della moderna alleanza fra democrazia e competizione delle élites? Uno dei presupposti dei discorsi che intendono coniugare democrazia con competizione delle élites riguarda il fatto che tale sposalizio tanto più è felice, quanto più cresce l'ignoranza politica e l'apatia pubblica. Tradotto in altri termini, nella democrazia così concepita, teorizzata e praticata (non sempre consapevolmente, e questo è peggio!), la partecipazione è uno strumento che serve al gioco delle élites, e, in quanto strumento, essa rimane vincolata ai limiti dell'ignoranza pubblica e dell'apatia politica. Essendosi dissolto il rapporto tra politica, territorio e comunità, e poiché la cultura di massa da popolare sta tornando ad essere soltanto plebea, crolla anche il senso della partecipazione (le primarie ne sono soltanto un pallido simulacro) che ora, in un modo diverso e nello stesso tempo simile ai regimi totalitari, si separa dal consenso. Risultato è un regime basato su regole democratiche fondamentalmente referendarie dove il consenso uccide la partecipazione. Il fascismo di oggi non si veste di un solo colore.
La politica che si è ormai ridotta quasi definitivamente a potere amministrativo subordinato agli interessi dei privati potenti, disaffezione verso le istituzioni, aggravata dallo smantellamento dello stato sociale e dalle difficoltà in cui si trovano scuola e sanità, aumento delle diseguaglianze, isolamento a causa della disgregazione delle comunità territoriali e proprio mentre si rende possibile una connessione e un collegamento planetari. Condizione paradossale: con l’avvento del digitale, mentre aumenta l’informazione pubblica (e grazie ai social abbiamo potuto vedere quello che hanno fatto i poliziotti a Pisa), nello stesso tempo si vive in una situazione in cui, come dicono i sociologi, siamo tutti isolati e connessi. Puoi collegarti con chiunque in qualunque angolo del mondo ma non ti accorgi di ciò che sta accadendo vicino a te, al tuo prossimo. Da qui il pericolo che si affermi una democrazia dispotica, una democrazia cioè che, pur mantenendo apparentemente le regole democratiche, le viola in nome dell’ordine e riproduca un antico rapporto di sudditanza che è quello tra leader e popolo ridotto a plebe. La plebe non è il popolo. La plebe presuppone un capo-despota a cui sottomettersi o a cui ribellarsi per poi soggiacere: il popolo, al contrario, comporta l’essere cittadini, con il loro senso di appartenenza e di partecipazione in prima persona a una cosa pubblica. È il popolo che ha a che fare con la democrazia. E la democrazia presuppone l’autonomia degli individui e delle collettività che la determinano.
Kant aveva definito l’Illuminismo come l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità. E la minorità come l’uso dell’intelletto con la guida di un altro. Ma se si rimane minorenni non si ha autonomia e se non si ha autonomia vi sarà sempre qualcuno che penserà e agirà per tuo conto. Ciò che deve insegnare la scuola ai minorenni è di uscire dallo stato di minorità e perché ciò accada è necessario che l’apprendimento non sia un semplice e autoritario accumulo di nozioni, ma si accompagni all’autonomia, cioè all’uso dell’intelletto senza la guida di un altro. La guida è necessaria, ma poi il suo scopo è di diventare superflua, perché ciascuno deve apprendere a camminare con le proprie gambe. Quando però i bambini non sono ancora capaci di farlo, sono aiutati dal girello. Eppure, esso può diventare una sorta di piccola prigione, capace di creare dipendenza, da cui il bambino dovrà, con qualche sforzo di volontà, liberarsi se vorrà assaporare la gioia meravigliosa di camminare e poi correre da solo. Se dovessimo mettere a confronto due concetti come sicurezza e libertà, scopriremmo che uno strumento come il girello tende a collocarsi nel mezzo, oscillando tra i due poli: dà al bambino un senso di sicurezza, necessario per cominciare a organizzare la propria autonomia deambulatoria, ma può alla lunga trasformarsi da momento di passaggio verso la libertà di movimento a un vero e proprio impedimento. In Che cos’è l’illuminismo?, Kant utilizza l’esempio del girello da bambini per mostrare come spesso vi siano uomini che, come quei genitori troppo ansiosi i quali, temendo i pericoli in cui può incorrere il bambino camminando da solo, scoraggiano i suoi tentativi di autonomia, sono pronti a rendere altri uomini dipendenti impedendo quella che egli chiama l’uscita dalla minorità. Tali uomini sono tutti coloro che, in una qualche misura, detengono un potere e intendono esercitarlo costruendo la loro autonomia e la loro libertà sulla dipendenza di coloro che non riescono o non vogliono uscire dalla minorità.
“Dopo aver per prima cosa istupidito, scrive Kant, i loro animaletti domestici e per aver accuratamente impedito che questi esseri pacifici potessero azzardare anche un solo passo fuori del girello in cui li avevano ingabbiati, allora mostrano loro il pericolo che li minaccia se tentano di camminare da soli. Ora questo non è in effetti un pericolo tanto grande, essi infatti alla fine imparerebbero a camminare bene, seppur dopo qualche caduta; eppure solo un esempio di questo tipo rende timidi e scoraggia generalmente da ulteriori tentativi” (I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, ETS, Pisa 2013, p. 15).
Lo scritto di Kant è del 1784. Qualche anno prima, nel 1765, Denis Diderot, immaginando gli uomini prigionieri nella caverna di Platone che vedono le ombre, aggiunse una schiera di figure che avevano il compito di produrre quelle ombre e di scoraggiare i loro possibili tentativi di liberarsi. Chi erano? Erano “re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure” (D. Diderot, L’antro di Platone, ETS, Pisa, 2009, p. 27).
L’illuminismo è oggi dimenticato, ma per Kant (come per Diderot) esso corrisponde all’autonomia e al pensare da sé. La scuola dovrebbe e deve insegnare tutto il contrario della scarsa partecipazione, dell’ignoranza pubblica, dell’apatia politica; tutto il contrario di ciò che fanno i prigionieri della caverna di Platone. La scuola dovrebbe e deve insegnare l’alta partecipazione, la competenza pubblica, la passione politica. La scuola dovrebbe e deve insegnare l’autonomia e il senso critico, grazie a cui governiamo il sapere che ci viene trasmesso evitando di restare nel girello dei bambini o addirittura, al contrario di Pinocchio, di trasformarci da uomini in burattini.