Speciale
Italo Calvino, Il libro dei risvolti
A un ventennio dalla prima edizione non venale per le Strenne Einaudi, Mondadori ripropone Il libro dei risvolti di Calvino, per le cure di Luca Baranelli e Chiara Ferrero (che già aveva allestito quella prima edizione), con un’introduzione di Tommaso Munari.
Rispetto alla precedente Strenna, il volume si presenta con un assetto piuttosto diverso, poiché diversi sono il progetto, le intenzioni e i materiali qui raccolti dai due curatori. Il numero delle pagine è considerevolmente aumentato; ulteriori ricerche hanno consentito un decisivo arricchimento delle proposte, che dai risvolti e dalle quarte di copertina si sono ampliati fino a comprendere «note introduttive […] e altre scritture editoriali», così da rendere una più vasta testimonianza del lungo lavoro redazionale dello scrittore presso Einaudi, ed eccezionalmente per altre case editrici.
La prima osservazione coglie proprio il ritratto che di Calvino offrono queste schede editoriali, che talvolta coincidono pienamente con il gusto, gli interessi, le attenzioni dello scrittore-lettore, talvolta riflettono il mero compito del redattore, al quale viene affidata la vita di un libro al momento del suo congedo dalla pubblicazione: promozione, lancio, occasione di successo di critica e di pubblico. Vale a dire che non sempre questo lungo elenco di volumi (ne ho potuti contare, se non erro, 204, variamente distribuiti tra generi e nazionalità) rispecchia pienamente l’immagine del lettore, quanto quella di un promotore condizionato da criteri anche non autonomi. L’Einaudi, nella sua fase storica fino alla crisi del 1983 ma ancora oltre, ha offerto un catalogo che derivava da scelte collettive, che andavano al di là delle singole responsabilità dei curatori di collana; le celebri riunioni del mercoledì erano destinate alla valutazione collegiale, alla discussione, al dibattito circa i titoli che sarebbero entrati a far parte di quel catalogo e in quale collana, o che ne sarebbero rimasti esclusi. E per quanto un redattore, consulente o collaboratore potesse essere titolare di uno spazio di relativa autonomia in una struttura così efficace quanto complessa, l’ultima parola poteva essere pronunciata all’interno di quelle riunioni.
Resta comunque il fatto che anche se stimolata dall’esterno e orientata alla promozione, l’intelligenza critica di Calvino si sia potuta esprimere su una vasta gamma di opere; anche se non del tutto in linea con le sue predilezioni, queste schede, queste «note prefazionali» come lui stesso le definiva, hanno rappresentato un’occasione di intervento e di interrogazione, i cui esiti vanno ricondotti al coacervo enciclopedico della sua personalità, della sua identità autoriale, soprattutto della sua mai sconfessata curiosità.
Il libro dei risvolti, già al suo primo apparire e ancor più in questa nuova veste, va dunque messo a sistema con l’articolata fisionomia del lettore e dello scrittore che fu Italo Calvino. E se il secondo ha potuto rivelarsi attraverso le pagine delle sue raccolte maggiori di saggi, Una pietra sopra e Collezione di sabbia, fino alle Lezioni americane e alle postume Perché leggere i classici e Mondo scritto e mondo non scritto (secondo quella che Baudelaire – qui rievocato come narratore della Fanfarlo, uno dei «Centopagine» della collana ideata e curata dallo stesso Calvino – affermava come una caratteristica peculiare dello scrittore moderno, ovvero la specularità tra creatività e autoriflessione critica), il primo si è espresso nella lunga attività di collaborazione giornalistica e redazionale, di cui resta un’importantissima traccia anche nelle lettere in risposta agli autori, come quelle riunite in I libri degli altri. Ed è qui, quando il redattore si fa anche revisore, editore (termine che avrebbe provocato il suo disgusto), che i due volti dello scrittore e del lettore si fanno più che mai complementari, fino a confondersi, e, com’era prassi di Calvino, a confondere chiunque intendesse condurlo in territori forzatamente chiari («aprichi», secondo il suo linguaggio), dai quali restava esclusa ogni possibilità di oscuro, e quindi di dialettica, humus di qualsivoglia operazione letteraria: «Mi chieda pure quel che vuol sapere, e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura», recita lo stralcio che fa da quarta proprio a I libri degli altri nella prima edizione del 1991.
Bene hanno fatto i curatori, e la redazione che ha seguito il nuovo allestimento di questo Il libro dei risvolti, a includere anche certe brevi prefazioni, ma importanti, che dialogano fittamente con il testo proposto, sì da fare del paratesto non un semplice accessorio, né qualcosa di puramente occasionale. Penso, ad esempio, alle diverse prefazioni alle opere di Shakespeare che Einaudi andava proponendo in una collana ormai storica, la PBSL, ovvero «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria», già raccolte in una seconda strenna einaudiana nel 2020 con il titolo Prefazioni a Shakespeare, per le cure di Luca Baranelli e Tommaso Munari. Il rapporto di Calvino con i classici, come si è definito nelle sue lunghe frequentazioni e spessissimo in simbiosi con le sue direzioni di ricerca, come è avvenuto con Ariosto, Leopardi, Giordano Bruno, è già molto riflesso in queste scritture che datano dal 1950 (quando appare Romeo e Giulietta) al 1954 dell’edizione di La dodicesima notte. Già scrivendo il 20 marzo del 1950 al traduttore Cesare Vico Lodovici, Calvino si proponeva di stendere delle «note editoriali di tre o quattro cartelle a ogni lavoro», da intendersi «come prefazione» e soprattutto come «nota di guida al giudizio estetico dell’opera che mi sono azzardato a scrivere io».
In cosa sia consistito quell’azzardo, si può evincere da una lettura attenta di quei paratesti, scanditi, insieme, da un’attenzione al dato storico e stilistico quanto dal rilievo dei personaggi principali. Calvino ricostruisce in rapide sequenze il contesto storico, i rapporti letterari tra un’Italia ancora dominata dal petrarchismo e un’Inghilterra che proprio attraverso Petrarca scopriva e declinava «un gusto letterario», trasformatosi in un breve arco di tempo da «moda» a «linguaggio libero ed intenso». Dunque l’orientamento del giudizio estetico poteva basarsi sulla conduzione dell’«azione drammatica», dove imbattersi nello «sbizzarrirsi di complicate immagini» e «battaglie di contrari», fino agli astrusi «giochi di parole» che hanno rappresentato la croce di molti traduttori. La sensibilità espressiva di Calvino coglie subito sul piano linguistico il costruirsi di una cultura drammaturgica e letteraria in grado non solo di rapportarsi con una civiltà più ricca e articolata, ma di riprodurla in nuove forme, assecondando dinamiche diegetiche e rappresentative di sicuro effetto, attraverso un impianto linguistico che è esso stesso azione. Da qui a cogliere le sfumature nordiche che intersecano il colloquio del genio shakespeariano con i modelli italiani occorre ben poco, ma non è ancora il passo – e il tratto – decisivo. «Il segreto della tragedia» prosegue lo scrittore, perché è di questo che riconosciamo la figura – «non è in questo composito intrecciarsi di motivi stilistici». Ed ecco l’indicazione di fondo, quella che sorregge l’intero impianto della nota: «Romeo e Giulietta è il poema della gioventù e dell’amore; un amore che ha il trepido stupore della prima rivelazione e la pienezza d’una stagione di vita assoluta».
Potrebbe sembrare scontato al lettore di oggi, che ha potuto conoscere più esperienze traduttive, allestimenti teatrali e trasposizioni cinematografiche del dramma ereditato e reinventato dal Gran Bardo, ma se l’intenzione, negli immediati dintorni del 1950, era quella di rispondere in pieno a esigenze di lettura, di rappresentabilità, recitazione «in un linguaggio scorrevole, non pedante, di gusto vivo», allora la questione linguistica diveniva essenziale alla resa drammaturgica di una tragedia dai valori lontani quanto consumati da più tradizioni. Calvino coglie nella sintesi e nel superamento del petrarchismo la via aperta da Shakespeare alla letteratura a venire, non solo quella teatrale; la lingua di partenza e quella di arrivo devono entrambe tendere a restituire allo spettatore/lettore la consistenza, la marca generazionale e psicologica del reciproco porsi dei caratteri: «l’amore per Giulietta è insieme celeste e terrestre, i sensi e le anime son tutt’uno, tesi in uno struggimento solo, in una scoperta. Giulietta, con Romeo, vive in funzione del suo amore, né ha altra evidenza di personaggio; però, più che in Romeo, è la grazia fanciullesca che tende in lei la passione fino al sublime».
Solo a questo punto si rende possibile, e necessario, entrare nel vivo di quei rapporti, per evidenziare specularità e contrasti anche nei comprimari. La balia sta a Giulietta come Mercuzio sta a Romeo, in una precisa distribuzione attanziale che mira a rendere più terrestre e meno celeste la vicenda dei due amanti; ed è singolare notare come Calvino, nel tratteggiare il personaggio di Mercuzio, vi riconosca quella dimensione «di letteratura e di sogno» di cui Shakespeare permea l’intero paesaggio italiano del dramma. Sono aspetti fondamentali che segnano già il profilarsi di una teoria, se non di un’estetica, in cui scenario e ruoli sono veicolati da una straordinaria compattezza linguistica, sebbene ancora quella lingua fosse in progress. L’altro personaggio degno di rilievo, infatti, è Frate Lorenzo, colui che è destinato a celebrare il matrimonio dei due protagonisti in gran segreto. Ed è proprio questa figura a incarnare quella serie di profondi contrasti di cui la narrativa calviniana non stenterà a nutrirsi: la terra gli appare come «madre e tomba d’ogni cosa», come se Shakespeare stesso stesse svelando «la sua filosofia».
È esatto parlare al futuro? In realtà, più che una spinta dell’immaginazione, l’incontro con le nuove versioni di Lodovici segnano per lo scrittore Calvino un riconoscimento, una conferma all’insegna di quel carattere poi riconosciuto ai classici: quello di potersene appropriare, sfuggendo all’indifferenza, anzi, definendo la nostra personalità anzitutto di lettori in rapporto ma anche in contrasto con loro. Notava con acutezza Gian Carlo Roscioni, all’apparire di Perché leggere i classici, che in un tempo in cui le collane e le ristampe dei classici si moltiplicavano, superando spesso la domanda, gli interventi di Calvino si presentavano ispirati a «un misto di soddisfazione e di perplessità: soddisfazione del lettore e del letterato, perplessità dello scrittore e dell’editore». Proprio lo scrittore, mentre ci invoglia a incontrare i testi del passato e a farli nostri, ci ammonisce sulla loro sostanziale inutilità, sul fatto che non servano a nulla. Però leggerli è meglio che non leggerli.
Questa patina di illuministico distacco, finanche sornione, si lascia percepire anche laddove il redattore dovrebbe soltanto agire per promuovere. La sua verso i classici è una fedeltà critica, non risponde ad acclamazioni indotte. La misura non sfugge mai a Calvino: se il personaggio di Frate Lorenzo, pur così suggestivo, è destinato a perdersi nei meandri della tragedia, è solo perché «il giovane Shakespeare non sapeva ancora condurre a compiutezza poetica tutti i suoi fermenti». Ma quella compiutezza è con ogni probabilità il vero sogno, il solo valore che percorre tangenzialmente i memos delle Lezioni americane rappresentandone il più autentico polo di tensione; quello che probabilmente sarebbe stato affrontato nell’ultima lezione mai scritta, Consistency. E non di soli classici si compone Il libro dei risvolti, anzi; solo per restare nell’ambito della nuova narrativa italiana, che Calvino poté osservare anche dalla palestra editoriale dei «Gettoni» vittoriniani, ecco dispiegarsi un catalogo di tutto rilievo. Viganò, Jovine, Carlo Levi, Micheli, Berto, Pavese, Ginzburg, La Cava, Tobino, Quarantotti Gambini, Cassola, Arpino, Sciascia, per fermarci agli anni Cinquanta. Si tratta di autori che sarebbero entrati a far parte del canone in fieri della letteratura del secondo Novecento o che ne avrebbero rappresentato alcuni snodi essenziali, finanche polemici.
Quanto agli stranieri, anche qui in alcuni casi possiamo facilmente ritrovare certe predilezioni dello scrittore. Penso anzitutto a Queneau, che intreccia la stagione più sperimentale di Calvino, dalla quarta di copertina di Zazie nel metro (1960), al risvolto di I fiori blu (1967), fino a quelli di Suburbio e fuga (1970) e di Piccola cosmogonia portatile (1982), venendo così a coprire – e a coincidere – con più di un ventennio di prove e scandagli combinatori variamente condotti. Ancora più ampio l’arco temporale che separa la nota introduttiva al Conrad di La freccia d’oro, sempre per la Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria (1951) dalla quarta che Calvino firmò per i suoi «Centopagine» nel 1974, quando volle riproporre ai lettori Cuore di tenebra; una fedeltà testimoniata già al tempo dell’università, dal momento che Conrad, com’è noto, fu oggetto della sua tesi di laurea (ciò che parrebbe motivare la particolare attenzione e gli affondi critici che il giovane redattore volle riservargli nella nota invero lunga a La freccia d’oro).
Nella sua introduzione a Il libro dei risvolti Munari rileva alcune costanti dell’impegno redazionale di Calvino, che di fatto segnano le diverse forme del suo lavoro paratestuale e che sono riassumibili in una «formula»: «il minimo di parole per il massimo di significato». Anche laddove il piano del giudizio e la necessità promozionale tendono a intrecciarsi e a confondersi, lo sguardo di Calvino si lascia sempre cogliere, facendo trasparire qualcosa del gusto, della prospettiva storica e politica, finanche della biografia. Così, anche a fronte di richieste e obblighi editoriali, la fisionomia che emerge da tutte queste note è comunque contaminata dal connubio tra scrittore e lettore, nonostante il reiterato gioco a nascondersi del primo, in un lungo esercizio di critica ora restituitoci.
giovedì 23 novembre ore 11
Biblioteca Aldo Fabrizi
Se una notte d’inverno un viaggiatore
con Roberto Deidier
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