Cultura profetica: fatti e illusioni
Può la categoria della profezia avere ancora senso nel nostro mondo ipertecnologico e postmoderno? Secondo Federico Campagna, autore di un volume erudito, Cultura profetica per i mondi a venire (Tlon, 2023), la risposta è affermativa. La sua tesi, esposta in un testo complesso, ma anche divertente, è che il mondo «occidentalizzato» ha ormai i giorni contati e quindi che non ci resta che lasciare ai posteri, a mo’ di messaggio nella bottiglia o di capsula nel tempo, un messaggio profetico. In questo modo chi prenderà il nostro posto, guardando indietro a un passato mitico che sarà la proiezione del nostro presente, potrà costruire un futuro migliore. Per riuscire in questo canto del cigno della nostra civiltà, quattro figure fondamentali – il metafisico, lo sciamano, il mistico e (appunto) il profeta – dovranno unire le forze per diventare un quadruplice farmaco. Ovviamente, come si può intuire dal titolo, il profeta sarà la posizione chiave.
Il testo (traduzione dell’originale inglese del 2021) procede attraverso una selva di citazioni e riferimenti colti che, a volte, possono lasciare perplesso il lettore. Tuttavia la visuale è ampia e si avvale di interessanti analogie storiche, non sempre inedite, come il confronto diversi medioevi, terre di mezzo temporali, che si sarebbero susseguiti in tempi anche lontani – non solo il classico periodo fra Giustiniano e Colombo, ma anche l’interregno fra micenei e greci. Proporre il Medioevo come una stagione universale che attraversa periodicamente le vite degli uomini è un buon spunto di riflessione. Altrettanto affascinante è l’ipotesi che ogni civiltà trovi, nelle ceneri di chi l’ha preceduta, la cornice dove collocare un nuovo sistema di valori e di storie.
Onestamente, la figura centrale definita anche «posizione cosmogonica», ovvero quella del profeta, non è facile da mettere a fuoco, anche per lo stile che tende a presentare, come in una vetrina natalizia stracolma di beni eterogenei, una pletora di casi e riferimenti, sicuramente interessanti, ma di difficile integrazione. Forse affascinato dallo stile enigmatico delle profezie, l’autore adotta qui un approccio misterioso e allusivo. Secondo Campagna, il profeta, coerentemente con la propria etimologia, «parlerebbe di fronte» al mistero. Non è un autore, ma un tramite tra una sorgente di verità fuori del mondo e la nostra cultura. Il profeta, quindi, presterebbe la voce a una realtà che, proprio in quanto esterna all’esistere quotidiano, consentirebbe di intuire valori fuori dalle logiche funzionali ed economiche.
Non si deve confondere l’indovino con il profeta. Se il compito del primo è pre-dire eventi futuri dentro-il-tempo, la missione del secondo è esprimere un orizzonte fuori del tempo, forse assimilabile all’eternità. In questo modo, il profeta getta il ponte che collegherà civiltà separate da interregni di crisi e di oblio, medioevi venturi. Come dalle sepolte camere neroniane emerse una estetica grottesca e allusiva di archetipi universali, così il profeta dovrebbe seppellire in grotte metaforiche (e non) ciò che, nella nostra cultura, non è ancora stato completamente annullato e banalizzato. Il volume termina con un’ultima parte composta da un racconto allegorico i cui episodi, coerentemente con lo stile profetico, vorrebbero fornire un esempio al tipo di comunicazione simbolica ed enigmatica.
Quello che nel libro non convince è l’adesione non argomentata a una serie di giudizi e previsioni circa il futuro della nostra civiltà. Ripetutamente, l’autore ci ricorda che il nostro mondo è agli sgoccioli ed è destinato a un repentino quanto inesorabile declino. Il progresso tecnologico sarebbe sull’orlo del baratro a causa della sua crescente complessità. Espressioni come «in questa nostra epoca, al tramonto del sistema di realtà», «per chi oggi vive le ultime battute di questa ormai declinante canzone-mondo», «l’inutile realtà fattuale del nostro tempo», «questo mondo prossimo alla morte», «nuovi secoli bui copriranno i domini della modernità occidentalizzata, estendendosi su tutte le plaghe della terra su cui oggi regna» lasciano perplessi sia per la loro attendibilità empirica quanto per la mancanza di una loro giustificazione concettuale. Siamo sicuri che il nostro mondo sia stato solo un fallimento e sia in agonia? Ma chi ce lo assicura? A me non pare e comunque, come lettore, vorrei tanto che l’autore mi spiegasse quali sono le sue fonti. Certo, ogni epoca ha la sua quota di orrori ed errori, ma non mi sembra che ce la siamo cavata poi così male. Tecnologicamente, siamo andati dalla penna d’oca di Galileo allo Starship in meno di 500 anni. Socialmente ed eticamente viviamo in una società largamente più tollerante e aperta di quelle di qualche centinaio di anni fa. Minoranze e diversi trovano riconosciuti i propri diritti. Dove sarebbe la bancarotta esistenziale e l’abisso etico denunciati dall’autore? Non mi sembra che la schiavitù romana o la cattività troiana fossero su un piano più elevato, a meno di considerarle solo nella loro idealizzazione letteraria (e poi nemmeno). In concreto, su scala mondiale, quasi tutti i parametri (lunghezza della vita, nutrizione, salute, istruzione, sensibilità etia) sono in crescita. Dove sarebbe la curva discendente? Non mi pare di udire alcun rumore di cateratta verso la quale staremmo scivolando …
Un testo filosofico si trova spesso a metà strada fra un ragionamento convincente e l’espressione di una visione personale. Nel secondo caso, purtroppo, la forza argomentativa, quando non è affiancata da uno sforzo dialettico, è proporzionale all’affinità culturale tra autore e lettore. Campagna è un esempio del secondo caso e l’impressione è che si rivolga a una comunità di lettori che condividano – senza bisogno di giustificazioni – il suo millenarismo laico e la sua attesa/speranza di una fine del mondo. La sensazione è che l’autore dia sfogo a un sentimento di estraneità nei confronti del mondo contemporaneo prevedendone un fallimento catastrofico.
Questa visione è presente anche in opere precedenti di Campagna, come Magia e tecnica. La ricostruzione della realtà (Tlon, 2021), in cui l’ossatura tecnologica ed economica della nostra civiltà è contrapposta a una dimensione soggettiva, privata e personale che troverebbe sollievo nella fuga dal mondo. Per l’autore, la realtà non sarebbe mai autonoma, ma emergerebbe, post-strutturalisticamente, da un processo di worldbuilding durante il quale gli esseri umani creerebbero narrazioni. L’autore rifiuta il valore positivo dell’immanenza che è sostituita da un misterioso «atto di creazione ex nihilo», un «atto di fondazione del mondo – un fiat lux che fa emergere un ‘mondo’ dalla valanga di percezioni grezze» in modo che «ciascuno di noi in ogni momento fonda lo svolgersi della propria narrazione cosmologica su decisioni prese d’arbitrio».
Il mondo quindi sarebbe negativo e con lui quelle discipline che ne presuppongono l’esistenza (come la metafisica o la tecnica). Per chi si sente prigioniero della nostra civiltà, la prospettiva di un suo crollo appare come una liberazione; l’annuncio di una fine del mondo prossima ventura, una sorta di campanella di ricreazione che liberi tutti dalle leggi e dagli obblighi dell’esistenza e del mondo. Questo capovolgimento dei valori, analogo al processo di inversione dei valori a opera degli schiavi nella Genealogia della morale di Nietzsche, si manifesta nell’uso positivo di molti termini negativi: fuga, fallimento, rifiuto. Se le regole della realtà non piacciono, si propone di sospenderle
Campagna scrive in modo piacevole, ma il testo, più che l’analisi di una modalità culturale come la profezia, sembra l’illustrazione di una prospettiva ideologica che rifiuta a priori il mondo attuale rivolto alla realizzazione attuale di tutti possibili attraverso la tecnologia. Secondo Campagna, la nostra cultura sarebbe un esperimento fallimentare prossimo alla chiusura, ma secondo molti altri (me incluso), pur con tutti i problemi pratici, siamo solo ai primi passi di un percorso potenzialmente illimitato verso il compimento della natura, un percorso dove la vituperata hybris umana sarebbe piuttosto l’espressione del conatus del mondo.
Non sarà che per alcuni intellettuali, il rifiuto del mondo nasca dalla sensazione di non esserne più protagonisti e di dovere subirne l’evoluzione invece di produrla? In fondo, è Campagna stesso che ci racconta un episodio biografico: a seguito di una scelta universitaria sbagliata, l’autore aveva rifiutato il quotidiano «invertendo il ciclo giorno-notte» seguendo la «strategia personale di cullarsi in una sorta di rifiuto della realtà». È la comoda scelta del neo-idealismo o del post-strutturalismo: declassare il mondo a illusione prodotta dalla «magia di una narrazione metafisica che possa farci da mondo». Purtroppo questa è una fuga infantile verso un mondo immaginario dove ci si può illudere di essere migliori. Il mondo – mi spiace dare questa notizia – è duro e cattivo e per viverci bisogna sporcarsi le mani e non solo. Tecnologia e progresso non sono gabbie per toglierci la libertà, ma strumenti per elevarci sopra la necessità.
Nel testo di Campagna manca un dialogo con posizioni alternative e spesso opinioni e speranze sono presentati come fatti; una scelta che nuoce a un volume che sembra essere prigioniero di una visione ideologicamente sorda. Davvero l’unica speranza sarebbe una sepoltura dignitosa alla nostra civiltà tecnologica per mezzo della cultura profetica? Perché, all’opposto e positivamente, non sostenere la spinta umana nel costruire un futuro dove umano e artificiale, arte e tecnica, etica ed economia trovano una sintesi soddisfacente? In questo orizzonte, tutto giocato nell’immanenza, natura e tecnologia non sarebbero più principi contrapposti, ma declinazioni della stessa realtà. Se noi siamo mondo, non possiamo fare alcun passo indietro. Il mondo è avanti.