Quelli che restano: The Holdovers
Secondo i principi del cinema statunitense, Alexander Payne è un regista di film indipendenti. In vent'anni di carriera ha diretto Jack Nicholson e George Clooney, i suoi film hanno incassato centinaia di migliaia di dollari e ha vinto due Oscar (entrambi per la sceneggiatura, una originale e una adattata) su sette candidature totali; eppure il criterio da considerare, secondo gli standard del cinema nordamericano, è che i suoi film siano tutti costati meno di 30 milioni di dollari.
Tutti, meno uno: Downsizing, il suo unico vero insuccesso nonostante il privilegio di aprire la 74ª Mostra del Cinema di Venezia nel 2017 e un protagonista di richiamo come Matt Damon. Niente di grave, però: non ha fatto fallire nessuno studio (era un film relativamente costoso rispetto alle sue solite pretese, ma non di quelli che rovinano una casa di produzione se non si arriva al pareggio di bilancio), non ha perso la possibilità di lavorare a nuovi progetti, la sua carriera non è deragliata.
Possiamo constatare che sia stata un'ottima idea, dopo sei anni, tornare entro la soglia economica della presunta indipendenza produttiva: The Holdovers - Lezioni di vita ha già incassato più del doppio di quanto sia costato produrlo. Dopo la buona accoglienza a Telluride e Toronto, l'anteprima italiana di dicembre (ottima per un film di atmosfera natalizia, anche se poi Universal lo ha distribuito in Italia a metà gennaio) se l'è assicurata il Torino Film Festival e anche questo può essere considerato un felice ritorno al passato: i film di Payne sono ospiti graditi del TFF sin da quando il suo primo mediometraggio, The Passion of Martin, fu selezionato fuori concorso nel 1990.
Il ritorno dei favori di pubblico e critica è arrivato con il suo primo film di ambientazione storica, collocato proprio in quegli anni Settanta che hanno segnato l'apogeo dei registi dallo spirito indipendente ma ben radicati nel sistema hollywoodiano: la particolarità più citata, però, è che tenta di somigliare il più possibile a un film di quel periodo, riproponendone diligentemente alcune caratteristiche formali. Imitazione, non dissimulazione: per dare un tono al film già dai titoli di testa non ha scelto una canzone degli anni Settanta a mo' di tuffo nel passato, ma Silver Joy, un brano dalle atmosfere folk di Damien Jurado ripescato da un album del 2014, voce e chitarra dal suono delicato e dal testo introspettivo. Anche i colori desaturati della fotografia dovrebbero ricordare quelli di molti film di cinquant'anni fa, che però oggi si possono osservare ricostruiti correttamente solo nelle versioni ottenute dai restauri digitali.
La visione è un giocoso piacere soprattutto per cinefili ed esperti, come si suppone siano anche i membri dell'Academy che assegna gli Oscar: delle cinque candidature ottenute per la cerimonia di marzo, tra cui miglior film, quella che più riconosce il lavoro di imitazione stilistica è per il montaggio di Kevin Tent, dal ritmo rilassato, che cuce la maggior parte dei cambi sequenza con musica e dialoghi e poi introduce numerose dissolvenze incrociate nella seconda parte proprio quando si ha un assaggio di road movie.
La scelta stilistica discende da un'esigenza narrativa: Payne voleva raccontare una storia ambientata in un collegio scolastico maschile, uno di quegli istituti spocchiosi con tradizioni immutate da decenni, senza tornare eccessivamente indietro nel tempo – troppo distanti già gli anni Cinquanta, anche per il proposito esplicito di non mettersi a confronto con L'attimo fuggente, ambientato nel 1959 – ma collocandosi prima dell'approvazione del Titolo IX degli Education Amendments, la legge che nel 1972 vietò la discriminazione scolastica sulla base del sesso, che tra le conseguenze a lungo termine ebbe la progressiva diminuzione dei collegi solo maschili come la fittizia Barton Academy del New England, inventata per questo film. Payne e lo sceneggiatore David Hemingson si sono accordati per collocare la vicenda tra gli ultimi giorni del 1970 e i primi del 1971, proprio mentre uscivano nei cinema statunitensi Il piccolo grande uomo di Arthur Penn e Rio Lobo, l'ultima regia di Howard Hawks: guarda caso, i protagonisti andranno al cinema a vedere il primo, che dei due era il western revisionista al passo coi tempi.
Le vacanze di fine anno sono prossime, le aule e i dormitori si svuotano in occasione della pausa nel calendario accademico, solo pochi studenti non possono raggiungere la famiglia ed essendo minorenni devono essere sorvegliati da un membro del corpo docente che trascorra con loro Natale e Capodanno. In una struttura capace di ospitare centinaia di persone, scenograficamente circondata da cumuli di neve, restano solo un docente, cinque studenti e un paio di componenti del personale di servizio: sono loro gli holdovers del titolo originale, quelli che restano, i trattenuti contro la loro volontà, ma per il professor Paul Hunham (Paul Giamatti), il docente di storia antica prescelto per l'ingrato compito di vigilanza, potrebbe andar bene anche il termine “retaggio”, di quel passato in cui l'insegnante poteva essere un tramite di conoscenze (peraltro sempre meno rilevanti) senza fare anche l'educatore.
Hunham è ben poco empatico con i suoi giovani allievi che infatti lo detestano, come d'altronde lo detestano anche i suoi colleghi; è solitario, non ha famiglia, non ha amici, non ha altro posto dove andare e probabilmente sarebbe stato felice di trascorrere qualche giorno lì come un eremita, anziché con la responsabilità di badare a un gruppetto di giovani svogliati, tristi e arrabbiati. Eccolo, l'antieroe che pare uscito dal cinema degli anni Settanta. Affinché possano venire fuori le sue migliori qualità umane, deve accadere un ulteriore imprevisto: dopo qualche giorno, gli studenti trovano modo di passare le vacanze altrove, tranne lo sfortunato Angus (Dominic Sessa) che non ottiene il lasciapassare e rimane l'unica compagnia del professore assieme alla responsabile della mensa Mary Lamb (Da'Vine Joy Randolph).
Nel periodo natalizio si devono sempre fare i conti con la propria famiglia, ma qui vediamo come il terzetto ne crei una del tutto improvvisata, quasi un'affettuosa parodia di una sacra famiglia: una madre addolorata che ha perso da poco il figlio morto in Vietnam, un uomo intransigente che dopo alcuni screzi iniziali mostra atteggiamenti da benevola figura paterna, un figlio arrabbiato che si sente abbandonato dai veri genitori. In loro, di quel cinema americano degli anni Settanta, si coglie il grande affetto per i disadattati e i perdenti, soli e senza affetti vicini, ciascuno portatore di uno stigma sociale sotto forma di disagio non dichiarato. Mary sta affrontando un lutto doloroso, amplificato dal periodo natalizio, ma la sua vera debolezza, in fondo, è essere nera; e che quindi fosse nero suo figlio, studente brillante costretto a combattere in Vietnam perché, pur avendone le qualità intellettuali, non aveva i requisiti economici per frequentare un'università. Di Angus ci viene fatto intuire che abbia una forma di depressione più o meno riconosciuta e tuttavia sottovalutata, oltre ad avere la paura, comune a tutti i giovani ma nel suo caso giustificata da quanto si capisce verso la fine del film, di diventare come suo padre.
Anche il professor Hunham ha notevoli singolarità, copiate dal protagonista di un film francese del 1935, Vacanze in collegio di Marcel Pagnol, da cui Payne ha tratto alcuni elementi della trama (anche lì il burbero maestro Blanchard rendeva speciale il Natale degli studenti costretti a restare in collegio, nonostante essi lo avessero sempre trattato con disprezzo). In particolare, ha un incurabile difetto genetico che può risultare socialmente invalidante e probabilmente ha influenzato il suo carattere e le sue scelte di vita: la trimetilaminuria, malattia rara e quasi sconosciuta il cui nome non spiega nulla ai profani (e vale la pena scoprire di cosa si tratta guardando il film), il cui primo caso clinico fu reso noto dalla rivista scientifica “The Lancet” nell’ottobre di quello stesso 1970, in una mezza paginetta racchiusa tra un paragrafo sul Parkinson e uno sulla malaria. Un dettaglio al limite dell’inverosimiglianza, ma che la dice lunga sul puntiglio “filologico” del film di Payne.
The Holdovers può essere letto alla luce di un altro tema scientifico appassionante: l'infinito dibattito che gli anglosassoni chiamano nature vs. nurture, cioè se lo sviluppo degli esseri umani sia dovuto più alle caratteristiche biologiche o all'ambiente sociale in cui crescono. Di questo irrisolto dilemma, gli anni Settanta hanno presentato la pagina peggiore: era in pieno svolgimento l'esperimento segreto che divideva alla nascita i gemelli per affidarli a famiglie di estrazione socioculturale differente e poi osservarne la crescita (è l'argomento del documentario Three Identical Strangers di Tim Wardle).
I nostri personaggi, che vivono in quegli anni di grandi dibattiti e oscuri esperimenti, quanto ci appaiono plasmati dalle caratteristiche biologiche e quanto invece da esperienze e lezioni di vita? Il colore della pelle non si può decidere, ma la società può decidere di relegare le donne a lavorare in cucina e i loro figli a morire in guerra anziché studiare; un difetto genetico incurabile non si può cancellare, ma per il successo professionale conta più il prestigio della propria famiglia e per quello umano bisogna avere il coraggio di affrontare le proprie paure; i genitori non si possono scegliere, ma si può lottare per non ereditarne i difetti o subirne la disistima. Il collegio classista e ipocrita degli anni Settanta dove questi personaggi si incontrano è il posto ideale dove possono mostrare quanta forza di volontà occorra per evitare di essere schiacciati tanto dall'ambiente esterno quanto dalle proprie caratteristiche congenite.
Di quel cinema della New Hollywood cui The Holdovers si ispira, è rimasta una certa sfiducia nelle istituzioni e nei valori tradizionali; ma se si esce dal cinema col cuore leggero è perché gli antieroi di Payne con le stigmate dei perdenti hanno trovato una via per farsi vincitori.