Alla ricerca dell’Uno perduto

19 Giugno 2024

Se la natura contiene tutto, allora anche l’essere umano deve essere dentro la natura e la sua comprensione non deve essere considerata un elemento estraneo. Einstein osservò che «l’eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità». Siamo abituati a guardare a noi stessi con un occhio diverso da quello con il quale guardiamo al mondo fisico: persone da una parte e cose dall’altro. Eppure, questa doppia prospettiva strabica rompe l’unità della realtà e presuppone di sapere molto più di quanto non si sappia. Gli esseri umani – gli esseri intelligenti, animali non umani e, in futuro, intelligenze artificiali – potrebbero essere il modo che la natura ha trovato per comprendere se stessa. L’essere umano è qualcosa di più di una piega della realtà? Sono domande che vanno al fondo della nostra esistenza e della nostra cultura. 

Come la fisica ha bisogno di trovare un punto di osservazione, così la psicologia e la filosofia devono appoggiarsi su un fondamento che superi la dimensione personale. Eppure questo connubio tra fisica e filosofia, così urgente oggi, è un tema che raramente viene affrontato per timore che, uscendo dai limiti angusti di discipline specifiche, non si disponga della precisione e dell’autorevolezza richieste. Il fisico quantistico Heinrich Päs, autore di Uno, L’idea Antica che contiene la fisica (Bollati Boringhieri, 2024) non ha – è evidente – non ha nessuna di queste paure e ha pubblicato un volume affascinante per ampiezza e profondità. Il filo rosso è la domanda: possiamo trovare una unità che lega esistenza individuale e universo, soggetto e oggetto, filosofia e scienza, persino religione e natura? Il libro copre un orizzonte vastissimo e non può, inevitabilmente, fare giustizia a tutti gli autori che vorrebbe includere in un abbraccio quasi universale, ma questo è un peccato veniale. Troviamo affiancati Eriugena, Agostino, Einstein, Bohr, Everett, Cusano, Zeh, le Upanisad, gli dei egizi in un grande affresco che è una sorta di cover della fisica e della filosofia alla Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Nella stessa pagina si può andare dalle intuizioni mistiche di Eckhart all’entanglement di Schrödinger. Qualcuno potrebbe storcere il naso, ma sarebbe una critica ingiusta. Non si può accusare un supermaratoneta di non avere la precisione di un quattrocentometrista. Al contrario, il libro di Päs ha il merito di confrontare, lungo le sue dense 337 pagine, una quantità enorme di autori che, nel corso del pensiero Occidentale, hanno inseguito – e forse intravisto – l’unità di fondo al cuore della natura e della nostra esistenza. Non a caso, il titolo del volume si richiama proprio all’unità che potrebbe costituire la cifra finale (o iniziale), l’alfa e l’omega, della realtà. 

Il problema è quel ripiegarsi della natura che dà luogo al nostro esserci, il passaggio dall’essere del mondo al nostro essere nel mondo. Questo interrogativo, che la filosofia ha affrontato e cercato di esplicare, non è affatto scomparso con la fisica moderna. Anzi ha trovato una nuova declinazione che, nella relatività, corrisponde al problema dell’hic et nunc e, nella meccanica quantistica, è il salto tra il potenziale inosservato e l’osservato in atto. Se, da un lato, la realtà sembra non richiedere la presenza del punto di vista, dall’altro l’universo sembra perdere la sua cifra unificante senza un occhio che guarda. Il passaggio dall’oggetto al soggetto è poi così diverso dal passaggio dalla potenza all’atto? Lo stesso Aristotele aveva colto che l’anima è, in potenza, tutte le cose. Non è un caso che Päs, ventitré secoli dopo, dedichi tante pagine alla coscienza – la nostra esistenza – quante alla decoerenza – il determinarsi del mondo materiale secondo la meccanica quantistica: se l’universo è tutti i possibili, perché io sono solo uno di essi? Perché l’esserci del soggetto si annida nell’essere del mondo?

La lettura del volume dimostra che la fisica non ha affatto eliminato la metafisica, nella misura in cui quest’ultima è l’espressione della struttura della realtà; l’ha soltanto raccontata con parole diverse – forse, oltre al greco, i filosofi moderni dovrebbero mettere anche le equazioni della matematica. Il pregio di Päs è far incontrare concetti e termini che raramente camminano insieme a causa di quella insondabile fossa tettonica che ha separato i due continenti della cultura umanistica e delle science naturali; una contrapposizione che si alimenta di speculari ignoranze. La distanza tra parola e numero – tra lettere e cifre, tra forma e materia – nasconde il pregiudizio metafisico secondo cui l’essere umano, in quanto soggetto dell’esserci, sia in qualche modo esterno alla natura, in quanto oggetto dell’esistere. Ma questa è una tesi metafisica, non un fatto certo: cogito ergo sum o sum ergo cogito?

In effetti, il libro di Päs arriva in un momento in cui si assiste a una lenta erosione delle prerogative dell’umano. Dalle neuroscienze all’intelligenza artificiale, la presunta specialità dell’essere umano è messa in discussione. Allo stesso tempo, però, come in un nastro di Moebius dove ogni lato, se percorso abbastanza a lungo, diventa il suo opposto, il soggetto scompare da una parte per ricomparire dall’altra. Per molti, magari più abituati a pensare alla mente da un punto di vista interiore, può sembrare strano, ma il soggetto è ri-spuntato proprio dove nessuno pensava di trovarlo: studiando la natura e riscrivendo le leggi dell’universo. E qui, ovviamente, torniamo alla coincidenza degli opposti di Cusano e notiamo che il progresso della fisica è stato un cammino dal molteplice verso l’unità. La grandezza di Newton, per dire, è consistita nel saper dire perché la mela e la Luna, pur sembrando diversissime – la mela cade sulla testa e la Luna sembra descrivere moti circolari perfetti – stiano in realtà facendo esattamente la stessa cosa. Ovviamente, non basta dire, come Talete, che tutto è acqua, bisogna anche spiegare come mai, se tutto è uno, tutto sembra diverso. 

Nella scienza, ogni passo in avanti nasconde una sottrazione, nello spirito di Ockham che ammoniva di non moltiplicare gli enti. Argutamente, Borges ricordava che lo specchio è diabolico perché, come la copula, moltiplica gli enti e l’etimologia di diavolo riporta alla divisione. Il processo opposto è la scoperta dell’uno che sottostà al molteplice. Ma se tutto è uno, perché si divide? E come mai c’è questa contrapposizione tra noi e il mondo, tra osservatore e osservato, che poi è il vulnus irrisolto al cuore della meccanica quantistica e, in fondo, anche della metafisica classica? Si ritorna incessantemente al punto di partenza, ma non si è mai gli stessi e, quindi, non si ritorna mai veramente allo stesso punto. 

Fisica e natura, soggetto e oggetto, essere e apparire, uno e molteplice sono i poli di questa danza che – idealmente come Shiva o Dioniso ma in concreto nella vita di filosofi e scienziati – incarna la vita, la potenza autogenerante, la natura naturante di Spinoza, lo Streben di Faust, l’immanenza pura in atto, la realtà multipla di Mercurio, l’esistenza relativa. In opposizione a questo moltiplicarsi forsennato, a questa realizzazione di tutti i possibili, a questo divenire inarrestabile si staglia la figura dell’uno immobile, del dio crudele perché geloso della vita, dell’Apollo dalla luce abbagliante, dell’uno trascendente, della trascendenza sterile perché non generata e non generante, del pensiero senza oggetto, della coscienza pura della meditazione. Come si passa da essere a divenire se, come dicevano Severino e Parmenide, l’essere è e non può non essere. Il vertice della piramide brunelleschiana è fuori dallo spazio e per questo è senza dimensioni.

È facile dire, «io sono qui e guardo la natura», ma questo io e questo qui dove sono? Come può la natura curvarsi su se stessa? Questa piega, questa natura cum-plica, è il tema di un disegno che l’autore ripropone in tante versioni: la cosiddetta U di Wheeler (vedi l’immagine sotto). John Wheeler è stato un fisico del Ventesimo secolo capace di intuizioni straordinarie e, come tutti i protagonisti del pensiero, si interrogava sull’interrogarsi; come è possibile che il mondo veda se stesso. L’osservazione, che è il punto di appoggio su cui tutta la scienza fa leva, è bizzarramente fuori dalla fisica. Come si vede dalla U, il tratto verticale destro scende e, invertendo la sua direzione, risale nel tratto di sinistra diventando un occhio che guarda indietro e perde la sua unità. La U, graficamente, è una lunga I (che in inglese, lingua madre di Wheeler, evoca l’io) che, curvandosi, produce una dualità.

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I fisici del Ventesimo secolo hanno cercato nelle equazioni quella autoconsapevolezza che Hegel cercava nella fenomenologia dello spirito; l’indecidibilità nelle equazioni della logica scoperta da Gödel ha analogie con l’autoriflessione della coscienza. La nostra esistenza non può essere un residuo ontologico da ignorare. Il principio antropico di Barrow e l’imperativo categorico di Kant inseguono quelle condizioni trascendentali che il nostro esserci di soggetti pone all’essere dell’oggetto. Se ci siamo, l’universo deve essere tale da permettere la nostra esistenza: la natura non fa miracoli.

Uno dei pregi del libro è la ricchezza di elementi biografici capaci di conferire spessore esistenziale alle controversie concettuali: indimenticabile il fallimento dell’incontro tra due delle maggiori menti della rivoluzione quantistica – Niels Bohr e Hugh Everett – destinati a non capirsi. D’altronde, se la natura trova voce nelle nostre vite, non si possono disgiungere idee e giornate, verità ed esistenza individuale. In questo itinerario, Päs racconta l’impegno degli esseri umani nel dar voce all’inaudito in contesti che, quasi sempre, sono dominati dall’inerzia conservatrice della tradizione. Se nel Seicento Bruno fu messo al rogo, in tempi recenti le comunità di studiosi «sviluppano uno stigma molto potente nei confronti di chiunque sia sacrilegamente critico nei confronti dei fondamenti del paradigma corrente». Eppure anche oggi, come in passato, ci troviamo di fronte all’ennesima crisi delle certezze; al punto che molti lamentano che si è «innescata una crisi impressionante nella fisica fondamentale». Alla radice di questi scricchiolii, c’è ancora quel taglio netto dell’esistere – braccio sinistro della U, I, 1, io, uno, identità – che non trova posto nel dogma della natura e che siamo noi. Forse, l’ostacolo che ci impedisce di trovarci non è qualcosa che non sappiamo, ma piuttosto la presunzione di sapere qualcosa che crediamo di sapere e che, come nelle migliori rivoluzioni scientifiche, dobbiamo riconoscere di non sapere.

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