Radu Jude: immagini per un’apocalisse rimandata
Non dev’essere facile promuovere un film rumeno uscito nei cinema italiani un anno e mezzo dopo il suo primo passaggio in concorso al 76° Locarno Film Festival, della durata di oltre due ore e mezza di cui più di metà in bianco e nero, distribuito esclusivamente in versione originale, diretto da Radu Jude che pur essendo un regista amatissimo dai cinefili è ignoto al grande pubblico, e infine con un titolo in inglese (traduzione di un aforisma polacco di Stanisław Lec) così lungo dal far desistere coloro che ancora preferiscono acquistare i biglietti in cassa anziché online: Do Not Expect Too Much from the End of the World. I distributori italiani – a I Wonder Pictures, che da mesi lo aveva dimenticato in listino, si è aggiunta la giovane società Cat People, che finora si era occupata solo di film restaurati – hanno puntato sul passaparola, programmando una serie di proiezioni itineranti (a questo link le prossime date) che continueranno in alcune città italiane almeno fino a fine dicembre. C’è ancora tempo, quindi, per scoprire quest'opera che mette brillantemente in commedia il dramma di un paese in cui avere un impiego, in qualunque settore, può rappresentare un grave rischio per la salute.
Secondo i dati diffusi da Eurostat sugli incidenti sul lavoro nell'Unione Europea relativi al 2022, la Romania è il paese con il numero minore di infortuni non mortali ogni 100.000 occupati, ma è altamente probabile che manchino molte segnalazioni a causa di scarsi incentivi a fare denuncia e obblighi di legge inefficaci per i datori di lavoro. Lo sfruttamento dei lavoratori è uno dei temi principali di un film segnato dal contrasto tra il potere di chi può distorcere e manipolare consapevolmente la realtà, producendo immagini di largo consumo, e l'atto ribelle di trovare in quelle immagini delle verità inespresse. Jude si è divertito a creare un collage caotico di ingredienti che dialogano costantemente tra loro pur parlando linguaggi diversi: ha diviso il film in due parti stilisticamente discontinue (la prima di circa due ore e la seconda di quaranta minuti) messe una dopo l'altra come nelle doppie programmazioni di un tempo, ha riutilizzato vari spezzoni di un film rumeno di quarant'anni fa, ha imitato l'esuberanza dei brevi video di Tiktok e il rigore del documentario sperimentale. Elementi eterogenei, ma facilmente distinguibili, accostati tra loro pur sapendo che gli spettatori possono cogliere solo una parte dei numerosi riferimenti incrociati.
Il segmento più lungo è in bianco e nero, girato in 16mm: mostra l'interminabile giornata lavorativa di Angela (Ilinca Manolache), impiegata tuttofare che lavora nell'industria audiovisiva, incaricata di intervistare i possibili protagonisti di un video sulla sicurezza sul lavoro il cui committente è una multinazionale austriaca con interessi in Romania. Dopo un faticoso risveglio mattutino che rende subito evidente una stanchezza pregressa, prende l'automobile e si getta nel traffico di Bucarest: si dà da fare fino a notte fonda, non si può sottrarre agli ordini che le vengono impartiti a dispetto dello stress causato da un turno ininterrotto senza fasce orarie né tutele. Intervista casa per casa i potenziali protagonisti del video, tutti con una disabilità causata da un incidente sul lavoro, ma le viene chiesto anche di recuperare delle attrezzature da un set di Uwe Boll (il regista tedesco che sfidò a pugilato i critici che irridevano i suoi film e sconfisse coloro che osarono presentarsi sul ring) e di fare da autista alla dirigente della multinazionale (Nina Hoss) che di cognome fa Goethe, è imparentata col celebre scrittore ma si sottrae a ogni conversazione sulla sua opera perché dei familiari è sempre meglio non parlare.
Le irruzioni frequenti delle immagini di un film a colori del 1982, Angela merge mai departe (traducibile come "Angela va avanti") spezzano la storia creando quella che in un cartello iniziale viene definita una conversazione tra film di epoche diverse. Lo diresse Lucian Bratu e non fu mai distribuito in occidente (le versioni che si trovano su internet sono senza sottotitoli) ma si intuisce dalle prime immagini il motivo del parallelismo: in entrambe le storie la protagonista si chiama Angela e per lavoro deve guidare nel traffico di Bucarest. Nei circa 20 minuti (su 75 totali di durata) che Jude ha inframezzato alla sua vicenda contemporanea, capiamo che l'Angela di inizio anni Ottanta era una donna single con un carattere forte, si faceva valere come tassista in un ambiente lavorativo faticoso e dominato dai maschi ma non disdegnava il romanticismo. Di tanto in tanto, le scene di quel vecchio film vengono rallentate o fermate. Non è immediato capire perché Jude disorienti così il suo pubblico, al quale sembra che qualcosa di importante stia sfuggendo, e lo ha dovuto spiegare lui stesso ai giornalisti incuriositi al termine della prima proiezione a Locarno: essendo stato girato in gran parte per le strade di Bucarest, ai margini delle inquadrature include testimonianze della realtà dell'epoca colte per caso, come le persone in fila per fare la spesa o la presenza dei poveri. Immagini che sarebbero state censurate, se poste intenzionalmente, ma passate inosservate in quanto comparivano per qualche frazione di secondo, mentre al centro della scena restavano il taxi e la sua autista. Jude ha definito questa riscoperta come un messaggio in bottiglia ricevuto dal passato, che ha condiviso con gli spettatori nella forma di un esercizio su come individuare ciò che le immagini possono veicolare senza un proponimento esplicito.
Anche l'Angela del 1982, invecchiata e sempre interpretata dalla stessa attrice (Dorina Lazar), torna dal passato: riceve l'Angela di oggi nella sua casa dove le presenta il figlio Ovidiu, invalido del lavoro da qualche anno e per questo scritturabile come protagonista del filmato per la multinazionale. La provocazione cinematografica del recupero del vecchio film assume il significato ulteriore di visualizzare i ricordi della tassista e così il confronto tra l'immaginario di epoca comunista e quello della Romania liberista odierna passa anche dal confronto con le immagini che l'Angela di oggi produce e che diventeranno parte dei suoi ricordi. Nei pochi momenti liberi, gira e pubblica numerosi video amatoriali puntando su di sé la videocamera del telefono: usa filtri grossolani e instabili per trasformarsi in un uomo calvo con la barba, Bobiță, che proferisce frasi misogine e razziste, rigurgitanti estrema violenza ma con tono iperbolico da barzelletta. Personaggio inventato da Manolache e inglobato nel suo personaggio, Bobiță sbeffeggia lo stile di vita e la retorica dell'influencer e imprenditore britannico-americano Andrew Tate che in Romania aveva trovato terreno fertile per i suoi affari e interessi, prima dei molti guai giudiziari per le accuse di stupro e tratta di esseri umani.
Non è indispensabile avere dimestichezza col personaggio, noto a chi segue la cronaca internazionale ma ormai interdetto dai principali social network tranne l'accogliente X di Elon Musk, per capire il riferimento; eppure Angela deve difendersi da chi non coglie il palese intento satirico di questo sfogo femminista contro un simbolo di maschilismo becero. Il paradosso è che le immagini di Bobiță, pur improvvisate ed esagerate ad arte per risultare divertenti, rispecchiano così tanto l'immaginario che vogliono deridere da non esserne abbastanza diverse: riprendono una modalità di espressione talmente consolidata e accettata da non poter più essere irrisa senza diventane involontariamente una cassa di risonanza capace di raggiungere un pubblico poco avvezzo a capirne la critica sociale. Una confusione rischiosa cui Jude si sottrae dando a questi frequenti spezzoni il formato orizzontale del cinema, e non dei video verticali pubblicati in rete.
Un terzo intermezzo a colori in questa lunga prima parte del film irrompe inaspettatamente nella forma di un cortometraggio documentario di circa quattro minuti. Per Angela, l'attività più stressante è guidare nelle temibili vie di Bucarest, dove tra liti e incidenti non è esagerato affermare che si possa frequentemente rischiare la vita: non sorprende che un report di qualche mese fa dell'Osservatorio Europeo della Sicurezza Stradale abbia rivelato che nelle strade rumene c'è il più alto tasso di mortalità nell'Unione Europea. Mentre porta Doris Goethe dall'aeroporto all'hotel, le racconta la storia della strada più pericolosa della Romania, la DN2 che collega Bucarest e Buzău; il dialogo è interrotto repentinamente da una serie di riprese, ciascuna di pochi secondi, di croci poste lungo la strada in memoria di chi vi è morto. Conoscendo il cinema di Jude, quando inizia la sequenza si ha il timore che possa durare qualche decina di minuti: il tempo percepito è superiore a quello effettivo perché il distacco dal segmento narrativo è brutale e catapulta in un'opera di videoarte che reitera un'immagine simbolica della morte fino a spogliarla del significato di ricordo o monito, per renderla una beffa al buonsenso.
Le riprese del filmato commissionato dall'azienda austriaca occupano gli ultimi quaranta minuti di film. Dopo tanta nevrotica alternanza di stili, la macchina da presa si ferma e sceglie un singolo punto di vista. Ovidiu, il protagonista in sedia a rotelle (Ovidiu Pîrsan, attore non professionista che ha davvero una disabilità motoria), circondato dalla sua famiglia, viene piazzato davanti al luogo del suo incidente, mentre attorno a lui bisogna aggiustare al meglio l'ambientazione, poi il testo da recitare, poi il senso da veicolare: non è più possibile nascondere che la multinazionale punta a incolpare degli incidenti sul lavoro i dipendenti che non hanno indossato i dispositivi di sicurezza, assolvendosi da eventuali carenze organizzative. Ogni argomento controverso è bandito, perciò non si deve dire che l'azienda ha delle filiali in Russia; si dice anzi che l’azienda deve sembrare neutrale come la Svizzera. Il caso ha voluto che Radu Jude, ricevendo a Locarno il Premio Speciale della Giuria (il secondo per importanza), si sia espresso sulla guerra in Ucraina invitando il popolo svizzero ad abbandonare la finta neutralità che significa stare dalla parte di Putin come significava stare dalla parte di Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il team che realizza il filmato è accorto nel non stravolgere gli eventi pur assoggettando l’interpretazione dei fatti ai desideri del committente; Ovidiu ha una storia da raccontare che guadagna forza dall'essere ricordata proprio nel posto in cui è accaduta, ma pian piano gli vengono sottratti elementi narrativi, elementi visivi e infine persino la parola. Il set viene accuratamente preparato affinché, agendo su tutto ciò che è collocato nel campo visivo, si scongiuri che elementi indigesti e potenzialmente sovversivi vi si intrufolino, come accadeva in Angela merge mai departe da cui Jude ha fatto riaffiorare una raffigurazione veritiera della società comunista assai lontana dalle intenzioni di un innocuo film su una tassista. Le immagini possono diventare sorprendenti o pericolose solo se le si recepisce con spirito critico, o se c'è qualcuno che aiuta a decifrarle.
Alcuni giorni fa la Corte costituzionale romena ha annullato il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali: secondo i giudici, il candidato più votato, Calin Georgescu, è stato illecitamente favorito da interferenze russe che si sono manifestate anche con la produzione di numerosi video propagandistici su Tiktok nei quali Georgescu adottava lo stile e la retorica già perfezionati da Andrew Tate (e forse anche Bobiță avrebbe votato per lui). C'è da rimpiangere che questi eventi non siano finiti in un film di Radu Jude; ma in fondo, il film su un popolo che non capisce di essere manipolato da video commissionati all'estero l’ha già fatto.
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