Altre Dune 

21 Marzo 2024

Dopo un’attesa di quattro anni (causa Covid, scioperi degli sceneggiatori e mille altri problemi) ecco che finalmente il regista Denis Villeneuve ci riporta nelle sale con l’attesissimo Dune: Part Two. Nel 2021, avevamo lasciato Paul Atreides e sua madre Jessica in una situazione disperata nell’inospitale deserto di Arrakis dopo che i loro arcinemici, guidati dal barone Harkonnen, avevano ucciso il Duca Leto e sterminato i loro uomini. Il seguito è ben noto, ma per evitare di anticipare qualcosa ai pochissimi che non conoscono le vicende di Dune, non dirò altro.

Oltre al film e, ovviamente, alle opere originali di Herbert, è possibile leggere un’approfondita analisi delle radici storiche e mistiche di Dune per le penne di Paolo Riberi e Giancarlo Genta, I segreti di Dune. Storia, mistica e tecnologia nella avventure di Paul Atreides (Mimesis, 2024). Si tratta di un volume diviso in due parti che riflettono le diverse competenze dei due autori. Se nella prima si esaminano le analogie religiose e culturali, nella seconda ci si concentra sugli aspetti tecnologici e scientifici. Il volume è gustoso perché, giocando a considerare la saga Dune come una possibile evoluzione del nostro mondo, si possono fare paralleli tra il nostro universo e una sua possibile evoluzione. Rimane il grande mistero della biologia dei vermi delle sabbie, ovviamente!

Il volume di Riberi e Genta testimonia il fatto che la saga di Frank Herbert – più ancora che la recente versione cinematografica – è stata il grande affresco su cui gran parte dell’immaginario del cinema fantascientifico (Star Wars, The Matrix, Alien, Inception, Avatar, solo per citarne alcuni) si è articolato negli ultimi quarantacinque anni. Il tema dell’eroe, anzi del Messia, in parte protagonista e in parte prigioniero della propria profezia, quando non vittima sacrificale, è diventato un modello archetipico onnipresente, a volte persino al limite della banalità.

Se quattro anni fa la prima puntata del remake di Villeneuve era stata salutata con entusiasmo – anche ingenuo e vagamente fanatico – dai fan di Herbert (mi includo in questa schiera), la seconda puntata, sempre interminabile (la durata è oltre due ore e mezza) non può più sfruttare l’effetto nostalgia e deve conquistare il pubblico per i propri meriti. Fortunatamente, la pellicola funziona e non fa l’errore di cercare di essere simpatica o aggiornata. Si prende sul serio. L’ambientazione e gli effetti speciali mostrano un deciso miglioramento: questa volta i vermi si vedono bene! Il film è visivamente spettacolare anche se la monotonia della tavolozza cromatica trasmette più la sensazione di una pellicola invecchiata che non la sensazione di caldo e di aridità del deserto. Nel complesso, la trama di Herbert viene rispettata anche se, inevitabilmente, un film di azione non riesce a dar ragione allo spessore dei riferimenti. L’unico appunto di stile che mi sento di fare è la tendenza di Villeneuve a contrabbandare la lentezza per la solennità. 

Tuttavia, qualcosa non è più lo stesso. Dal primo film di Villeneuve al secondo è passato «un attimo, ma come accade spesso, cambiò il volto a ogni cosa»: qualcosa ha modificato il panorama mediatico e culturale. Forse è una conseguenza del fatto che il mondo occidentale sta vivendo una serie di cambiamenti politici, culturali e tecnologici. Oppure la fine dell’attesa messianica in una versione cinematografica che avrebbe dovuto rispondere alle promesse mancate del visionario Dune di David Lynch (1984) e del mitico storyboard di Alejandro Jodorowsky che ci ha tolto l’innocenza. 

 

A conti fatti e a prescindere dal successo al botteghino, il film Dune: part two è rimasto vittima del successo della saga: i suoi temi e anche la sua estetica sono stati sfruttati così tanto e così a lungo da risultare, ormai, frusti e prevedibili; come una deposizione barocca, per quanto ben eseguita, è impossibile, guardandola, provare un brivido di genuino stupore. Come un film sui Vangeli o sulle epiche omeriche, un film su Dune sembra più una rappresentazione sacra che una storia da assaporare. Dune, da rivelazione è diventato liturgia e come tutte le liturgie è fondato su un copione talmente noto da poter essere recitato a memoria. 

Dispiace dirlo, ma nel film si respira un certo anacronismo: in fondo Paul Atreides ricorda più Lawrence d’Arabia che l’escatologia futura; è più condottiero che profeta. E lo Stilgar di Javier Bardem, il capo dei Fremen, ricorda terribilmente il comandante dei predoni berberi interpretato da Anthony Quinn. E sorge il dubbio che l’iride turchina causata dalla spezia fosse un omaggio agli indimenticabili occhi azzurri di Peter O’Toole alias Lawrence d’Arabia.

Frank Herbert ha sviluppato la sua saga basandosi su una visione del mondo sostanzialmente novecentesca e per sua stessa amissione aveva letto e riletto l’autobiografia I sette pilastri della saggezza dell’enigmatico T. E. Lawrence. L’orizzonte dei suoi eroi è più quello del ventesimo secolo che quello del terzo millennio. I tempi sono cambiati: non sentiamo più il bisogno e nemmeno il fascino di un Messiah. Le profezie hanno perso autorevolezza. Il Novecento di Herbert è finito ed è diventato un ricordo lontano e sbiadito. La generazione Z è scettica e non crede più alla santità di una guerra di religione. Semmai, in questi anni in cui viviamo l’arrivo della intelligenza artificiale, quello che ci colpisce di più è l’implicito riferimento al Jihad Butleriano, il grande filtro, che nella trama di Dune è il passato remoto, ma per noi potrebbe essere il futuro prossimo.    

In Dune ci sono due anime: una che guarda all’antico e una che oscilla pericolosamente sull’abisso di un futuro che potrebbe ingoiare ogni punto di riferimento. È questo secondo tema, ancora a livello di orizzonte mai raggiungibile, che Herbert svilupperà nel seguito della saga e che la versione cinematografica si limita ad annunciare. 

La possibilità di un «sentiero dorato» che l’umanità possa scegliere oltre le miserie quotidiane è la parte più attuale di Dune anche se non sempre traspare dalle vicende personali di Paul e Chani (rispettivamente Timothée Chalamet e Zendaya) e gli altri personaggi intrepretati da un cast di eccezione (in cui risaltano Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Javier Bardem oltre a uno straordinario Austin Butler). L’idea che l’esistente è sempre una parte infinitesima del possibile e che il futuro inevitabilmente, esplorando tutti i possibili, annullerà l’estensione dell’attuale corrente. È questa la via di Dune, è questa la vera profezia? Qual è il senso dell’esistenza? E come trovare un equilibro tra destino e vita privata? Come diceva Nietzsche nella Gaia Scienza, «Guai a te se ti coglierà questa nostalgia della terraferma, come se là ci fosse stata più libertà, ma adesso non c'è più «terra» alcuna!». Il fascino di Dune e di Paul, che poi è il fascino di tutti i profeti, è nell’abbandono della terraferma quotidiana, nel superamento di quella nausea che Jean-Paul Sartre denunciava nella dimensione borghese dei cittadini Bouville. Ma nell’orizzonte senza limiti della profezia, il rischio è sempre lo stesso: annullarsi nell’infinito. 

Il dramma di Paul non è vincere contro i suoi arcinemici, ma avere il coraggio di abbracciare il suo destino e diventare quello che ancora non è. Come recita la litania della paura delle Bene Gesserit «non devo aver paura. La paura è la piccola morte che porta alla distruzione totale. Dove è andata la paura non ci sarà nulla, rimarrò soltanto io». Ma che cosa sarà quell’io è oltre l’orizzonte degli eventi, al di là del confine dell’esistenza, ma non fuori della storia. Oltre i coltelli kriss, oltre la profezia di Shai-Hulud, oltre la morte della spezia, questo è il senso ultimo del Kwisatz Haderach («colui che abbrevia la strada», ma verso dove?), questo è il destino di Paul Atreides: diventare tutto e quindi perdere se stessi. Questo è Dune di Frank Herbert.

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