Scoprire è un’arte

16 Maggio 2024

Nella primavera del 1485, lungo la via Appia, alcuni operai stavano distruggendo un sepolcro antico, molto probabilmente per recuperarne i materiali (era una pratica abituale a Roma, e lo sarà ancora a lungo). I muratori si aspettavano solo mattoni e conci di pietra, invece si imbatterono in un sarcofago; una volta aperto, la sorpresa fu ancora maggiore: il cadavere intatto di una fanciulla. L’evento ebbe una risonanza enorme, tanto che il corpo venne portato nel centro della città, in Campidoglio, dove accorse la folla.

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È uno degli episodi descritti nel libro di Maren Elisabeth Schwab e Anthony Grafton, L’arte della scoperta. Scavare nel passato nell’Europa del Rinascimento (Carocci). Gli altri sono altrettanto singolari: il (presunto) ritrovamento a Padova delle ossa di Tito Livio, il grande storico romano. La scoperta in Santa Croce in Gerusalemme a Roma della tavoletta con l’iscrizione derisoria (in ebraico, in greco e in latino) che era stata posta sulla croce di Gesù; la scoperta di un gruppo statuario destinato a una grande celebrità, il Laocoonte, oggi ai Musei Vaticani; le esplorazioni nelle “grotte” della Domus Aurea e la novità delle sue inusitate decorazioni, le grottesche appunto; la contesa sulle reliquie di san Dunstano tra l’abbazia di Glastonbury e Canterbury; il ritrovamento a Treviri della “Sacra tunica” che era stata “fatta per Gesù Cristo dalla santa vergine Maria e data a uno dei cavalieri e servi di Pilato che l’aveva vinta al gioco”.  

Di ogni scoperta i due autori ricostruiscono meticolosamente le vicende, riportando le relazioni delle diverse fonti che, altrettanto minuziosamente, vengono messe a confronto, a costo di farne risaltare contraddizioni e difformità. Tutti questi episodi accadono in un arco cronologico relativamente breve, tra 1480 e 1518, neppure quarant’anni. Eppure, il loro orizzonte è molto più ampio: in una direzione il mondo antico, le storie narrate nei vangeli, gli inizi del cristianesimo; in un’altra gli sviluppi degli studi antiquari dal secondo Cinquecento in poi. Nel Seicento si affacciano infatti studiosi di spicco e personalità originali che riflettono ancora su quelle scoperte: Peiresc, Lorenzo Pignoria, Fortunio Liceti, Athanasius Kircher, per citarne alcuni. 

L’aspetto più sorprendente del saggio di Schwab e Grafton è la capacità di tenere in equilibrio erudizione e racconto; in altre parole, la ricchezza e la puntualità dei dati non appesantiscono mai le trame dei singoli episodi, spesso avvincenti (e talora, a dir poco, stupefacenti). 

Torniamo alla fanciulla dell’Appia: chi avrebbe previsto uno svolgimento come questo? Tra i testimoni non c’è solo una commossa meraviglia e persino l’ammirazione per la bellezza della ragazza: la toccano, le aprono la bocca per poi accorgersi che la lingua torna al suo posto; le guardano i denti, le unghie delle mani e dei piedi, sollevano le braccia per constatare che ricadono a terra, “come se fosse appena morta”. 

E poi iniziano le congetture (questo è il meccanismo che si mette inevitabilmente in moto anche negli altri casi narrati): quale straordinaria e misteriosa sostanza avrà permesso una così rara conservazione del corpo? In quale epoca era nata la fanciulla e, soprattutto, chi era? Tra le varie ipotesi si fece strada l’idea – per nulla supportata da evidenze – che si trattasse addirittura di Tulliola, la figlia di Cicerone (ma ci furono altre proposte di identificazione). Ecco insomma la congettura, “eterna e fedele compagna dell’antiquario in difficoltà” (ma spesso anche dell’archeologo contemporaneo). La congettura, infatti, allestisce uno scenario possibile, sempre in attesa di una prova; così, anche in assenza di riscontri, colma un vuoto e finisce per convincere il lettore, soddisfatto se non dalla dimostrazione, almeno dall’acutezza dello studioso.

In ogni caso, anche la più elaborata congettura non va confusa con la deriva fantastica di chi presta fede a vere e proprie invenzioni: giunge fino al Seicento, e anzi si fortifica, la leggenda del ritrovamento accanto alla fanciulla del 1485 di una lucerna “che già più di 1.550 [anni] ardeva”. A rilanciare questa idea della scoperta di una luce inestinguibile ci fu persino un accademico come Fortunio Liceti (uno dei corrispondenti di Galileo).

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Il favoloso può avere risonanze lunghe e impreviste. Giustamente Schwab e Grafton ricordano come nel 1883 uscirono due articoli sulla stessa rivista austriaca, entrambi riguardanti la scoperta della fanciulla: due autori diversi, Christian Hülsen e Henry Thode, un archeologo e uno storico dell'arte, due approcci a dir poco contrastanti. Alcuni anni fa, Silvia Urbini ha ripubblicato in traduzione quel saggio di Thode, illustrandone le estrose (quanto improbabili) argomentazioni (Somnii explanatio. Novelle sull’arte italiana di Henry Thode, Viella 2014): lo studioso, affascinato da una testa femminile in cera del museo di Lille, avanzò l’ipotesi che quel volto riprendesse proprio i lineamenti della fanciulla dell’Appia; egli infatti considerava la scultura in cera un lavoro della fine del Quattrocento, della cerchia di Andrea del Verrocchio (supposizione anche questa inattendibile). Per Thode si trattava di “una seducente visione, nella quale ci sembra che l’antichità e il rinascimento diventino un’unica cosa, un tutto insolubile e perfetto, come quello sognato dagli uomini che si recavano in Campidoglio per salutare la risorta romana!”. La posizione di Thode un po’ ci fa sorridere, un po’ ci infastidisce. Ma dimostra, alla fine, che nel nostro rivolgerci al passato c’è sempre una componente, diciamo così, sentimentale o, come dicono Schwab e Grafton, “romantica”. Non c’è anche nel più rigoroso studioso (di oggi e di ieri) il desiderio, per quanto negato o sottaciuto, di vedere il volto gli antichi? Non parlano in questo senso, ad esempio, gli odierni tentativi di ricostruire le fattezze dei grandi personaggi del passato?

L’interesse per il corpo della fanciulla dell’Appia è paragonabile a quello per le presunte ossa di Tito Livio a Padova, la sua città d’origine. La convinzione di aver trovato la sua sepoltura derivò dalla scoperta di un’iscrizione di età romana che menzionava un T(itus) Livius: si trattava di un’erronea lettura, perché il personaggio era un liberto del I sec. d. C., e non era affatto il famoso storico. In questa storia di equivoci ora involontari, ora consapevoli giocavano due forze diverse: da una parte l’orgoglio civico e l’amore per l’antichità, dall’altra il lento sviluppo della scienza dell’antichità, che proprio nel campo delle iscrizioni di epoca romana aveva trovato lo spazio per saggiare le proprie conoscenze. In parallelo alla critica testuale che da tempo di cimentava sui testi manoscritti arrivati dal mondo classico, infatti, tanti umanisti iniziarono a raccogliere iscrizioni antiche, a volte corredate da disegni forniti dagli artisti.

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Le storie narrate da Schwab e Grafton, dunque, non parlano solo di vicende curiose, ma raccontano la faticosa elaborazione di criteri affidabili nell’indagine storica, e descrivono la difficile messa a punto di un metodo di studio del passato; i casi della fanciulla dell’Appia e dei resti di Tito Livio misuravano insomma “le capacità degli studiosi contemporanei di stabilire degli standard per la corretta valutazione e il rigoroso utilizzo delle prove”. Questo, alla fine, è il vero tema del saggio, anche se in apparenza è tutto un affollarsi di iscrizioni e reliquie, di missive e resoconti; di traslazioni e processioni, scavi e restauri, autenticazioni e falsificazioni, di testimonianze e di spostamenti di ossa.

Una delle conclusioni più rilevanti di L’arte della scoperta è la contiguità tra le ricerche indirizzate al mondo classico e quelle rivolte alla storia del primo cristianesimo. Nell’uno e nell’altro ambito vengono adottati gli stessi metodi di analisi e le medesime sottigliezze (come anche si ripetono a volte banali fraintendimenti e clamorose ingenuità); ed è singolare che in entrambe ci sia uno scarso interesse per la storia degli oggetti ritrovati – ad esempio, il titulus della Vera Croce o la Sacra tunica – quasi che la loro provenienza fosse del tutto secondaria.

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Del resto ad accomunare l’una e l’altra antiquaria sono le circostanze delle scoperte (o della messinscena sottostante), ad esempio l’apparizione improvvisa di corpi incorrotti accompagnati da meravigliose, inspiegabili fragranze. Non per niente, a suo tempo Fritz Saxl accostò la scoperta della “Tulliola” a quella del corpo di santa Cecilia, che più di un secolo dopo riapparve nell’omonima chiesa in Trastevere: anche qui un corpo intatto, anche qui una teatrale esposizione ai fedeli, anche qui il coinvolgimento di studiosi e artisti (Stefano Maderno che riprodusse in marmo l’aspetto della santa al momento della riesumazione).

Anche nel caso di Tito Livio si arrivò alla venerazione dei presunti resti mortali, quasi si trattasse di un santo. Alcuni studenti universitari tedeschi furono sospettati del furto dei denti dello storico; ma addirittura il re di Napoli Alfonso d’Aragona affidò al poeta Antonio Beccadelli il compito di chiedere ufficialmente in dono una delle ossa dello storico: a Padova venne stilata un’iscrizione per ricordare questo gesto di generosità nei confronti del sovrano.

I personaggi coinvolti, come si vede, sono assai vari: poeti, dotti professori, alchimisti, i notai con le loro secolari pratiche di autenticazione, esperti improvvisati che a tutti i costi devono dire la loro. Come non bastasse, vengono coinvolti – seppure indirettamente – anche gli artisti: quando Michelangelo eseguì il crocefisso di Santo Spirito a Firenze, dovette tener conto della recente scoperta del (presunto) titulus della Vera Croce, come si vede bene nell’elaborata targa sopra il capo di Gesù.

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Alla fine dell’itinerario di Schwab e Grafton attraverso questi vicoli secondari del pieno Rinascimento, l’argomento centrale risulta più chiaro: la scoperta è tutt’altro che un semplice rinvenimento, i suoi contenuti sono ben altro che semplici reperti. La scoperta è infatti il compimento di un percorso di ricerca che era già iniziato (magari del tutto inconsapevolmente); è insomma il riconoscimento di qualcosa che si stava già cercando. 

E qui va ricordato quanto scrisse Warburg a proposito proprio del Laocoonte e del linguaggio formale che esprimeva agli occhi dei primi scopritori: “In modo del tutto errato si ritiene infatti che il ritrovamento del Laocoonte del 1506 sia una delle cause dello stile barocco romano del grande gesto, che in quell’epoca ha il suo inizio. La scoperta del Laocoonte è per così dire solo il sintomo esterno di un processo storico-stilistico che trova in se stesso la propria logica e sta allo zenith, non all’inizio della degenerazione barocca. Si trovò semplicemente quanto da tempo si era cercato nell’antichità e perciò si era trovato: la forma stilizzata in sublime tragicità per i valori-limite dell’espressione mimica e fisionomica”.

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