Belting: icone che guariscono e soccorrono
Qualche settimana fa, giornali e televisioni hanno parlato di una statua della Madonna che versava lacrime di sangue, a Trevignano, in provincia di Roma. In questi anni, episodi simili sono capitati anche in altri luoghi, sempre intorno a un’immagine, piccola o grande che fosse. Le foto dei servizi giornalistici propongono primi piani sulle lacrime, ma il vero centro di queste vicende è lì attorno: apparizioni, veggenti, altaroli improvvisati, immaginette, ceri accesi e, naturalmente, gente che accorre. È questo il versante che richiede di essere compreso, non tanto l’origine delle lacrime di sangue; in altre parole, prima ancora del presunto evento miracoloso, il problema è la venerazione di un’immagine. Dunque, le Madonne piangono ancora, e non si può pensare che questi pianti siano organizzati (tantomeno che ci siano nessi con “i rapimenti dei magistrati”), come supponeva Pasolini (Le Madonne oggi non piangono più, 1975).
“Il cristianesimo è una religione antica che sopravvive alla società antica. L’icona è un’immagine su tavola dell’Antichità che sopravvive all’arte antica”. Ecco, nelle parole dell’autore, l’argomento del saggio di Hans Belting, Immagine e culto. Una storia dell'immagine prima dell'età dell'arte (a cura di Luca Vargiu, Carocci).
Il saggio del 1990 venne tradotto in Italia nel 2001 col titolo Il culto delle immagini: storia dell'icona dall'età imperiale al tardo Medioevo. Preceduto da una lunga presentazione del curatore, oggi il saggio viene riproposto in una nuova traduzione, e con un nuovo titolo che recupera pienamente quello originario. Ed è già qui che si coglie la prospettiva nuova (e per molti versi spiazzante) in cui si colloca Belting: c’è stata un’età dell’immagine (grosso modo il medioevo) e c’è un’età dell’arte (dal Rinascimento in poi). Una presa di posizione che – assieme all’idea di “fine della storia dell’arte” – spicca all’interno della vasta opera dello studioso tedesco, da poco scomparso.
Come spiega Vargiu, l’idea moderna di arte “presuppone la crisi dell’antica immagine e la sua nuova valorizzazione nel Rinascimento come opera d’arte, legata a una rappresentazione dell’artista nella sua autonomia e a una discussione sul carattere artistico della sua invenzione”. Semplificando ancora, ci sono stati secoli in cui le immagini hanno avuto un’esistenza vivacissima senza bisogno di ricorrere all’idea di arte, idea che – secondo Belting – si afferma solo a partire dall’età rinascimentale.
Il tema del libro è dunque l’icona – eikon è infatti “immagine”, “ritratto” –, l’immagine nella sua dimensione sacra. Tema che non si può affrontare con la sola attrezzatura dello storico dell’arte. Nel libro ci sono pure espressioni come "delicati rialzi e digradamenti" o "morbidi trapassi tra le forme", ma si tratta di passaggi orientati in ben altra direzione: “io mi occupo – scriveva Belting nella prefazione all'edizione americana del 1994 – delle persone e di tutto ciò che mostrano nel loro rapporto con le immagini, in termini di credenze, superstizioni, speranze e paure”. Si tratta insomma di "raccontare storie di immagini”, non storie degli stili; le opere dal Cinquecento in poi, invece, hanno "il loro luogo nel tempio dell'arte e il loro vero tempo nella storia dell'arte".
La straordinaria ricchezza di Immagine e culto non dipende solo dal notevole numero di opere prese in esame, ma dai continui rapporti istituiti con la storia della Chiesa tra Occidente e Oriente, con le dispute teologiche, con l’evoluzione della liturgia, con i testi di inni, preghiere, omelie, vite dei santi, laudi delle confraternite; non ultime, con le leggende sull'origine e la provenienza delle icone stesse, non di rado accreditate da iscrizioni sulle cornici. Lo studioso riporta un numero impressionante di episodi che hanno al centro figure di ecclesiastici, di religiosi, di laici, di persone che desiderano, commentano, pregano davanti a un'immagine sacra dal tardoantico in poi. D’altra parte, è solo grazie a questo continuo confronto con la documentazione rimasta che l'osservatore contemporaneo può cercare di superare la barriera che lo divide dall’uomo medioevale, e accostarsi a una concezione delle immagini che sarebbe altrimenti incomprensibile. Solo così riusciamo ad avvicinarci a scelte formali che sentiamo in gran parte estranee: frontalità, rigidità, distacco espressivo, rinuncia alla narrazione.
Nella prima parte del voluminoso saggio (si tratta di oltre 800 pagine) lo sguardo sul mondo antico, prima dell’avvento del cristianesimo, è ininterrotto. Che cosa chiedevano gli antichi alle immagini divine, e come le facevano entrare nella loro quotidianità? Anche nel mondo classico, ad esempio, è testimoniata una variegata serie di immagini di eroi e di dèi guaritori. E anche in quel tempo sono testimoniati nessi tra le immagini e le visioni mistiche; Asclepio, ad esempio, guariva apparendo in sogno (così come faranno alcuni santi cristiani). L’immagine sacra indirizza la visione, e quest’ultima conferma i lineamenti dell’immagine sacra.
Lo studioso si interroga insomma sulle fratture e sulle forme di continuità: i cristiani credettero all’esistenza di immagini sacre “acheropite” (cioè non realizzate da mano umana), come nel mondo antico sono testimoniate immagini di culto “cadute dal cielo”. Ma, alla fine, la domanda si presenta ugualmente, e in modo diretto: perché il cristianesimo nel VI secolo ha cominciato a venerare le immagini? Per quali strade una religione che all'inizio si contrapponeva all'idolatria dei pagani e alla millenaria venerazione di statue e altri simulacri, ha accolto (e incentivato) l'uso delle immagini sacre e, in un secondo tempo, ha elaborato una propria, raffinata dottrina sull'argomento?
Sta di fatto che l’immagine sacra cristiana è stata uno strumento della contemplazione, della meditazione, della memoria. Ma da essa ci si aspettavano anche protezione e miracoli, come se il corpo stesso del santo fosse presente nella figura che lo rappresenta. Ecco icone che guariscono, ed ecco quelle che soccorrono e aiutano in battaglia: alcune immagini di Maria ricevettero l’epiteto di Aniketos (invincibile) e di Nicopeia (che porta vittoria). Icone miracolose, dotate cioè di una forza operante: si racconta addirittura che alcune punirono chi non le aveva rispettate.
È straordinario come questi oggetti, che pure promettevano un contatto col sovrannaturale, siano stati vissuti anche nella loro concretezza materiale. A Roma, nell’VIII secolo, un sacerdote si aggrappa all’icona mariana del Pantheon nel tentativo di sottrarsi alle milizie papali. Sappiamo poi di icone baciate, toccate, rovinate a forza di essere lavate; immagini portate in processione o meta di pellegrinaggi. Le icone a volte impallidiscono e mutano di colore; talora effondono acqua o olii santi; nel caso vengano ferite, sanguinano. Sono tramiti per la trascendenza, ma sono continuamente a contatto con altri oggetti, rivestimenti in metalli preziosi, reliquiari che le contengono e proteggono, drappi che le sottraggono agli sguardi quotidiani. E poi le immagini sacre possono parlare: il caso del crocifisso che nella chiesa di San Damiano si rivolse a san Francesco non è affatto isolato.
Ma proprio in questo consiste la straordinarietà dell’immagine “prima dell’età dell’arte” (e qui Belting richiama la definizione di aura in Benjamin): queste immagini cultuali riescono a esprimere una lontananza – la lontananza del sacro – anche se il supporto materiale dell'immagine stessa si trova a poca distanza dallo spettatore.
La dialettica tra tensione spirituale e quotidianità si avverte anche a proposito delle repliche e delle riproduzioni delle icone più venerate. Tra i personaggi che si affollano nella scena delle elemosine dipinta da Domenico di Bartolo nel pellegrinaio di Santa Maria della Scala, a Siena (1441) si scorge, sulla destra, un personaggio che ha cucito sul cappello una minuscola riproduzione della Veronica, l’immagine del volto di Cristo che si venerava in San Pietro a Roma. Le riproduzioni (anche le più modeste) servono a garantire la sacralità, l’autenticità e l’efficacia dell'icona originale, mentre dal Rinascimento in poi le copie di quadri famosi saranno chiamate a render conto dello stile di un artista celebre. Occorre insomma distinguere, come sostiene Belting, tra "valore di culto" e "valore d'arte".
L’“età dell’immagine” è più vicina di quanto si creda. A Roma, nel medioevo, aveva assunto grande importanza la processione che si svolgeva la notte prima del 15 agosto (la festa dell’Assunzione di Maria): l’icona acheropita di Cristo veniva portata solennemente verso la chiesa di Santa Maria Maggiore dove avrebbe incontrato l’icona di Maria. Una processione analoga si tiene anche oggi a Tivoli, nella cerimonia detta dell’Inchinata: un’icona di Cristo viene condotta nella chiesa di Santa Maria Maggiore, incontro a un’altra icona mariana, e qui le due immagini vengono fatte inchinare l’una verso l’altra; gesto che viene ripetuto il giorno 15, quando l’icona di Cristo viene riportata in duomo. Le due icone sono molto più che normali figure, molto più che semplici sostituti delle persone sacre.
Trevignano compare anche nel libro di Belting, ma non per la Madonna piangente di queste settimane: nel centro in provincia di Roma si trova infatti un trittico che presenta un Cristo in trono tra la Vergine e san Giovanni (c. 1200). L’immagine parla in prima persona, grazie all’iscrizione dipinta sul libro che Gesù tiene con la sinistra: “Io sono il Re del Cielo che ha redento il popolo dalla morte”. La Madonna piangente di Trevignano e il dipinto medioevale nello stesso luogo sono più vicini di quanto sembri a prima vista: la convinzione che l’immagine sia animata, per quanto si manifesti in modo diverso, accomuna l’uno e l’altra. Come scrive Belting, “l’immagine, in fin dei conti, appare altrettanto paradossale dell’essere umano che ne fa uso; procedendo insieme con le società e le culture, cambia continuamente, ma, a un altro livello, resta sempre la stessa”.