Venezia 79. Il Palmarès: assenze e presenze
Malgrado i pronostici lo dessero per favorito, Jafar Panahi non ha ottenuto alla fine il riconoscimento principale. Certo, le cose non sarebbero cambiate: nella sala delle conferenze stampa, la sedia del regista, arrestato agli inizi di luglio, è rimasta vuota; le mani a ricevere il Premio Speciale della Giuria non sono state le sue. È già dal 2010 che gli è vietato lasciare l’Iran, indicazione che ha sempre rispettato; non ha mai ceduto, invece, all’imposizione di non realizzare nuovi film. Si può anzi notare come l’azione politica oltreché artistica del fare un cinema “proibito”, mettendo in scena l’atto creativo in fieri senza arrendersi alla completa clandestinità ma mettendoci sempre coraggiosamente la faccia (per necessità, più che per scelta, è il protagonista delle sue storie) sia diventato per lui un tema sempre più pressante e adesso anche più doloroso che in passato.
In Khest Nist (in Italia uscirà col titolo Gli orsi non esistono), Panahi rimane fermamente sé stesso: un regista che alloggia in un piccolo villaggio vicino al confine con la Turchia e da lì tenta di realizzare un film a distanza. Oltre il confine si trovano attori e collaboratori che seguono le sue indicazioni per filmare la storia di una coppia di iraniani alla ricerca di passaporti contraffatti per lasciare la Turchia. Si fa credere, però, di voler inscenare la drammatizzazione di una storia che sta accadendo realmente in quei giorni; è una delle tante giravolte tra realtà e finzione che sono il secondo tema fondamentale da cui Panahi è affascinato. La più significativa di esse è la scena notturna in cui lui stesso ha la possibilità di andare in esilio, quando cammina lungo la linea teorica del confine: un istante di una possibile vita parallela in cui esplicita che avrebbe potuto fuggire all’estero da tempo, se avesse voluto, invece non ha mai inteso spezzare il forte legame col suo paese, lontano dal quale perderebbe l’unico ambiente che gli interessa indagare.
All’interno del villaggio di confine si colloca la terza traccia presente nella sceneggiatura: la comunità locale chiede a Panahi di consegnare una foto da lui scattata che ritrarrebbe due giovani, per verificare se la ragazza fosse in compagnia non del promesso sposo ma di un terzo incomodo che perciò dovrebbe essere punito. L’etica delle immagini, più precisamente del loro uso, guida la reazione del regista. È eticamente accettabile realizzare film nonostante sia in vigore un divieto legale, perché non può esserci alcuna valida ragione morale per proibire a un artista di raccontare la società in cui vive; non è etico, invece, usare le immagini per spiare, accusare, processare, perpetuare una cultura ancorata a tradizioni che limitano ogni libertà personale. Come non è etico mostrare la morte: si spegne la macchina da presa o si prosegue senza soffermarsi troppo a lungo sui corpi senza vita. Anche perché Panahi, con il suo finale troncato e amarissimo, sembra quasi temere che in futuro uno di quei cadaveri potrebbe essere il suo.
Il Leone d’oro di questa Mostra numero 79 è andato a un documentario, All the Beauty and the Bloodshed, di Laura Poitras (ne avevamo già scritto qui). “Tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”: fin dal titolo, un film che ci parla della tensione verso un mondo fatto di ambiguità, di ambivalenze; e che può essere raccontato solo da una forma altrettanto imperfetta, sporca di realtà e impura come il documentario, che è esso stesso cinema, racconto, dove però lo stato delle cose permane, agisce, è meno aggirabile e falsificabile.
Al centro di questo mondo la vita e l’opera dell’artista statunitense Nan Goldin (nata a Washington nel 1953), protagonista della fotografia contemporanea e, al tempo stesso, attivista in prima fila di una grande battaglia condotta contro la potente famiglia Sackler, proprietaria della compagnia farmaceutica Purdue che produceva oppiacei spacciati come normali antidolorifici, ma che invece hanno provocato la morte di migliaia e migliaia di persone in America.
Il nome dei Sackler risaltava sulle targhe e nelle sale di molti importanti Musei del mondo, grazie alle ricche iniziative di mecenatismo. In questi stessi spazi si sono svolte le azioni dimostrative di Goldin e dell’organizzazione da lei fondata P.A.I.N., come raccontano le immagini del film di Poitras (la stessa autrice di Citizenfour, su Edward Snowden, vincitore dell’Oscar come miglior documentario nel 2015).
La voce di Goldin, i materiali e filmati di repertorio, le foto, le memorie del trauma privato della perdita, da ragazzina, della sorella suicida, le sue opere: tutto questo insieme di esperienze si mescola e si dispone secondo una trama che funziona come un collage, mirato al medesimo effetto di impatto e di risposta empatica provocato da un evento dimostrativo, proprio come accade nelle opere di Goldin – il progetto del 1989 sui malati di AIDS privi di assistenza sanitaria, o The Ballad of Sexual Dependency, fatta di più di settecento diapositive che documentano, come in una ballata, la vita delle persone “irregolari” frequentate a New York: artisti, tossici, drag queen, donne spesso piene di lividi. Sono sempre creature strane, che vivono ai bordi, e a cui le foto intendono dare testimonianza, persistenza, anzitutto a partire dalla messa in vista dei corpi.
In questo senso, assomigliano a tante altre figure di diversità che abbiamo conosciuto tra le opere in concorso di Venezia 79, così piene di queer, di madri strane, di donne anomale perché ambiziose, di corpi in transizione, omosessuali, o perfino giovani cannibali, come Maren (Taylor Russell) la protagonista del film di Guadagnino Bones and All (Leone d’Argento Premio Speciale per la Regia).
Ne abbiamo già parlato nella seconda puntata del nostro report: il corpo visto a Venezia 79 è stato spesso protagonista di parabole mostruose, nel senso di spaesanti. Torneremo, per esempio, sul lavoro di Crialese, L’immensità o, soprattutto, su Blonde di Andrew Dominik, che ripensano completamente l’immaginario del monstrum o anche del kitsch. Intanto però torniamo a Saint Omer, un altro film tra i favoriti alla vigilia, che ha ricevuto il Leone d'argento-Gran Premio della Giuria, oltre a un curioso Premio Opera Prima (curioso perché la regista ha già alle spalle sette documentari, l'ultimo dei quali premiato a Berlino nel 2021). Vale la pena di fermare un punto importante: ascoltare la domanda su cosa possa essere il cinema che queste “strane” opere ci rivolgono.
Si tratta di film spesso d’autrice, che lavorano in spazi espressivi e formali più anomali, anche imperfetti se si vuole, coincidenti con il cinema documentario o in ogni caso vicini ad esso, come nel caso appunto di Alice Diop. Sono linguaggi, modi di costruire le storie e la relazione con chi guarda il film abitati dalla richiesta di differenti punti di vista, di altri e diversi sguardi, che chiedono di inventare altre regole o categorie.
Anche questo è il territorio da guardare. Non basterà liquidare questi lavori, pensando ai protocolli classici del cinema d’autore, definendoli come poco formali, o troppo imperfetti, perché forse il punto non è quello. «Il nostro silenzio non ci proteggerà - ha detto Alice Diop ritirando il premio e citando Audre Lorde - Noi non taceremo più». Quando soggetti che sono spesso rimasti in silenzio (e non vale solo per la comunità nera o trans) cominciano a parlare, non si tratta solo di far spazio, di includere, ma di capire come siamo stati in quello spazio.
Saint Omer è il nome del comune dell’alta Francia dove si svolge un processo per infanticidio a cui una giovane scrittrice, Rama, ha deciso di assistere, con l’intenzione di scrivere un romanzo ispirato al mito di Medea. L’imputata, rea confessa, si chiama Laurence Coly, è una giovane di origini senegalesi, accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi, abbandonandola sulla spiaggia all’arrivo dell’alta marea. Buona parte del film si svolge durante il dibattimento in tribunale, mettendo silenziosamente a confronto Rama, che assiste al processo e aspetta un figlio, e Laurence, che ammette di aver ucciso il suo bambino, ma dichiara di non sapere le ragioni del suo gesto e anzi chiede alla giuria e anche a noi che man mano che assistiamo da semplici spettatori e spettatrici fuori dall’evento finiamo per sentirci interpellati e ricoprire, in un certo senso, la posizione di partecipanti al processo.
Il film va avanti, e la matassa si aggroviglia perché le testimonianze messe a confronto mostrano le contraddizioni e i rapporti di forza di cui Laurence è anche vittima; ma è nella seconda parte che la storia conquista forza straniante, perché a poco a poco scopriamo che l’imputata, per difendersi e proteggersi dalla gravità delle accuse a suo carico, ha usato la narrazione colonialista e razzista che la controparte voleva ascoltare ma che viene appunto usata da Laurence come una specie di antiveleno.
Usando lei stessa le parole e gli stereotipi orientalisti su di lei, in quanto africana, che le istituzioni vogliono usare, ne rovescerà (forse) la direzione e gli esiti. Saint Omer è un film ambizioso, in certi casi anche velleitario, perché a volte scivola negli stessi stereotipi paternalistici che vorrebbe smentire; ma è interessante anche per quelli che possono essere i suoi difetti, perché ci parla di conflitti politici e interculturali che sempre di più abiteranno i nostri mondi, chiedendoci sguardi nuovi, più consapevoli, anche più capaci di mettersi in discussione, buonismo compreso.
Comincia, per esempio, con una donna emancipata, che fa lezione parlando di come la bellezza, in arte, possa sublimare l’orrore, e finisce con quella stessa donna sprofondata (letteralmente e simbolicamente) su un divano, incinta, accanto alla propria nonna bisognosa di assistenza. È una contraddizione forte, vistosa, che ci parla di conflitti di identità rispetto al materno che vanno pensati in maniera intersezionale e calati nella storia. Ma quella storia, per fortuna, come testimoniano i Leoni di Venezia 79, può essere una storia collettiva.