Adorazione dei Magi
L’occasione è di quelle che non si possono mancare, la prima apparizione pubblica di un grande re, come dicono, anche se la scenografia è tutto meno che adeguata: una capanna diroccata, muri d’angolo di un vecchio palazzo crollato, la nuda terra per pavimento.
Sembra che siano giunti da lontano a rendergli omaggio altri grandi re, con il loro seguito esotico e sfarzoso. Sarà di sicuro uno spettacolo, un diversivo alla monotonia delle solite feste, sempre con le stesse facce e le espressioni sussiegose e le malignità appena volti le spalle, per tacere delle trame di congiure nell’ombra. Tutta la bella gente di Firenze è accorsa in pompa magna: la stagione per la verità non sarebbe delle più favorevoli per sostare a lungo all’aperto, ma nessuno rinuncia a sfoggiare i suoi migliori panni morbidi e preziosi, velluti e broccati sgargianti, e lunghi mantelli colorati che non camuffino, per i più giovani e vanitosi, i loro corpi snelli e atletici, ma la giornata è limpida, il sole alto, l’aria insolitamente tiepida. Nonostante la capanna sia in aperta campagna, di gente minuta, poveracci, vagabondi, pastori, non se ne vedono. Pare che, loro, siano arrivati durante la notte, appena avvistata la stella sfolgorante nell’infinito cielo dei deserti, la cui luce filtra ora dal tetto rilasciando come una polvere d’oro sulla famigliola, mentre un lungo raggio punta dritto verso il bambino: hanno lasciato qualche piccolo dono straccione, dei generi alimentari di conforto per questi pellegrini sorpresi dalle doglie della giovane donna lontani da casa e dalla meta, qualche cencio per il bimbo nudo, e poi sono tornati alle incombenze quotidiane che già li chiamavano prima dell’alba, gli occhi lucidi di commozione e meraviglia.
Il posto è quello che è, disastrato, imbarazzante, ma pazienza: una volta tanto fare mostra di umiltà può venire utile, fa bene pure all’anima, chi ce l’ha. D’altra parte con quel neonato da omaggiare, qualcuno dice un Dio, non è il caso di mostrarsi schizzinosi. E poi va be’, sbrigata l’incombenza, resteranno tutti tra di loro e qualcosa da organizzare per rallegrare la giornata e ristorarsi dalle fatiche, una cena, un festino, qualche ricco dono per i più potenti, ci sarà di sicuro qualche ambizioso che vorrà organizzarla, per omaggiare anche i suoi, di signori. Per esempio l’ambizioso Gaspare del Lama, il vecchio dai capelli grigi con il manto azzurro nell’ultima fila a destra che si disinteressa della scena e guarda chi si sta accostando e si ferma a osservare a rispettosa distanza, mentre indica se stesso con la mano guantata, per sottolineare di essere proprio lui il committente, orgoglioso delle amicizie e dei patroni, e della cappella in cui l’opera sarà collocata a perenne memoria, spera (perché la sorte non ci mette niente a capovolgere le fortune e a cancellare tutto: come capiterà a breve anche a lui, condannato per frode nel 1476, l’anno successivo alla realizzazione del quadro), di sé e della sua famiglia, rappresentata dal figlio che pure guarda verso gli astanti, sbucando, con le spalle ammantate di rosso, nel gruppo di sinistra. Gaspare sta proprio sopra il giovane signore della città, Lorenzo, che sembra meditare, austero, la testa leggermente piegata in avanti, le mani composte una sull’altra, lo sguardo rivolto non tanto al Magio più vicino, vestito di bianco, che ha le sembianze di suo zio Giovanni, quanto al secondo, ammantato di rosso con la fodera di ermellino che spunta dal risvolto, che ha quelle del padre Piero, morto da tempo. Come gli altri due Magi peraltro: il fratello Giovanni e il vecchio signore, Cosimo, loro padre e capostipite della dinastia, qui nelle vesti di Melchiorre che, deposta a terra la corona in segno di umiltà, si inginocchia per rendere omaggio al bambino, che lo benedice consacrando in tal modo anche il suo potere e quello dei suoi discendenti, mentre lui gli sfiora (ma non bacia, come farà il suo corrispettivo in uno degli ultimi quadri di Lorenzo Lotto) i piedini con un leggero, preziosissimo panno, in forma di rispetto. Perché il sacro va tenuto a distanza, non si può profanare col nudo contatto diretto. È opportuno proteggersi. Il sacro è incendio. Brucia.
Il terzo personaggio che si rivolge verso l’esterno, che Gaspare del Lama ha ingaggiato a rappresentare la scena in cui uno dei protagonisti è il suo magio omonimo, è l’autore in persona, Sandro Botticelli, giovane ma già famoso, che non ha rinunciato a raffigurarsi in primo piano, con un ampio mantello giallo, sia pure ai margini (ma lo spazio prospettico ne rende la figura prominente), come farà, trent’anni dopo, in una posizione più arretrata ma con un vistoso cartiglio in mano, Dürer nella sua straordinaria Festa del rosario ora a Praga: ha un portamento eretto, la testa che si volta con uno sguardo quasi sdegnoso a scrutare lui pure l’ammirazione e la sorpresa di chi osserva la sua opera, o a immaginare chi la osserverà, come il visitatore che in questi giorni può ammirarla a Milano, nei Chiostri di Sant’Eustorgio per la rassegna “Un capolavoro per Milano 2024”.
L’artista è consapevole del proprio valore, anche se i suoi ultimi anni vedranno la sua fama spegnersi tanto che morirà povero e pieno di debiti, e la sua postura lo dà a vedere. Lo sa che l’opera è magnifica, e tutti i personaggi ritratti saranno orgogliosi di vedersi magistralmente rappresentati, magari con qualche piccolo abbellimento (come quello che l’artista riserva a sé: più belloccio e più slanciato del vero, come usava anche con i nudi e le figure d'invenzione), in pose naturali, spontanee, per nulla ingessate o convenzionali, ciascuno con la propria fisionomia individuale e caratterizzato per come desidera essere conosciuto, per l’immagine pubblica che desidera incarnare agli occhi e al giudizio altrui.
Ma non mancano figure in atteggiamenti più intimi, come quella, bellissima, adolescenziale, del timido Poliziano dallo sguardo dolce e languido che appoggia la testa sulla spalla e cinge in un abbraccio, una mano sul fianco e l’altra che sfiora, e quasi accarezza il suo petto, Giuliano de’ Medici, che il pittore rappresenta all’estremità sinistra del quadro, dignitoso ma fiero, che stringe tra le mani la spada da cavaliere fresco vincitore di un torneo che il poeta canterà nel suo capolavoro, Le stanze per la giostra. Accanto a loro, quello alcuni identificano come Pico della Mirandola, che però all’epoca era solo dodicenne, mostra la scena con gesto elegante e la illustra dall’alto delle sue sterminate conoscenze.
Il momento è solenne, a dispetto della mondanità, e alcuni con le loro posture di riverenza e adorazione dimostrano di averlo compreso, come dovrà evitare di sbagliarsi il fedele che sosterà davanti all’immagine in Santa Maria Novella. La scena, infatti, nella sua inedita rappresentazione frontale (di solito la capanna era posta a uno dei lati e gli eventi erano narrati in orizzontale, mentre qui l’impostazione è centrale e ascendente) non serve solo a dare a ciascun convenuto il suo esatto posto in una spaziatura che gli consenta di essere con naturalezza se stesso pur nel rispetto della gerarchie e delle relazioni reciproche, ma ha soprattutto lo scopo di convogliare l’attenzione verso il suo fulcro: la celebrazione della Sacra Famiglia posta al centro, spostata verso l’alto così che anche lo sguardo si elevi, e il riconoscimento del bimbo divino da parte dei Magi che lo omaggiano. È il momento dell’Epifania, dell’apparizione del numinoso nella sua veste umana, della manifestazione della Vita alla vita, in cui la Redenzione prende il suo vero inizio rivelandosi a chi è disposto a vederla e ad accoglierla. Per questo chi la sa percepire può cominciare a percorrere la sua via: cioè a veramente vivere, perché solo nel suo orizzonte vita si ha. Anche e soprattutto per chi è già trapassato, di cui qui si vuole prolungare, raffigurandolo, la sopravvivenza nell’eternità terrena della memoria, in attesa della Rinascita che l’avvento del Bambino assicura e che la presenza di un pavone appollaiato su una sporgenza del muro diroccato simboleggia.
Questa rovina e quelle imponenti che si vedono sullo sfondo a sinistra, stanno proprio a indicare che un nuovo tempo è venuto, che l’ordine antico è terminato e quello nuovo è già cominciato.
La Madonna, dal corpo lungo e slanciato, maestoso e etereo, piega la testa pensosa che già si prefigura la sorte che attende suo Figlio, ma senza che quest’ombra di tristezza e insieme di accettazione intacchi i suoi bellissimi lineamenti, la pelle fresca come una rosa, come quella rosa che essa, misticamente, è. Non è seduta in trono, ma su ciò che resta della parete caduta, o su uno sperone della roccia alle sue spalle, e tiene delicatamente suo figlio che si sporge in avanti a benedire il vecchio signore inginocchiato ai suoi piedi. Il bimbo è completamente nudo, meno per mostrare la povertà in cui ha scelto di venire al mondo, quanto per mostrare a tutti la propria totale umanità, la verità della sua incarnazione.
Alle loro spalle Giuseppe è in piedi, appoggiato a un bastone con la mano sinistra, mentre la destra regge la testa canuta, appesantita dalla stanchezza, reclinata come a non perdere di vista nemmeno per un attimo quanto sta accadendo, pur essendosi lui umilmente ritratto dal proscenio. È davvero vecchio e probabilmente ogni tanto cede al sonno, nonostante cerchi di resistere come può. La notte deve essere stata agitata, gli anni si fanno sentire. Accanto al gomito appoggiato a un ripiano orizzontale della roccia, ha una piccola natura morta di poveri oggetti: del sale, un po’ di farina, un vasetto d’olio, oggetti elementari, forse proprio i doni dei visitatori notturni, che fanno da contraltare a quelli preziosi recati dai magi, anch’essi, come quelli, con il loro carico simbolico. Forse proprio ora si è appisolato, forse sta meditando, preoccupato, su quello che gli ha appena detto, affacciandosi alla sua mente un po’ annebbiata, un essere splendente, che a Gerusalemme il re avrebbe ordinato di sterminare tutti i neonati dei suoi domini, che la strage è già iniziata nei villaggi e nei casali, e che quindi, se vuole proteggere la vita del suo, deve sbrigarsi, appena terminata la cerimonia, dispersi gli astanti e partiti per il viaggio di ritorno i re stranieri con il loro seguito, a fuggire via da lì in tutta fretta, lungo percorsi poco trafficati, di notte, nascondendo il figlioletto alla vista, evitando la costa e la striscia di Gaza, e scendere giù, giù, fino al Sinai, all’Egitto. Verso la salvezza. Per ora, se non per sempre.
Botticelli, Adorazione dei magi, 1475, a cura di D. Parenti, N. Righi
Per la rassegna “Capolavoro per Milano”, in prestito dalla Galleria degli Uffizi di Firenze
Chiostri di Sant’Eustorgio, dal 29-10-2024 al 02-02-2025