Qualcosa che vale

3 Dicembre 2024

Che cosa sono i valori? La nostra vita ha un senso oppure è un accadere fine a se stesso? Oltre al reddito e al piacere c’è qualcos’altro? Andrea Zhok, filosofo morale della Statale, si è interrogato a lungo su queste domande e ha appena completato e pubblicato il suo magnum opus, un imponente volume di quasi 500 pagine dal titolo Il senso dei valori. Fenomenologia, etica, politica (Mimesis, 2024). Non lasciatevi impressionare, il libro, per quanto lungo e articolato, si legge con piacere anche grazie a una capillare struttura ben dettagliata in un indice di (ben) sette pagine! Non è una lettura facile, ma nemmeno impossibile. Diciamo che l’autore ha privilegiato la completezza dell’esposizione, più che il desiderio di corteggiare un ampio pubblico.

Il tema del senso della vita è, oggi, più che mai attuale perché scienza, tecnologia ed economia stanno cambiando il panorama antropologico di riferimento. In una società postmoderna che ha messo da parte i valori assoluti che avevano fatto da guida nel mondo occidentale, per cosa vale la pena vivere, faticare, esistere? Il volume di Zhok affronta il tema in modo così sistematico e completo da poter persino essere preso in considerazione come manuale di riferimento sul tema dei valori.

Il sottotitolo riflette con chiarezza la struttura del libro: un percorso che si snoda dalla fenomenologia alla politica, passando per l’economia. In linea con le sue tesi, Zhok non circoscrive la natura dei valori alla dimensione personale, ma ne esplora il ruolo nel modellare l’economia e nell’orientare la politica. Il punto di partenza è un’analisi del soggetto, affrontata da una prospettiva fenomenologica: siamo corpi dotati di intenzionalità, proiettati nel mondo in maniera teleologica. Zhok non si sofferma a giustificare l’esistenza dell’intenzionalità o della telicità, intese come forme di «tensione verso qualcosa». Per lui la struttura intenzionale del soggetto è un presupposto di base (che non tutti condividerebbero). Non a caso, in lavori precedenti, aveva già approfondito il tema della coscienza e della fenomenologia.

Allargando lo sguardo, Zhok prende in esame la nostra società e lo svuotamento di senso che la caratterizza. Questa progressiva erosione della dimensione del valore è dovuta a vari processi concomitanti. Da un lato la riduzione dell’esistenza a vita monodimensionale, secondo la celebre formula di Herbert Marcuse, e quindi a pura esecuzione economico-funzionale. Dall’altro lato, la soluzione prevalente nel mondo occidentale moderno e contemporaneo, ovvero la combinazione di soggettivismo assiologico e obiettivismo ontologico. Due parole di spiegazione sono d’obbligo. Il soggettivismo assiologico è la tesi secondo cui i valori e le intenzioni sarebbero «nell’unica riserva indiana di valore cui è possibile appellarsi […] lo spazio privato di ciascuna mente individuale». In parole povere, ogni scarrafone è bello a mamma sua. Mentre l’obiettivismo ontologico è la tesi secondo cui la realtà è fatta soprattutto di cose, che sono strumenti e mezzi, che interagiscono come ingranaggi meccanici senza aver alcun senso intrinseco.

j

Se si accettano queste due tesi, tra l’altro espresse con chiarezza anche da Yuval Harari in Homo Deus, il mondo è privo di significato e saremmo noi ad assegnarglielo arbitrariamente. Come scrive Zhok, «tutto ciò che conferisce significato al nostro mondo […] è stato posto come apparenza irreale rispetto alla realtà fisica». Ma se il mondo fisico è privo di valori, come suggerito dall’ontologia scientista, come mai si pone il problema? Perché qualcosa vale e qualcosa no? Questa è forse la parte più interessante, ma anche più controversa del testo di Zhok. La soluzione di questo enigma deriverebbe dall’articolarsi della vita stessa, intesa in modo generale come la forma che siamo, in termini di «un’attività organizzata che nel momento in cui si dà crea uno spazio di senso».

Zhok distingue tra senso e valore, come del resto annuncia il titolo. Il senso sarebbe ciò per cui vale la pena vivere e morire. Il valore sarebbe l’oggetto o la situazione su cui fa perno il processo di creazione del senso. Anche se Zhok non lo dice esplicitamente, il suo processo dinamico (dynamis) che dà senso all’esistenza ha molte somiglianze con l’ontologia del processo basata su occasioni attuali del filosofo americano A. N. Whitehead. Semplificando un po’, secondo Zhok, la forma che siamo, che è una vita, si articola nella realtà e in questa articolazione, che è la condizione della sua esistenza, trova il proprio orizzonte di senso.

Zhok rifiuta tanto l’arbitrarietà privata di questo senso, quanto la sua normatività astratta. Per capirci, il senso non è né soggettivo né l’imperativo categorico di Kant. Il senso nascerebbe dall’interazione tra una vita e il suo ambiente nel modificarsi reciproco e nel cercare un equilibrio olistico tra la spinta a realizzare tutti i possibili e la ricerca di un bilanciamento tra se stessi e il mondo circostante. In questo modo ogni essere «non inventa valori, ma li scopre nell’interazione come l’alterità del mondo, che viene così compresa e assimilata».

È il punto cruciale della proposta di Zhok che vuole trovare un punto neutro (come l’ontologia del processo di Whitehead e altri monismi neutrali) tra soggetto e oggetto, qualcosa che non sia né solo materiale né esclusivamente mentale. Non sono sicuro che ci riesca perché alla fine fa appello all’esito «di una “negoziazione”, di una sintesi tra soggetto e mondo». Il soggetto esce da se stesso e troverebbe nel suo rapporto con l’altro da sé la «dimensione del conferimento del senso». Bene, ma non benissimo, mi verrebbe da dire. Bene perché il valore non può che essere fuori dal soggetto e costituire la realtà. Non benissimo perché nel libro di Zhok non si affrontano parecchi assunti come il costituirsi del soggetto e della sua struttura fenomenologica che viene presupposta, ma non dimostrata.

Ovviamente, il problema del valore si intreccia con il problema della libertà che non è mai semplice scelta tra opzioni sulla base di un criterio funzionale, come ci viene raccontato nella società liberale, ma individuazione del principio di valore e di senso sulla base del quale decidere. Non si può essere liberi senza avere dei valori, ma come si possono scegliere dei valori? Se i valori sono privati e arbitrari, la scelta si riduce a casualità. Se, viceversa, i valori sono oggettivi o persino assoluti, la libertà è dominata dalla ragion sufficiente. La libertà sembra essere prigioniera di queste posizioni contrapposte: determinismo vs caos, ragion sufficiente vs irrazionalità. Il tema è arduo e, come nel caso dell’ontologia dei valori, non si trova una soluzione definitiva.

Ma il testo di Zhok non si limita ad affrontare gli aspetti più teorici e analizza le conseguenze che questi modelli del valore hanno sulla nostra società. Ovviamente, il suo primo bersaglio è la società liberale e capitalista che, a suo dire, è vittima di una concezione privata del valore che, paradossalmente, lascia libero il campo a una concezione assoluta dei mezzi e del capitale. Se il valore è qualcosa di privato e quindi di immateriale, diventa epifenomenico. Il soggetto diventa un punto immateriale che fa da perno alla realizzazione illimitata e fine a se stessa della tecnologia e dei suoi mezzi: «è il paradosso della cultura liberale che si presenta come una cultura di valorizzazione dell’individuo, ma in effetti lo dissolve come persona». D’altronde le alternative, sempre secondo Zhok, dal Marxismo alla dottrina sociale della Chiesa, non hanno avuto maggior fortuna.

Confesso di non condividere del tutto alcune conclusioni del volume, ma di avere trovato molte intuizioni convincenti. A partire dalla trasformazione del futuro da ispirazione a preoccupazione come conseguenza di un’esistenza svuotata di valore. Anche la critica alla meritocrazia coglie nel segno: «la meritocrazia non è […] l’apprezzamento delle capacità adatte a un compito [ma piuttosto] un sistema di selezione e coltivazione di specifiche forme di conformismo. L’accreditamento avviene […] attraverso l’adeguamento alle regole di accreditamento vigenti, quali che siano. Al ceto tecnocratico possono accedere anche soggetti di umili natali, ma difficilmente soggetti non conformisti». Tragicamente vero!

Il testo è lungo e complesso e, ovviamente, impossibile da condensare in poche righe. Tuttavia ha il grande merito di affrontare il tema del valore e del suo senso in modo organico e ampio seguendo un percorso che mette a nudo molti punti nevralgici della nostra società che, quasi sempre, rimangono egemonicamente invisibili e, per questo, ci governano inconsciamente. Personalmente, non credo che la ricerca di un equilibrio tra soggetto e oggetto, tra persona e mondo sarà sufficiente a risolvere l’inerente instabilità dello sviluppo tecnologico. Non credo nemmeno che sia innaturale, come dimostra l’albero della vita che non è altro che l’esplorazione di ogni combinazione dei viventi. Il punto debole dell’esortazione finale dell’autore al contenimento della spinta faustiana della società tecnocratica e capitalistica è nel presumere di sapere quelli che possono essere gli esiti e le scoperte che ci aspettano davanti a noi. L’equilibrio è la soluzione ottima soltanto assumendo la stabilità dei fattori in gioco, ma è proprio nella continua creazione o scoperta di possibilità inconcepibili che si gioca la scommessa della cultura occidentale. Nell’analisi di Zhok leggo una certa stanchezza, a tratti rivolta verso un passato rassicurante, che rischia di rimanere prigioniera dell’esistenza. Il Cristoforo Colombo di Guccini canta «Non gli manca il coraggio o la forza per vivere quella follia.
E anche senza equipaggio, anche fosse un miraggio ormai salperà via. E naviga, naviga via, verso un mondo impensabile ancora da ogni teoria». Questo coraggio richiede follia perché fa una scommessa sulla realizzazione di possibilità ancora impensabili e quindi non disponibili oggi. Per Zhok, d’altronde, la libertà è la scoperta del valore. Io oserei di più: la libertà è la determinazione della propria necessità e quindi valore; un valore che non esisteva prima della scelta. Zhok è molto saggio, ma non sempre la saggezza ci spinge oltre i nostri limiti.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Andrea Zhok