Torino Film Festival. Comunisti, boomer e rivoluzionari
Quello del festival che diventi anche una festa non è un concetto nuovo: era stato persino teorizzato col neologismo “festaval” da Marco Müller una decina di anni fa nell'epoca in cui, da direttore artistico della Festa del Cinema di Roma, si scontrava aspramente con il Torino Film Festival sulla collocazione temporale delle due manifestazioni. Oggi quello slogan caratterizza proprio l'evento torinese: il festival vuole essere anche una festa perché così, popolare e nuovamente popolato di pubblico, l'ha immaginato il nuovo direttore Steve Della Casa (nuovo perché scelto a inizio anno per dirigere l'edizione numero 40, ma anche vecchio perché aveva già guidato il festival dal 1999 al 2002).
Posto come obiettivo principale il ritorno del pubblico nelle sale, dopo le due edizioni stravolte dalla pandemia dirette da Stefano Francia di Celle, sembra che i primi giorni del Torino Film Festival gli abbiano dato ragione: è tornato il pubblico, sono tornate le code fuori dai cinema del centro, sono anche tornate le delusioni e le proteste di chi non trova posto in sala (in particolare per le masterclass, a ingresso gratuito senza prenotazione). Quello che non è cambiato, nonostante alcune dichiarazioni d'intenti facessero presagire il contrario, è il numero ingente di film in programma, in una selezione eterogenea che include equamente film d'autore di sette ore e film di richiamo con aspirazioni da Oscar; sono tanti anche i documentari, la maggior parte fuori concorso, come da immutata tradizione torinese.
Il focus speciale dedicato alla recente produzione documentaristica italiana, Dei conflitti e delle idee, fa da contraltare al dibattito politico nostrano, incapace di schiodarsi dai continui riferimenti ai modelli novecenteschi di fascismo e comunismo, ancor più dopo le recenti elezioni vinte dalla coalizione di destra.
I sei documentari della sezione sono accomunati dal tentativo di ripensare o riscoprire alcuni dei movimenti storico/politici che hanno attraversato l'ultimo secolo e indubbiamente si ripercuotono ancora sul presente, a giudicare da quanto spesso vengono citati (quasi sempre a sproposito). Sono film che abbandonano di rado lo schema collaudato della raccolta di interviste alternate a qualche immagine d'archivio, ma sono accomunati anche da un altro elemento distintivo: presentano personaggi ed eventi poco o affatto noti a una buona parte dei potenziali spettatori, soprattutto quei giovani che al festival non mancano.
In quanto a eventi e personaggi dimenticati della cronaca italiana dei decenni scorsi, L’Irriducibile di Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa ne affronta di emblematici. La strage di Peteano (tre carabinieri morti e due feriti il 31 maggio 1972), di matrice fascista, è un evento largamente dimenticato forse perché ha una caratteristica unica rispetto a tutti gli altri atti terroristici della cosiddetta strategia della tensione: c’è un colpevole certo, un reo confesso che ha rivendicato l’azione, sufficientemente credibile da rendere l'evento uno dei pochi sui quali ci sia qualche certezza storica comunemente accettata.
L’ideatore e autore della strage, Vincenzo Vinciguerra, è l’irriducibile del titolo; un uomo ormai ultrasettantenne, ininterrottamente in carcere da quando si costituì nel 1979, che non ha cambiato di una virgola le sue convinzioni negli oltre quarant’anni di privazione della libertà. Sergio Zavoli lo intervistò nell’ottava puntata di La Notte della Repubblica e questa nuova intervista, più che un seguito, sembra un remake, con lo stesso protagonista che appare invecchiato nell’aspetto ma perfettamente coerente nelle interpretazioni dei fatti, nelle idee esposte, nell'eloquio.
Le sue pause di riflessione dopo ogni domanda, durante cui trasforma i suoi pensieri in parole nitide, potrebbero essere pause durate decenni: grazie al montaggio, le domande di Zavoli e le risposte di Vinciguerra viaggiano nel tempo, ed è un tempo che per lui si è fermato. Vinciguerra parla in maniera pacata, riflessiva, profondamente meditata: difficile potersi immedesimare nell’ideologia che esprime (ostinatamente contraria alla democrazia come sistema di governo), facile invece seguire il senso dei suoi lucidi ragionamenti espressi con disposizione d'animo quasi didattica.
Il caso di Vinciguerra, considerato un personaggio unico nella galassia del terrorismo italiano, è sorprendente perché spesso il passaggio tra coerenza ideologica e ripensamento viene favorito, a distanza di anni, dall’avere completamente mancato i risultati prefissati. Quando la lotta è ancora in corso, invece, le incertezze e i cedimenti possono essere affrontati grazie alla compattezza della comunità di appartenenza.
Sono passati circa trent'anni da quando il movimento di protesta No TAV ha unito molti degli abitanti della Val di Susa contro la costruzione della linea ad alta velocità Torino-Lione; in La Scelta di Carlo Augusto Bachschmidt possiamo comprendere perché la loro battaglia non si sia mai fermata. Tra i documentari del focus, è il più sbilanciato a favore del gruppo che riprende: l'ambientalismo No TAV vincolato fortemente a un luogo specifico ma poi avvicinatosi ai movimenti giovanili di protesta contro il cambiamento climatico, tradito dai partiti populisti che avrebbero dovuto mettere a frutto il consenso elettorale con interventi politici concreti. L'immersione del regista in quel territorio, accompagnando fianco a fianco la gente che vi abita, in questo caso rende superfluo lo schema delle interviste frontali utili per un riassunto a grandi linee del contesto: i volti dei valsusini danno l'impressione di non poter appartenere a nessun altro luogo.
È più leggero il tono di due film giustamente accoppiati nella programmazione perché condividono la riflessione su come sono diventati coloro che erano giovani quando era ancora in piedi il Muro di Berlino. Davide Crudetti, figlio di genitori ancora orgogliosamente comunisti, nel cortometraggio Comunisti si diverte a legare il suo personale destino a quello del Partito Comunista Italiano, che nel 2021 ha celebrato il centenario della fondazione nonché il trentennale dello scioglimento.
Crudetti è nato in quel cruciale 1991 perciò accosta il conto dei suoi anni al conto degli anni trascorsi dalla fine della storia del più importante partito comunista dell'Europa occidentale. A parte questa affinità casuale, può definirsi in qualche modo comunista chi è nato e vissuto in un'epoca priva dell'utopia comunista? Si può ereditare un pensiero politico come si ereditano le caratteristiche genetiche? Arrivato alla fatidica età dei trent'anni, compleanno tanto impegnativo quanto il centenario celebrativo del defunto PCI, mette in scena sé stesso e il suo personale smarrimento: deve constatare che la generazione fortemente politicizzata dei suoi genitori sapeva sempre trovare una via d'uscita e forse, per i suoi genitori, la via d'uscita era stata proprio lui.
Vorrebbe essere autoironico anche il titolo scelto da Andrea Gropplero di Troppenburg e Gianfranco Pannone per il loro dialogo a distanza in forma di film, che parte dai ricordi di una comune trasferta berlinese a inizio anni '90 e finisce nell'epoca della pandemia da Covid-19. Ok Boomer! cita il modo di dire usato dagli adolescenti per schernire e zittire la generazione dei cosiddetti baby boomer (i due registi sono entrambi del 1963); usato come titolo, però, più che una presa in giro beffarda diventa il segno di riconoscimento della generazione che non vuole lasciare a figli e nipoti nessun tipo di autorità sul mondo.
Il perché, Pannone se lo fa spiegare bene dalla figlia adolescente: dire "Ok Boomer" non fa più ridere perché i boomer stessi si sono impossessati della locuzione, così ingordi da non lasciare neppure questo piccolo piacere linguistico sovversivo ai giovani.
Prima che boomer nel significato contemporaneo, Gropplero e Pannone sono stati anch'essi giovani e hanno potuto osservare in prima persona la Berlino del 1991, in trasferta per partecipare al festival del cinema: un'epoca di illusioni in cui speravano che le utopie del Sessantotto e del Settantasette si sarebbero finalmente fuse in qualcosa di bello, concreto e duraturo; epoca in cui, peraltro, stavano già mettendo in pratica una vera rivoluzione, quella tecnologica del digitale. Allora avevano effettivamente abbattuto i muri; ma oggi ammettono di essersi dimenticati di costruire i ponti. Tra i filmati sgranati, talvolta fuori fuoco, di quella trasferta in compagnia e la solitudine dell'isolamento casalingo di inizio 2020, sono passati anche in questo caso trent'anni circa.
La pandemia ha accentuato le distanze e i due registi, anziché riprendersi a vicenda come a Berlino, si filmano per conto proprio ma senza mai perdersi di vista, ciascuno intento a ritrovare i ritmi di una vita normale. La pandemia, evento dirompente e apocalittico, risveglia il desiderio di interrogarsi su un presente che fa paura anche a coloro che trent'anni fa pensavano, sbagliando, di avere la strada spianata verso la felicità. Torna anche qui il trauma dello scioglimento del PCI, si riesce a parlare di cibo e vino usando concetti da lotta di classe e ci si tormenta con una domanda classica: abbiamo fatto abbastanza, quando potevamo fare qualcosa? Su una cosa l'hanno avuta vinta: non sono morti, sono entrambi ancora qui, sopravvissuti alla fine delle ideologie e a una pandemia. Invece la loro amica Diletta, protagonista principale dei loro filmati berlinesi, oggi esiste solo in quei vecchi fotogrammi: per sempre giovane, come un'utopia immortale che il tempo non può annientare.
Concluderanno il focus due film che raccontano risultati quasi opposti prodotti dall’impegno e dalla passione politica. Quella di cui i protagonisti andarono certamente fieri è la gestione della città di Napoli da parte delle prime giunte comuniste (di minoranza) guidate da Maurizio Valenzi tra il 1975 e il 1983, un'avventura raccontata da Alessandro Scippa in La Giunta. Valenzi è morto nel 2009 ma il regista ha potuto intervistare altri testimoni di quella stagione, uno dei quali era suo padre, l'ex assessore Antonio Scippa (morto due mesi fa). In tutti vive ancora il ricordo di un’azione politica genuinamente votata al miglioramento delle condizioni di vita dei napoletani. Valenzi ebbe una vita degna di un film, sicuramente degna almeno di un’autobiografia, per la quale scelse come titolo una battuta efficace per descrivere la sua attitudine alla vita: Ammetto che mi sono divertito.
Nato a Tunisi nel 1909 (come Valensi, cognome poi cambiato anni dopo per un errore di trascrizione) da una famiglia di origine italiana, descrisse con una scrittura asciutta e tagliente la sua giovinezza tunisina, le sue aspirazioni da pittore mai del tutto abbandonate, l’adesione al comunismo perché affine alle idee che già aveva sviluppato, la resistenza antifascista in Europa, l’arresto e le torture dei nazifascisti, l’approdo a Napoli dopo la liberazione della città da cui non se ne sarebbe più andato. Senatore, sindaco, eurodeputato, è stato uno dei più apprezzati e carismatici politici del PCI; ma è proprio agli anni alla guida di Napoli che Valenzi dedica il capitolo più lungo del libro, “Taccuino di sindaco”. Vi compaiono molti nomi, di amici e nemici, perché la guida di una città non è un'opera solitaria; ecco perché il titolo de film che fa riferimento a tutta la giunta e non solo al sindaco, rende giustizia a un gruppo di persone che contribuirono a dare forma a una Napoli più pulita, più regolamentata, più vivibile.
In chiusura, Lotta Continua di Tony Saccucci si propone di ricostruire la storia dell’omonima formazione di ispirazione comunista che fu movimento di protesta capace di unire intellettuali e operai, movimento politico extraparlamentare, laboratorio culturale e giornalistico ma anche incubatoio di violente deviazioni terroriste. Il soggetto è il libro di Aldo Cazzullo I ragazzi che volevano fare la rivoluzione: il giornalista, appartenente a una generazione successiva molto più egoista, volle capire perché, per alcuni anni, molti giovani avessero cercato la felicità in un impegno politico da vivere necessariamente tutti insieme.
Come Cazzullo, anche Saccucci si è affidato alle interviste, coinvolgendo ex esponenti di Lotta Continua, alcuni diventati noti, altri no. Rispetto al libro è stato inevitabile coinvolgere un numero inferiore di persone, potendo però assemblare le interviste come un coro anziché una serie di testimonianze solitarie.
Steve Della Casa, che fece parte di Lotta Continua, da conoscitore della materia ha preannunciato un film equilibrato; proprio come voleva essere il libro di Cazzullo, che però ammetteva preventivamente le critiche di chi non vi si sarebbe riconosciuto o lo avrebbe trovato troppo tollerante. Evitare nuove polemiche superflue è un buon motivo per sperare che la maggior parte del pubblico che lo vedrà al Torno Film Festival sia giovane e ignaro.