Labatut: vite di menti eccezionali
Pensare l’impensato, realizzare tutti i possibili, rivoluzionare il passato e creare un mondo che non esisteva. Per alcuni di noi, questo è una vocazione così bruciante da essere anche una condanna. Scriveva William Blake, «Some are Born to sweet delight/Some are Born to Endless Night». La conoscenza è potere, ma è anche vita, gioia, angoscia, passione, dolore. Esiste una schiera di persone per le quali capire la natura è la ragione prima della loro esistenza. Non capiscono per vivere, ma vivono per capire. Queste persone, oggi lo avvertiamo sempre di più, hanno le chiavi per trasformare il mondo, sempre più guidato dalla tecnologia e sempre meno dalle regole umane. Nel suo ultimo libro, Maniac (Adelphi 2023), Benjamin Labatut, indaga nell’animo di tre personaggi – Paul, John (o Jancsi) e Lee – che catturano le tre grandi rivoluzioni della nostra epoca: la meccanica quantistica, la rivoluzione informatica e l’intelligenza artificiale. I tre sono Paul Ehrenfest, John Von Neumann e Lee Sedol.
Il libro è bello, rifuggendo da una narrazione biografica e rinunciando alla fedeltà della cronaca, Labatut scompone le loro esistenze nelle prospettive di amici, nemici, amanti, mogli e figli. Mondi e vite estremamente diverse (dall’Ungheria pre-nazista al Four Seasons di Seoul del terzo millennio) hanno in comune quel piano inclinato che porta dal monopolio umano a un futuro sempre più deciso dall’articolarsi autonomo della tecnologia. Il secolo trascorso verrà ricordato come il momento nel quale l’equilibrio tra esseri umani e macchine ha cominciato a essere messo in discussione.
La tecnologia, in fondo, è pensiero in atto e realizza a velocità crescente tutti i possibili. Lo Streben faustiano si è fatto macchina. Il conatus di Spinoza spinge dai circuiti dell’intelligenza artificiale. Il biologico, prima tecnologia, ha prodotto il meccanico e il digitale, nuove forme di vita.
In questo uragano di cambiamenti, gli esseri umani, che due secoli fa avevano guardato con meraviglia e confidenza alla prima era delle macchine, ora iniziano a chiedersi se il loro ruolo non stia diventando progressivamente minore e persino superfluo. Molti guardano al futuro che l’accelerazione della tecnologia sta costruendo e si chiedono se ci saranno.
In questo clima, Maniac si inserisce in un filone molto popolare che racconta, da angolazioni sempre diverse, la vita di quelli che, nel passato prossimo, hanno visto quel futuro che, in pochi anni, è diventato il nostro presente. E così, escono dai libri polverosi di storia della scienza per diventare altrettanti visionari con il potere di cambiare la realtà. La loro capacità di vedere il nostro presente ha gettato le basi perché le loro visioni diventassero realtà.
Nella nostra cultura abbiamo per anni coltivato l’immagine meravigliosa della Firenze del Rinascimento, che a sua volta era un calco dell’Atene di Pericle. Oggi una nuova Atene, non più collocata geograficamente, ha prodotto una nuova rinascita del pensiero. Ehrefnest, Von Neumann e Sedol sono nomi, forse meno noti, di quel pantheon mitico di talenti che, dando corpo all’invisibile o scontrandosi con esso, hanno rivoltato il nostro mondo. Al netto di dettagli metodologici, stiamo parlando di maghi perché dalle loro formule la realtà viene trasformata. La nostra vita non è più la stessa. Hanno dimostrato di avere un potere tremendo che, una volta liberato, nessuno può controllare fino in fondo. A volte ricordano i profeti della bibbia, persone invasate dal futuro prossimo.
Sono figure, diciamolo di grande fascino, e Labatut ha il grande merito di farci vivere insieme a loro gli aspetti più umani di questa impresa collettiva, con i suoi costi e le sue vittime sacrificali. Allo stesso tempo, però, questo è anche il punto debole del libro, perché la storia si trasforma in mito e così facendo scivola verso lo stereotipo.
Per esempio, quante volte dovremo leggere della perdita del paradiso dei matematici a opera delle intuizioni di un (allora) incompreso Kurt Gödel? Mi ricordo che avevo 15 anni quando in Italia, nel 1984, uscì il celebre (oggi quasi dimenticato) GEB di Douglas Hofstadter e, per la prima volta, si parlò di Gödel al di fuori dei testi dei logici. Fu una lettura appassionante. Oggi, però, 40 anni e innumerevoli libri dopo, si avverte un’inevitabile sensazione di dejà vu. Certo, è sempre appassionante leggere della caduta del paradiso dei matematici; quasi quanto rivedere l’ennesimo reboot della nascita di Batman: la morte dei genitori ricchi sotto il lampione giallo, il Joker che scappa nella pioggia, il giovane Bruce Wayne che cade piangendo nella grotta dei pipistrelli e scopre la sua natura oscura e vendicativa. Se il reboot è ben fatto è sempre godibile. Il problema però è che i supereroi, come i miti greci, sono archetipi, ovvero strutture che rivelano degli invarianti della nostra esistenza. Le vicende dei fisici che cambiarono il mondo invece furono un momento sicuramente appassionante, ma sono pur sempre vicende reali all’interno di momenti storici. Si rischia la loro mitizzazione, come si è visto in tanti recenti film (A Beautiful Mind, The Imitation Game, the Theory of Everything, Oppenheimer) dove la figura del genio incompreso, grazie allo sfondo offerto da elementi quali guerre mondiali, antisemitismo, guerra nucleare, nazismo tende a sfumare in quella di Indiana Jones. D’altronde il biopic corre su un crinale sottile che divide realtà e fantasia ben sapendo che, a volte, per raccontare la verità si deve inventare qualcosa.
La narrazione di Labatout non è timida. Maniac è avvincente, anche per la struttura dadaista del testo che alterna descrizioni quasi biografiche (non è un libro di storia) a drammatizzazioni verosimili. L’idea di inframmezzare capitoli in prima persona con paragrafi brevi in corsivo a centro pagina testimonia uno sforzo di differenziarsi da una letteratura che comincia a soffrire di saturazione. I protagonisti sono scomposti in una serie di bozzetti impressionistici delle persone a loro vicine, in una doppia finzione dove sarebbe vano (ma è forse un alibi fin troppo facile per l’autore) cercare l’attendibilità storica. A volte, in questa sala degli specchi, l’archetipo lascia il posto allo stereotipo – i maestri del grande personaggio sono sempre inferiori all’allievo; le donne sono comprensive, attente, innamorate, complici e a volte guardano all’uomo e a volte, invece, guardano sbagliando solo alla mente; le multinazionali sono rivolte al pure guadagno; i militari sono rigidi e burocratici; i geni dicono cose incomprensibili e giocano a scacchi sull’orlo di una guerra mondiale.
Molto probabilmente molti di loro erano proprio come li descrivono, anche se, per esempio, la biografia del vero Dottor Stranamore, alias Edward Teller, di Peter Goodchild (Cortina, 2009) presenta un quadro molto più variegato e complesso. In Maniac è tutto troppo bello e giusto; tutto troppo vicino a quello che ci aspetteremmo di vedere in un film di Cristopher Nolan sulle stesse persone; icone e non esseri umani. Il titolo del libro, giocando sul nome di uno dei primi calcolatori cui aveva contribuito Von Neumann, rivela la chiave di lettura del libro.
Viene da chiedersi come mai certi periodi storici offrano una occasione più ghiotta di drammatizzazione. Perché Ridley Scott non ha preso in considerazione la vicenda di Galileo? In fondo la versione teatrale di Bertold Brecht è universalmente nota e sarebbe ricca di spunti drammatici. Oppure, perché non ci sono appassionanti biopic sui grandi medici come Pasteur o sui grandi matematici illuministi, da Laplace a Fourier? Anche per loro, l’epoca storica fornirebbe grandi sfondi, storie d’amore, guerre e rivoluzioni.
Il principale motivo è che Paul, Jancsi e Lee, sono alcuni tra i perni di quella cerniera sulla quale sta ruotando il piano della nostra esistenza. Sono stati i testimoni e i responsabili di quegli slittamenti, concettuali e tecnologici, che sentiamo dentro e intorno a noi. Tre immagini mi ritornano in mente leggendo Maniac: la scuola di Atene di Raffaello, l’adorazione dei magi di Botticelli e la foto del convegno Solvay. Tre momenti chiave nella storia dell’umanità, tre gruppi unici di persone eccezionali, tre momenti di svolta nei quali, come fa intuire Labatut, la volontà maniacale di bruciare per capire la natura è stata il motore della vita.